24/04/2024
[...] Loro ci sparavano addosso, dal loro comando, la collina delle case Borneto. Noi eravamo dalla parte opposta e in mezzo la gente, a guardare. A militare, come puntatore, avevo fatto le esercitazioni ma il contrasto tra le condizioni previste a scuola e quelle in cui mi trovavo era enorme. Se ci fosse stato il mio ufficiale mi avrebbe messo in prigione per due o tre mesi: ho violato tutte le regole possibili e immaginabili. Bisognava sapere con precisione le dosi di polvere, il fulminante, il proiettile ma in quel momento era impossibile E poi non c’era l’alzo: i tedeschi lo avevano distrutto prima di abbandonare il pezzo.
Qui – Ezio, per spiegarsi, usa una mappa presa da Tuttocittà – la collina, Morigallo, con le casette dette da Borneto. Qui c’è il Secca che viene giù, qui il Polcevera, qui il ponte sul Secca, qui la Camionale e il casello, qui l’ospedale Pastorino, poi la curva e la galleria dove stavano i tedeschi, snidati e portati via prigionieri, e dove stavamo noi: io, Johnson e qualche altro. Dalle case Borneto i tedeschi sparavano in tutte le direzioni. Battista, il prete, l’avvocato Costa erano andati con la bandiera bianca a chiedergli la resa ma loro non ne volevano sapere. Dentro la nostra galleria c’erano due cannoni, mi sembra 105 o 110. Ho detto a Battista: c’è un cannone; se le mitragliatrici da 20 non servono, un cannone... Lui mi ha guardato come a dirmi: ma chi lo fa sparare? Ci penso io, gli ho detto. Posso? E lui, dubbioso: va beh. Ma... sei sicuro?
Prima di armare il cannone l’ho tenuto in galleria. Poi ho puntato ma c’era una curva e non sapevo dove appoggiarlo. Era un cannone da campagna, con delle ruote di ferro e i sedili per i soldati, come quelli della guerra ’15-’18. C’era il problema della polvere, dei fulminanti. In galleria ce n’era ma in un caos indescrivibile. Cerco quello che serve: la polvere era nei sacchetti, dischi già predisposti. Mi sono detto: proviamo con due sacchetti. Poi la stoppa. Trovo anche i fulminanti. Alla fine lo spingiamo fuori dalla galleria ma avevo fatto un errore: non avevo pensato, prima di metterlo in posizione, di guardare dentro la canna. In mancanza di alzo guardare dentro la canna è l’unico modo per puntare.
Sono andato a occhio, sopra la volata. Di là intanto continuavano a spararci. Mi riparavo dietro lo scudo. Non conoscevo il mezzo ma ero sicuro di saper sparare. In testa io e gli altri che erano con me avevamo un elmetto tedesco dipinto di rosso col minio. Ce li avevano dati quelli delle SAP. Pioveva. Ho negli occhi la terrazza dell’Ospedale: medici, malati, infermieri tutti lì, sotto la pioggia ad aspettare che il colpo partisse. Avevano visto che armeggiavamo mentre, chissà come, si era sparsa la voce che avremmo sparato con un cannone. Avevo calcolato lo sbandamento del cannone e ho raccomandato agli altri di mettersi tutti da una certa parte. Andrà a finire qui, gli ho detto. Ho legato una corda al revolver, ho mirato al centro della collina, sono andato distante e ho tirato. Una atmosfera d’attesa, come se in quel gran caos per un attimo si fosse fermato tutto; tutti in silenzio: solo il rumore della pioggia e loro che continuavano a sparare da matti. Tiro la corda, parte il colpo. Il cannone fa un casino impressionante, picchia nel muro e storce lo scudo ma alla fine si ferma. Battista coi binocoli cerca l’effetto. Niente; il colpo era finito dietro la collina, sopra a chissà chi. Mi ha guardato dubbioso ma io ho ricominciato, tranquillo: questa volta ero sicuro di fare centro. Ho rimesso il cannone in posizione, ho guardato dentro alla canna, ho mirato bene e abbiamo sparato di nuovo: il primo colpo è andato al centro delle villette e il secondo è entrato in una delle finestre. Battista era emozionato: guardava ora il bersaglio ora me.
Il pubblico, quello della terrazza dell’ospedale, urlava, applaudiva, salutava con dei gesti delle braccia. Altre persone si erano ammucchiate nei punti da dove si vedeva la scena. Abbiamo sparato ancora 3 o 4 colpi fin quando loro hanno alzato la bandiera bianca. A quel punto c’è stata una ovazione ma noi avevamo già il colpo in canna. Un proiettile con la spoletta. E chi lo levava? Intanto un sacco di gente si era messa a correre verso la collina dove i tedeschi si dovevano arrendere. Non era solo la guerra; era una corsa alla roba, viveri, vestiti, strumenti. Fame ma anche commercio: ormai la borsa nera era entrata nel DNA. Io il colpo non lo levo, ho detto; e un altro: ormai che c’è glielo tiriamo lo stesso, dai. Dopo tutto anche loro avevano sparato su quelli che andavano a parlamentare con la bandiera bianca. E così gli abbiamo spedito anche quello.
