17/03/2024
Sara Del Corona intervista Alessandro Amaducci sulle sigle delle serie TV
Pubblicato: 15/03/2024
https://www.marieclaire.it/attualita/news-appuntamenti/a60185859/sigle-delle-serie-tv/
Da quella "storiografica" di Manhunt, ora in uscita, alle apripista dei primi anni Duemila: come vengono fatte, cosa raccontano e perché a volte le sigle diventano più importanti delle storie per cui vengono inventate.
[...] E vale la pena addentrarsi ancora un po’ in questo territorio, che diventa sempre più vasto man mano che si moltiplicano le produzioni seriali e i loro linguaggi, facendo qualche domanda ad Alessandro Amaducci, esperto di videoarte, videoclip musicali e cinema digitale, docente del DAMS di Torino e autore del libro Sigle di serie tv (edito da Kaplan).
Chi fa le sigle delle serie?
Se ne occupano degli studi, gruppi ristretti di persone con varie competenze soprattutto di computer grafica, ma il creative director è poi di fatto l’autore, colui che viene citato quando se ne parla.
Chi sono secondo te tre autori particolarmente significativi, e perché?
Il primo autore in assoluto è Patrick Clair. Per la quantità significativa di sigle prodotte ma anche e soprattutto perché ha inventato soluzioni stilistiche-grafiche che sono state e sono tutt’ora dei punti di riferimento. La prima che ha realizzato per la prima stagione di True Detective (2014) è il suo più grande successo. I visi e i corpi dei due protagonisti (Woody Harrelson e Matthew McConaughey) diventano delle statue quasi immobili, fotografie in tre dimensioni, immerse nei paesaggi desolati della Louisiana, fra paludi e zone deindustrializzate. Gran parte del materiale visivo non proviene dalle scene effettivamente girate ma da fotografie di scena di location, attori e situazioni successivamente scartati. Un dettaglio che stabilisce una sorta di precedente: la sigla, pur essendone una sintesi, è contemporaneamente un oggetto sganciato dalla serie, gode di una sua autonomia creativa, perché può essere fruita come un breve video musicale: all’epoca (2014) l’emittente televisiva HBO la caricò sul suo canale Youtube ottenendo un numero molto grande di visualizzazioni, e da quel momento è diventata una sorta di nuovo genere audiovisivo da fruire online. Lo stile di Patrick Clair è inconfondibile anche perché mette in relazione due temi astratti e spesso simbolici che si incontrano o si scontrano visivamente. In True Detective i personaggi con il loro ambiente, in L’uomo nel grande castello (The Man in the High Castle, 2015) due linee temporali storiche in conflitto fra loro, in Westworld – Dove tutto è concesso (Westworld, 2016), il mondo artificiale con quello naturale, in The Night Manager (2016) il mercato del lusso con quello della vendita delle armi, in Inverso-The Peripheral (2022) il presente con il passato.
l secondo è Angus Wall, un “veterano” che ha frequentato il mondo del cinema: è il montatore della sigla di Seven (1999) di David Fincher, che è una sequenza di titoli di testa che ha fatto la storia del cinema. Per la sigla delle serie Carnivàle (2003), dove si narrano le vicende di un circo itinerante nell’America degli anni Trenta, Wall visualizza dei tarocchi realizzati in computer grafica alternati a filmati di repertorio d’epoca. I tarocchi sono dei collage digitali dove vengono tagliati e incollati numerosi frammenti di quadri di periodi completamente diversi, così come nella sigla di Rome (2005) dedicata agli ultimi anni della vita di Giulio Cesare, la sintesi tematica diventa l’animazione di scritte e disegni sui muri delle strade di Roma antica. Dichiarazioni d’amore, dediche sofferte a partenti morti in guerra, disegni e ritratti diventano la testimonianza di una surreale “street art” dell’epoca che denuncia quel livello della Storia, ovvero le sofferenze dei popoli che la subiscono, che raramente viene raccontato. La sigla più famosa di Angus Wall resta sicuramente quella realizzata per Il trono di spade (Games of Thrones, 2011), che diventa un libro pop-up digitale dove ogni singolo elemento si anima davanti agli occhi dello spettatore.
Il terzo è importante perché fa scelte quasi interamente astratte: Teddy Blanks, l’autore delle sigle della seconda (2015) e quarta stagione (2018) della serie Mozart in the Jungle. Sono diverse per ogni puntata, è il fenomeno della “serializzazione” della sigla stessa.
Che funzione ha la sigla nell’esperienza della fruizione di una serie?
