29/06/2024
...e sono qui per raccontarlo
Ci eravamo sentiti per gli auguri di Natale lasciandoci con la solita promessa di vederci presto di persona. Non è stato. Un messaggio di Anna, la figlia, mi dice che Angelo, Angelo Cozzi, non è più tra noi. Posso affermare, con ambiguo ossimoro, che lo conoscevo ancora prima di conoscerlo. Erano gli anni nella seconda metà del secolo passato. Seguivo i suoi reportage in giro per il mondo. Era l’epoca dei grandi settimanali e dei grandi inviati. Lui era tra quelli. Negli anni ottanta, lavoravo per le riviste di fotografia, l’incontrai per mestiere. Fu presto amicizia. E iniziarono serate di chiacchiere sul sofà nella sua bella casa con vista sui tetti di Milano. Alle pareti una ricca collezione di quadri naif. Ricordi, episodi che ne delineavano il carattere e il suo modo di essere uomo e professionista. Uomo alieno da compromessi, professionista meticoloso…anzi di più. Spesso quelle serate erano materiale che finiva nelle pagine dei mensili di fotografia che, nel corso degli anni, mi trovai a dirigere. Ironico e gentile non mancava mai di fare la battuta: “…questo ricordalo quando scriverai il mio coccodrillo”. Ed erano risate e scongiuri. Quel momento è venuto. Tra tanti solo qualche evanescente ricordo. Spigolature. Ognuna meritevole di ben maggiore spazio ma, come amava dire Angelo, citando l’amato Kipling “…questa è un’altra storia…”.
“….Era il quartiere di Porta Ticinese, dove aveva sede l’agenzia Farabola. Nelle vetrine esponeva le foto di cronaca. Mi fermavo sempre a guardarle. Mi interessavano. Un giorno presi coraggio ed entrai. C’era Tullio Farabola, figlio del proprietario. Dissi che volevo lavorare nella sua agenzia. Mi piaceva l’idea di stare accanto a nomi già famosi nel campo del reportage: Del Grande, Pascuttini.…vieni domenica - mi disse Farabola - e ti faccio riprendere le partite di calcio. La domenica ero in agenzia, emozionato per il lavoro da vero fotografo che mi aspettava. Mi consegnarono una Bektar, fotocamera a lastre 10x12, costruita a Milano da Bettoni&Rigamonti. Era quanto di meglio ci fosse, almeno da noi….”.
Non so come Freud avrebbe battezzato la sindrome, ma da allora Angelo odiò il calcio. Nel suo archivio trovavi di tutto: dalle guerre alle attrici; dal turismo agli elettrodomestici, non una foto di calcio
…..Finché arriva la grande occasione: novembre 1951, alluvione in Polesine. Angelo ha diciassette anni e ci va in divisa da boy scout. Era veramente boy scout ma, la scelta di andarci vestito in quel modo era già una delle sue astuzie da reporter di razza. Poteva confondersi con i soccorritori…
…Ti fissava con quei suoi occhi azzurri e lo sguardo da timido. Ho potuto leggere alcune lettere che mandò a editori e clienti per chiudere un rapporto: finali e definitive. Lo stesso accadeva quando troncava un rapporto personale: finale e definitivo. Dio ci guardi dall’ira dei mansueti….
Da una divisa all’altra: quella da boy scout lo aiutò in Polesine. Quella da marinaio l’aiutava… quando se la toglieva. Non è un gioco di parole. In una lettera, con timbri e controtimbri, lo Stato Maggiore autorizza il sottocapo Angelo Cozzi all’espatrio per diporto. Era una missione, camuffata da vacanza, nell’Egitto degli anni Cinquanta. Doveva riprendere, da turista, le navi sovietiche. Nel medesimo periodo lo troviamo anche rannicchiato sotto il bancone del controllo passaporti di Ciampino, allora aeroporto di Roma, mentre fotografa i documenti di certi sedicenti uomini d’affari e turisti provenienti dall’Est. Eravamo in piena Guerra Fredda e la Rollei 6x6, dotata di lenti addizionali, era quanto di più tecnologicamente avanzato ci fosse, per copiare velocemente passaporti e fototessere.
“….la notte prima di partire per Saigon ricevo una telefonata dalla Italcable di Roma. La centralinista, un po’ titubante, mi avverte che è arrivato a mio nome un cablogramma, evidentemente cifrato. Porta la firma Egisto Corradi. Può leggermelo al telefono? Permesso accordato. Iniziò a leggerlo. A stento non scoppiai in una risata. Corradi, il grande inviato del Corriere della Sera mi pregava di mettere in valigia formaggio e caffè. E le parole significavano esattamente quello che dicevano: da tempo obbligato alla cucina vietnamita aveva un gran voglia di un po’ di sapore italiano. Altro che cablo cifrato; anche se arrivava da una zona di guerra e, presumibilmente, sottoposto a censura….”.
Angelo iniziò in questo modo, leggero, a raccontarmi il suo Viet-Nam. Un modo per esorcizzarne le brutture. Angelo non parlava volentieri delle sue esperienze di guerra. Aveva una dolorosa ritrosia nel tornare con la memoria ai momenti vissuti. Ananke e pìetas si alternavano, forse inconsapevoli. Il Destino dei Greci temperato dalla Pìetas dei Romani. Sono stato suo amico e sono qui per raccontarlo…ricordi, spigolature…chissà, forse un giorno ci rivedremo ma... quella…sarà un’altra storia.