Battista, dopo la loro bandiera bianca, era corso là a vedere: c’erano ufficiali, camion, macchine: una cosa seria. Lui era il comandante militare, era il momento della gloria. Poi è ritornato indietro e ci siamo visti dov’era la sede delle Brigate nere. È stato allora che mi ha dato il binocolo. Lo stesso che porto al collo nella foto riportata sul libro di Balestreri mentre scortiamo i prigionieri tedeschi.
Il trattore, che si vede nella foto che trascina il cannone, lo avevamo preso a Morigallo. Dopo la resa di Bolzaneto la voce che avevamo un cannone si era sparsa. C’era stato un accavallarsi di richieste: tutti ci volevano per snidare gli irriducibili. Ma i camion erano stati sabotati, gomme, motori a pezzi. Quel trattore invece aveva le gomme piene e miracolosamente funzionava. Abbiamo agganciato e siamo partiti: col trattore pieno di proiettili, polvere, fulminanti; un rischio enorme. E la gente in giro che faceva ala, applaudiva, ci buttava i fiori: un trionfo. Al Campasso il trattore si è sganciato. Io e Ramon, seduti sul cannone che era attaccato a rovescio, siamo finiti col timone in una farmacia. Una figura barbina ma noi invece giù a ridere. Avevamo vent’anni, eravamo felici, ridevamo come matti. E tutti ridevano con noi. Abbiamo riattaccato mentre tutti continuavano a ridere e applaudire. Era una grande festa, la nostra, la loro.
Così fino a Sampierdarena dove, nella curva di viale Canepa, abbiamo piazzato il cannone. Dietro un silos di vini con i muri tutti scavati dalle schegge c’era un deposito di mine marittime e dentro un gruppo di tedeschi che non voleva mollare. Solita preparazione e poi tiro, un colpo, due, tre... Al terzo una esplosione indescrivibile, mai sentita, mai vista: tutte le persiane di Sampierdarena, tutti i vetri di Sampierdarena, tutti i cornicioni di Sampierdarena si sono messi a salire in una nuvola enorme sopra di noi. Noi, col nostro elmetto rosso, la guardavamo salire a bocca aperta, stupefatti per le conseguenze catastrofiche di quel colpetto da niente. Dentro c’era di tutto, ma proprio tutto: spranghe di ferro, secchi di legno, scale. Ci siamo buttati in un portone prima che tetti, cornicioni, la roba di tutta Sampierdarena cominciasse a pioverci in testa. Il deposito di mine era esploso, polverizzato.
Stavamo per tornare a casa col nostro cannone quando quelli della brigata Buranello ci hanno detto: c’è ancora un lavoro da fare alla Lanterna. In un casino inimmaginabile, rimettiamo il cannone su viale Canepa e coi binocoli cerco di individuare il punto. Sotto la Lanterna c’erano delle casematte. Quelle, chiedo io? E loro: no, più su, più in alto. Guardo e vedo che più su ho dentro la Lanterna. Se sparo così, dico, butto giù la Lanterna. Non lo faccio. E loro: Alua, ciù vixin che ti peu (allora più vicino che puoi). Comincio a ba***re da sotto e poi piano piano salgo. Poi ho detto: no, basta, non sparo più, non voglio passare alla storia per quello che ha tirato giù la Lanterna. Perché le cannonate, come i colpi di mortaio, anche solo vicine, qualche effetto lo hanno comunque.
[...] Mi sembra che le emozioni del proprio vissuto non si riescano a trasmettere. Nel racconto tutto diventa astratto. La drammaticità di un episodio di un cannone rimesso in batteria in condizioni improbabili e utilizzato con modalità assurde, da fucilazione, si perde... Invece per me quello è stato il momento centrale della Liberazione: ero il protagonista e toccava a me prendere le decisioni. Una situazione appagante ma anche drammatica: la gente intorno aspettava il finale ma io avevo la preoccupazione che saltasse tutto; l’atmosfera era pesante, carica di attesa, di paura poi di colpo, con la resa, il clima è cambiato, grida, applausi, abbracci; tutte cose che però prendono significato solo dal dramma precedente.
"La sega di Hi**er. Storie di strani soldati", di Manlio Calegari (Editpress , Storia Orale 03).
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