23/09/2023
L’ ATTUALITÀ TRA MEMORA E PRESENTE.
INTERVISTA ALLO STORICO E CRITICO D’ARTE MASSIMO BIGNARDI*
di CORRADINO PELLECCHIA
Ogni anno le nostre università sfornano oltre cinquemila aspiranti “storici dell’arte” o “critici d’arte”, un record mondiale. Per approfondire il senso di questa professione, incontro Massimo Bignardi, storico e critico d’arte contemporanea, già professore di Storia dell’arte contemporanea presso l’Università di Siena ove per diversi anni ha diretto la Scuola di Specializzazione in Beni storico artistici. Dal 2003 è direttore del Museo-FRaC Baronissi (Fondo Regionale d’Arte Contemporanea) e di geaArt, periodico di cultura, arti visive, spettacolo e nuove tecnologie creative, curatore di numerose e pregevoli mostre. Bignardi, da qualche anno in pensione, mi accoglie nel ‘buen retiro’ di Sieti, dove trascorre i fine settimana a catalogare gli oltre quindicimila tra cataloghi, schede e volumi, che affollano due piani dell’abitazione. Iniziamo la nostra chiacchierata sullo stato dell’arte e della critica, in giardino, dove siamo scesi per cercare un po’ di refrigerio dal caldo opprimente di questo torrido agosto.
Quando e come è nato il tuo interesse per l’arte.
“Non ho una data precisa. Quella che ricordo con un gran sorriso è la premiazione, a Palazzo di Città, a Salerno, nel Salone dei Marmi, di un mio dipinto. Avevo undici o dodici anni, il premio era ‘Per la Giornata dell’Anziano’ e a consegnarmelo fu il sindaco Alfonso Menna: un cavalletto semi-professionale e una grande scatola di colori ad olio. Così mi trovai pittore a mia insaputa. La passione e poi l’amore per la storia dell’arte e, in generale, per la storia e la filosofia, la devo a mia sorella Annamaria. È stata lei a guidarmi e a sollecitarmi, con la complicità di mio padre che, ci portava (sono l’ultimo di sei figli) in giro per l’Italia a visitare musei. Mi sento molto fortunato a pensare che avevo solo sette anni, quando visitai gli Uffizi, le Stanze Vaticane e il Museo Archeologico di Napoli”.
Quando hai capito che l’arte da passione sarebbe diventata professione.
“L’ho compreso, quando ho osservato gli errori presenti nei miei primissimi articoli, inviati, al tempo, a La Gazzetta di Salerno. I numerosi attacchi da parte di giornalisti o pseudo tali, che scrivevano sui quotidiani salernitani degli anni Settanta, mi hanno insegnato l’umiltà di sapersi rileggere e correggere e mi spinsero ad andare fuori, in città dove l’acidità e gli applausi familiari non avessero più presa su di me”.
Come scegli i progetti e gli artisti da seguire.
“L’empatia fa da guida ad ogni mia scelta. Poi il metodo, quello è qualcosa che si modella alle domande che le opere mi pongono o che io pongo loro. È un discorso tra muti”.
Quale artista del passato vorresti incontrare.
“Non saprei. In fondo, lavorando principalmente sulla storia dell’arte del XX secolo, li incontro quasi tutti, chi con maggiore frequenza, chi un poco meno. La bellezza della storia dell’arte, in modo particolare, è che le opere parlano al presente, così come lo fanno i rispettivi autori. La storia ci permette di conoscere i tempi della narrazione e questo è un gran vantaggio per parlare con le opere”.
Di un artista vieni colpito dall’opera o dalla sua personalità e chi ti ha dato di più dal punto di vista umano.
“È l’impatto con l’opera che assume il ruolo di primo ed essenziale documento dell’incontro con l’artista. È difficile stendere una classifica. Certamente, ho due punti fermi: Enrico Crispolti, grande storico e critico dell’arte contemporanea, mio maestro, e il pittore Mario Carotenuto, al quale mi ha legato un sodalizio intenso. Due figure chiavi per comprendere ciò che sono state le mie scelte di vita. A Mario devo la capacità di leggere la sintassi che tiene insieme le parti, i gesti, le pennellate, i colori, le forme di una composizione pittorica; ad Enrico, l’analisi di me stesso nel mio tempo, vale a dire comprendere ogni istante del quotidiano ed interrogarsi sulla propria identità esistenziale”.
Ti sei mai ricreduto su un artista?
“Si! In alcune occasioni. Più che ricredermi, ho rivisto il mio punto di osservazione, sfrondando l’aneddotica che avvolgeva il suo vissuto o cercando di separare, razionalmente, ciò che osservavo, cioè le opere, dalla descrizione fatta dall’artista che, molte volte, era fuorviante”.
Recentemente hai curato i due volumi che raccolgono gli scritti di Enrico Crispolti. La sua figura quanto ha segnato il tuo percorso di curatore e critico d’arte.
