17/12/2023
«Non posso diventare un bravo sacerdote se non ho capacità di mettermi nei panni degli altri. Questo oramai l’ho imparato. Si parla molto di intelligenza emotiva: è la capacità empatica di immedesimarsi nei problemi e nelle fatiche della gente». Il primo a prendere la parola è Davide Barra, trent’anni, seminarista al terzo anno di Teologia. «Che tipo di prete voglio diventare? Non lo so ancora! Lo sto maturando durante il cammino…», gli fa eco Manuel Gagliardi, 24 anni, suo compagno di corso. Siamo nel seminario metropolitano San Giovanni Paolo II di Salerno, a Pontecagnano, inaugurato 24 anni fa dello stesso papa Wojtyla. «Il rettore, don Michele Di Martino, ci ha invitato a lavorare sul tema della fortezza», spiega Davide. Termine desueto ma estremamente attuale: «Relazione e fortezza sono due capisaldi per chi come noi aspira al sacerdozio».
I seminaristi che incontriamo a Pontecagnano usano un linguaggio non affettato e non preconfezionato; sono spontanei e consapevoli. Liberi eppure in cammino, dentro una struttura che li forma all’apostolato. «Ti faccio un esempio», ci dice Davide, «un gruppo di noi quest’estate ha vissuto per una settimana nel rione Sanità di Napoli con le suore di Madre Teresa di Calcutta: be’, lì, proprio lì, in mezzo a tanti senza fissa dimora, ti assicuro, la fortezza ci ha aiutato». In che modo, Davide? «Dovevi essere forte psicologicamente e fisicamente! Avvicinarti. Per esempio, avere il coraggio di far fare la doccia a delle persone in difficoltà. Questa cosa sembra una banalità ma non lo è per niente. In strada si vive una dimensione quasi carnale con le persone». Perché la teologia e la preghiera, il discernimento personale e comunitario, la dimensione intima e spirituale, perfino quella di uno studio accademico filosofico curriculare di grande eccellenza, «non sono tutto oggi per chi si prepara a diventare prete».
«Questi studenti devono avere la capacità di interpretare il mondo, mica un compito facile. Non si può vivere in una forma di spiritualismo asettico. D’altra parte gli apostoli furono chiamati per essere subito dopo mandati due a due», dice don Andrea La Regina, da due anni confessore stabile presso il seminario di Pontecagnano. Non è un caso che sia proprio lui ad introdurre il concetto di «spiritualismo asettico». Ex responsabile nazionale dei macro-progetti di Caritas italiana, da Roma due anni fa don Andrea è stato inviato, quasi in missione, a Salerno. I “suoi” seminaristi ogni sabato e domenica escono dalle quattro mura e si irraggiano nel mondo. «Vita in parrocchia, ritorno in famiglia, frequentazione degli amici e poi volontariato in Caritas sono i loro agganci con la vita reale», dice don Andrea. «Perché la carità», aggiunge Davide, «non è qualcosa che si ferma alla consegna del pacco alimentare». Entra dentro le relazioni, crea alleanze, solidarizza con la fragilità e personalizza l’annuncio.
A Pontecagnano ci sono 26 seminaristi, giovani ma non giovanissimi, poiché sono entrati in seminario in età adulta tra i venti e i trent’anni. Oramai è così in tutti i seminari d’Italia: secondo gli ultimi dati diffusi dall’Ufficio per la pastorale delle vocazioni della Cei, che risalgono al 2019, l’età media dei 1.804 studenti dei 120 seminari maggiori d’Italia è di 28,3 anni. Ma non mancano anche vocazioni decisamente più adulte, visto che un seminarista italiano su 10 ha più di 36 anni. Il 45% di chi chiede di diventare prete ha già frequentato l’università e il 43% ha lavorato. Insomma, sono persone tutt’altro che ignare di come funziona il mondo.
Il calo delle vocazioni presbiterali è una realtà: secondo i dati della Cei, nei dieci anni che vanno dal 2009 al 2019, la flessione dei seminaristi diocesani in Italia è stata di circa il 28%. In alcune regioni un tempo floride, come il Triveneto, il calo è stato anche più importante. Incide certamente l’inverno demografico italiano, visto che la popolazione maschile di età compresa tra i 18 e i 40 anni in quegli stessi dieci anni è scesa del 18%. Ma non è solo questo. Conta anche che le nuove generazioni frequentano sempre meno le parrocchie e in percentuali oramai rilevanti si dichiarano indifferenti o non credenti. E infatti il calo dei matrimoni religiosi è stato ancora più importante di quello delle ordinazioni presbiterali, se si considera che nel 2012 erano state celebrate in Chiesa 122 mila nozze, mentre solo 83 mila nel 2021.
Ma se quella dei Millennials e della Generazione Z è la «prima generazione incredula», come l’ha definita il teologo Armando Matteo, per certi versi è quasi un miracolo che ci siano ancora giovani che vogliono fare il prete. «Quelli che bussano ai seminari non sono giovani uomini in fuga dal mondo ma persone con una bella idealità e un desiderio sincero», assicura don Michele Gianola, 48 anni, direttore dell’Ufficio nazionale per la pastorale delle vocazioni e sottosegretario della Cei. «Certo, sono figli di questo tempo, con le loro fragilità e con storie più complicate di quelle del passato, che chiedono di essere accompagnati». [...]
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Continua a leggere l'inchiesta firmata da Maria Ilaria de Bonis e Paolo Rappellino sul numero di Jesus ora in edicola.
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