Che la si guardi con attenzione o meno, è come la copertina di un libro. È il marchio di un brand. O, come si dice con un termine televisivo, è l’ “ident” , ovvero il logo o un’immagine che identifica un determinato canale televisivo. Dovendo rappresentare l’identità di una serie, la sigla adotta da un lato un linguaggio di sintesi perché deve dare alcune informazioni, dall’altro deve suggestionare il pubblico, emozionarlo per farlo entrare in un’atmosfera. Le informazioni che una sigla può o deve dare fin da subito è il genere: fantascienza, horror, crime, history, solo per citarne alcuni; la presenza di volti particolarmente noti; indizi sulla trama o sul contesto narrativo; in ultimo, ma è la cosa più importante, l’atmosfera.
Anche le sigle possono essere divise in generi?
Sì, potrei fare questa classificazione. Quelle che in maniera creativa rielaborano scene della serie (la sigla di Lutz Lemke per Dark, 2017) o creano dei ritratti di attori famosi (la già citata sigla di Patrick Clair per True Detective). Sigle che sintetizzano simbolicamente la serie utilizzando elementi che non sono presenti nella serie stessa (vedi Simon Clowes per Elementary del 2012, dove viene visualizzato in modo simbolico il funzionamento della mente di Sherlock Holmes). Sigle create con un’operazione di montaggio di materiali non originali, il cosiddetto “found footage”, come la sigla di Rhyn Ernst per Transparent (2014) o quella di Leanne Dare per Masters of S*x (2013). Infine le sigle totalmente astratte, e per fare un esempio diverso da quelle realizzate da Teddy Blanks potrei citare Saskia Marka per La regina degli scacchi (The Queen’s Gambit, 2020) o sempre Angus Wall per The Morning Show (2019).
E come stanno cambiando?
L’introduzione della funzione “skip titles” ha diffuso un po’ di panico fra i realizzatori di sigle di serie tv. Al contempo le piattaforme non hanno smesso di investire sulle sigle: sono comunque importanti. È avvenuto da un lato un aggiustamento delle durate, dall’altro l’incentivazione a una maggiore creatività, e in ultimo la spinta a realizzare sigle che cambiano ogni puntata. Sono lontani i tempi per cui, ad esempio, la sigla di Steve Fuller e Peter Frankfurt per The Pacific (2010) poteva protrarsi per due minuti e mezzo. La durata media si era assestata su un minuto e mezzo: ora si lavora decisamente su un minuto, e anche meno. Ma a parte questo, in generale mi sembra che ci sia attualmente da parte delle piattaforme una richiesta di maggiore impegno soprattutto creativo. Le sfide sono tante: da un lato attirare un pubblico che ha una soglia di attenzione sempre più bassa, dall’altro affrontare l’onda d’urto dell’intelligenza artificiale, che per ora ha invaso, nel bene e nel male, il mondo della grafica statica, ma che sta cominciando rapidamente a diffondersi nella produzione di immagini in movimento.
La tua sigla preferita di sempre?
In assoluto, per ora, quella di Patrick Clair per American Gods (2017). La serie, tratta dall’omonimo romanzo di Neil Gaiman, narra della guerra sotterranea fra divinità antiche legate a varie tradizioni, capitanate da Odino, e le nuove tracotanti divinità del mondo contemporaneo: Mondo, Media, Internet, Tecnologia. Patrick Clair costruisce in computer grafica un enorme totem dove sono posizionate diverse statue di divinità frutto della combinazione di icone religiose o mitologiche del passato e oggetti tecnologici. Nessuna di queste statue rappresenta personaggi presenti nella serie o nel romanzo, sono tutte figure inventate, un caso piuttosto significativo che testimonia quanta libertà ha conquistato nel tempo la figura creativa di Patrick Clair, alla quale sia la piattaforma sia gli showrunner concedono una sostanziale carta bianca. Lo scontro fra divinità arcaiche e divinità tecnologiche si riassume nell’invenzione di altrettante divinità frutto della combinazione di elementi tradizionali e iper-moderni. La sigla è molto concitata e le singole statue si vedono per qualche frazione di secondo: ogni volta che lo spettatore la guarda, scopre dettagli diversi. È un'operazione altamente concettuale e visivamente affascinante che opera per associazioni: un astronauta crocifisso; la Madonna rivestita di tessuto di silicio; Ninfe che si fanno i selfie; Aibo, il cane-giocattolo della Sony, nella posizione della Sfinge; i capelli della Medusa fatti di fibre ottiche luminose; Ariete, il dio della guerra, assiso su due “muscle car”, che imbraccia una balestra caricata con un missile nucleare. Per me, un capolavoro.