“Enrico è stato fondamentale per la mia formazione; a lui devo molto, al di là di dell’esperienza della Scuola di Specializzazione in Beni storico artistici dell’Università di Siena, della quale, dopo i due decenni della sua direzione, ne sono stato il direttore. Il dato fondamentale del suo insegnamento è stato l’attenzione rivolta a immaginare un ‘futuro’ che, nel corso del primo decennio del nuovo millennio, è stato utile, perché poneva una riflessione su quanto era accaduto negli anni Ottanta e Novanta. Non una verifica del nostro lavoro, ossia controllare le oscillazioni teoriche che hanno poi trovato, in molti casi, la loro vuotezza, tanto meno per tentare di accreditare traiettorie di coerenza, quanto per comprendere il processo di livellamento globalizzato (di dismissione dell’identità), degenerazione del protagonismo di una critica che ha consacrato la decadenza di un secolo oramai giunto al capolinea. Abbiamo lavorato con gli studenti, nell’intento di mostrare loro quelle esperienze che hanno disperso, nelle maree di opportunità solo spettacolari, l’identità che è propria dell’arte, che si salda alle prospettive dell’uomo. All’impero dell’ideologia che, anche dopo il Sessantotto, scandiva i toni del dibattito, ha fatto seguito una critica comparsa con irruenza sulla scena più celebrata dei media, la televisione, luogo ascensionale della necessità di una continua autocelebrazione, ai fini dell’accreditamento nelle sfere alte del sistema dell’arte e per esso il punto terminale rappresentato dal mercato”.
Hai alle spalle una vita dedicata all’insegnamento nelle accademie e nell’università. Come ti sembrano le nuove generazioni di studenti.
“Ho avuto la fortuna di lavorare sia nelle Accademie di Belle Arti, da Catanzaro a Reggio Calabria, a Urbino, per poi quasi dieci anni a Brera e, infine, a Napoli, tutto dall’alba degli anni Ottanta fino al 2005, quando ho iniziato la mia docenza presso l’Università di Siena, dove ho insegnato per vent’anni. Lo scenario della contemporaneità si palesava ai miei occhi, dapprima nelle vesti di docente di storia dell’arte di studenti i cui sogni erano quelli di ascendere alla fama internazionale, come pittori, scultori, scenografi, eccetera: diversi di loro, quest’obiettivo l’hanno raggiunto o sfiorato. Con gli studenti che hanno frequentato i miei corsi triennali, magistrali e, infine, la specializzazione, il confronto è stato diverso. Avevo di fronte futuri storici o critici d’arte contemporanea e quindi avevo l’obbligo di porre insieme riflessioni sul destino della storia e della critica, di osservare paesaggi mutevoli e molteplici, dai quali guardare la contemporaneità, anche se la scena di fondo restava e resta la metropoli, con i suoi ritmi accelerati, i suoi conflitti, come li aveva inquadrati Mitscherlich, che si annidano nelle laiche ritualità, oggi ancora più estese all’etere. Entrare in questa sfera, malgrado tutti i vantaggi che essa comporta, significa piegarsi al dominio delle idee (oggi la stratosfera creativa) e delle conoscenze assunte, però, come avverte Rifkin, unicamente quali ‘principali generatori di ricchezza’ ”.
A Salerno hai organizzato le mostre “Mediterraneo Mirò” e “Pablo Picasso. I ‘luoghi’ e i ‘riti’ del mito”. Poteva essere l’inizio di un discorso alto per la città, invece…
“Invece niente! È solo un bel ricordo, un’esperienza che spinge a meditare su cosa sono gli intellettuali, cos’è la politica, chi sono i nostri amministratori. Partirei dagli intellettuali, da una particolare specie di intellettuali, i radical chic, quelli che in nome della democrazia fanno i peggiori danni alla comunità. Ricordo, nel caso della citata mostra dedicata a Picasso, di un professore universitario di filosofia che, senza vedere la mostra, ma solo per sentito dire, dichiarò ad un giornale che la mostra non meritava. Pensai lungamente a quella espressione e compresi la vuotezza di quegli insegnamenti che proclamava nelle sue lezioni. Il racconto di quella stagione lo conoscono oramai in pochi; i giovani, quelli che oggi sono ventenni, ne sanno ben poco, solo lontani echi”.
Picasso è stato il più grande o il più celebre artista del XX secolo?
“Non direi. Picasso ha espresso molto, soprattutto ha avuto la capacità di porre l’eclettismo come riflessione etica sul proprio tempo. L’Olimpo dell’arte plastica del XX secolo è gremito di personaggi che hanno contribuito ad aprire grandi, immensi varchi all’immaginazione dell’uomo, che ha vissuto il tempo lungo del ‘secolo breve’ ”.
L’arte e la bellezza possono modificare o influenzare il modo di vivere.
“È dall’età della caverna, dal toro di Altamira, dai 6500 figure della grotta di Lascaux, che l’uomo produce immagini del suo tempo per trasmettere il senso dell’avvenire. Millenni che l’arte parla all’uomo, ed eccoci qua ancora a parlare di bombe, di missili, di possibilità che l’atomica scenda in campo. Questo non vuol dire che dobbiamo abbandonare gli artisti, sperare di vedere e rivedere sempre le loro opere. Evito, però, di usare in modo strumentale l’arte”.
Quanto è importante la scrittura nella critica d’arte.
“Molto, però la bella scrittura non deve essere il pretesto per scrivere testi, recensioni, articoli, dai quali traspare la disinformazione. La critica e la storiografia dell’arte hanno principi inderogabili”.
Cosa non tolleri della critica d’arte o pseudo tale dei nostri giorni?
“Detesto il saccheggio, ossia il far proprio il lavoro che è stato fatto da altri. Così mi è capitato di vedere riproduzioni di opere, in parte fotografie da me realizzate, di disegni o di dipinti appartenenti alla mia collezione, indicate in archivi inventati al momento. Oppure interi brani di saggi scritti oltre trent’anni fa, appena rivisti e ripubblicati come propri. Il dato peggiore è quello che, non per negligenza o per vanagloria, l’omessa citazione o l’intera dimenticanza è voluta, come è capitato qualche anno fa parlando del lavoro di Ugo Marano, al quale il MuseoFRaC Baronissi, in collaborazione con la Scuola di Specializzazione dell’Università di Siena e con la mia curatela scientifica, ha dedicato la più grande mostra antologica. In quell’occasione, è stata pubblicata una importante monografia, contenente saggi di alto rilievo scientifico, che hanno fatto piazza pulita dell’aneddotica che avvolgeva la figura di Ugo. L’antologica era allestita in tre sedi: al Museo-FRaC, la scultura e il design, alla Torre di Cetara-Museo Civico, la pittura e la collezione del MuseoVivo, a Villa Guariglia, la sezione dedicata alla ceramica. Non mi sembra un evento da poter dimenticare. Un improvvido professore che un tempo insegnava nell’Ateneo salernitano, forse con una punta di acido - anche gli intellettuali nei panni delle ‘vedove’ dell’artista scomparso e, soprattutto se esclusi, sono presi da tali regressioni, avrebbe detto Freud - cinque anni dopo ha condiviso l’idea che Marano fosse stato dimenticato e parla di un ‘ritardo della critica corrente’. Beh, è quanto dire sulle sue pretese conoscenze!”.
Qual è un possibile nuovo orizzonte verso il quale proietteresti l’attività dello storico e del critico d’arte?
“Quello dello storico e del critico d’arte sono approcci inscindibili tra loro: lo storico con il suo lavoro svolge le funzioni di critico, in quanto fa una scelta dei documenti, li organizza dando loro un valore, quindi un giudizio. Il critico esprime un giudizio in un preciso momento, segnando una pagina di storia piccola o grande che sia. Oggi, che il tempo di contatto con gli studenti si è esaurito, perché è sopraggiunta la pensione, con alcuni giovani artisti, mi sono posto la domanda: “Cosa può o potrà la critica in uno scenario addivenire?”. Ciò, sia rispetto alla perdita della sua identità nel dialogo del pressante affermarsi dei nuovi media, sia riguardo alla scompaginata prospettiva che si propone nell’attualità, nell’odierno scenario, ove si segnala l’urgenza di una effettiva azione che richiami in sé una partecipazione non verticistica, calata dall’alto e quasi sempre auto celebrativa, bensì pronta a porsi come compartecipe di un processo di comprensione, che non significa di traduzione o d’interpretazione ‘estetologica’, quanto di un’affermata identità esistenziale nel proprio presente. V’è la necessità di una critica che, come ha richiamato in più occasioni Jean Clair e, tempo addietro, nel suo Inverno dell’arte, si sganci dall’orizzonte dell’economia che ha piegato la storia, come avvertiva François Furet in chiusura di secolo scorso, all’oscillazione quotidiana della borsa, riportando l’arte al suo valore d’uso, di testimonianza. L’identità di un critico d’arte, così come quella dell’artista, dovrà rispondere ad un’effettiva e partecipata necessità esistenziale, interrogandosi sul futuro e sul destino che la propria esperienza testimonierà”.
E per il futuro? La curatela a Milano, per il triennio 2023-25, delle mostre e dei cataloghi del prestigioso Premio Bice Bugatti-Segantini, la realizzazione del Museo della ceramica contemporanea mediterranea (MCCM) a Cava de’ Tirreni progetto condiviso con François Burkhardt e, poi, altri libri da scrivere, altri incontri con pittori, altre mostre da allestire, altre conferenze in giro per l’Italia e tante telefonate con ex alunni che gli chiedono consigli. Un futuro, senza ansia, anzi con il sorriso, dove ci sarà tempo per godersi i nipotini, coltivare il suo piccolo orto di Sieti e veleggiare sulle onde del mare verso le mete del cuore.
*Brani tratti dall’intervista pubblicata in “Eventi”, del 8 settembre 2023.