Gender o non gender: è questo il problema?

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Gender o non gender: è questo il problema? Articolo su decostruzione della "teoria del gender" pubblicato sulla rivista "Psicologia Contemporan

18/09/2024

Rispetto alle recenti indicazioni del governo contro la promozione di una cultura delle differenze in ambito scolastico condivido un documento diffuso nel 2015 dall’AIP (Associazione Italiana Psicologi) sulla rilevanza scientifica degli studi di genere e orientamento sessuale e sulla loro diffusione nei contesti scolastici italiani

Oggi si assiste all’organizzazione di iniziative e mobilitazioni che, su scala locale e nazionale, tendono a etichettare gli interventi di educazione alle differenze di genere e di orientamento sessuale nelle scuole italiane come pretesti per la divulgazione di una cosiddetta “ideologia del gender”.
L’AIP ritiene opportuno intervenire per rasserenare il dibattito nazionale sui temi della diffusione degli studi di genere e orientamento sessuale nelle scuole italiane e per chiarire l’inconsistenza scientifica del concetto di “ideologia del gender”. Esistono, al contrario, studi scientifici di genere, meglio noti come Gender Studies che, insieme ai Gay and Le***an Studies, hanno contribuito in modo significativo alla conoscenza di tematiche di grande rilievo per molti campi disciplinari (dalla medicina alla psicologia, all’economia, alla giurisprudenza, alle scienze sociali) e alla riduzione, a livello individuale e sociale, dei pregiudizi e delle discriminazioni basati sul genere e l’orientamento sessuale.
Le evidenze empiriche raggiunte da questi studi mostrano che il sessismo, l’omofobia, il pregiudizio e gli stereotipi di genere sono appresi sin dai primi anni di vita e sono trasmessi attraverso la socializzazione, le pratiche educative, il linguaggio, la comunicazione mediatica, le norme sociali. Il contributo scientifico di questi studi si affianca a quanto già riconosciuto, daormai più di quarant’anni, da tutte le associazioni internazionali, scientifiche e professionali, che promuovono la salute mentale(tra queste, l’American Psychological Association, l’American Psychiatric Association, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ecc.), le quali, derubricando l’omosessualità dal novero delle malattie, hanno ribadito una concezione dell’omosessualità come variante normale non patologica della sessualità umana.
L’Unicef, nel Position Statement del novembre 2014, ha rimarcato la necessità di intervenire contro ogni forma di discriminazione nei confronti dei bambini e dei loro genitori basata sull’orientamento sessuale e/o l’identità di genere. Un’analoga policy è da tempo seguita dall’Unesco. Favorire l’educazione sessuale nelle scuole e inserire nei progetti didattico-formativi contenuti riguardanti il genere e l’orientamento sessuale non significa promuovere un’inesistente “ideologia del gender”, ma fare chiarezza sulle dimensioni costitutive della sessualità e dell’affettività, favorendo una cultura delle differenze e del rispetto della persona umana in tutte le sue dimensioni e mettendo in atto strategie preventive adeguate ed efficaci capaci di contrastare fenomeni come il bullismo omofobico, la discriminazione di genere, il cyberbullismo. La seria e appropriata diffusione di tali studi attraverso corrette metodologie didattico-educative può dunque offrire occasioni di crescita personale e culturale ad allievi e personale scolastico e a contrastare le discriminazioni basate sul genere e l’orientamento sessuale nei contesti scolastici, valorizzando una cultura dello scambio, della relazione, dell’amicizia e della nonviolenza.
L’AIP riconosce la portata scientifica di Gender Studies, Women Studies, Le***an and Gay Studies e ribadisce l’importanza della diffusione della cultura scientifica psicologica per la crescita culturale e sociale del nostro paese.

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Comunicato della Società Italiana di Endocrinologia

Facciamo chiarezza sul caso mediatico Imane Khelif
Comunicato della Commissione Malattie Rare
La Commissione Malattie Rare della Società Italiana di Endocrinologia ricorda che fra le numerose malattie rare endocrino-metaboliche ve n'è una (la sindrome da resistenza agli androgeni) in cui si nasce donna, e come tale si cresce fisicamente e psicologicamente, pur possedendo un corredo cromosomico maschile (46XY). Tale condizione, che nulla ha a che vedere con le disforie di genere o altre rare patologie che possono determinare intersessualità o uno stato transgender, è dovuta ad una anomalia genetica che impedisce al testosterone, l'ormone sessuale maschile, di interagire con il suo recettore in tutti i tessuti del corpo.
A seguito di tale anomalia genetica, queste donne hanno livelli di testosterone pari agli uomini, ma, essendo il suo recettore inattivo, senza alcun effetto biologico, compreso verosimilmente quello sulle performance sportive. Infatti, non vi sono dati scientifici che dimostrino vantaggi sul potenziamento o sulla contrazione muscolare, sulla resistenza fisica o su altri parametri attinenti all'attività motoria. A riprova di ciò, queste donne presentano una ridotta o assente crescita della peluria persino nelle tipiche sedi femminili e nessun effetto mascolinizzante sui genitali o su altri apparati. Essendo la resistenza al testosterone presente geneticamente sin dal concepimento, lo sviluppo in senso femminile inizia già nel periodo embrionale; per questo motivo, alla nascita, il genere attribuito è quello femminile. Solo alcune di esse, con resistenza parziale al testosterone, presentano genitali ambigui alla nascita, e richiedono interventi chirurgici correttivi. Tale patologia genetica determina anche fragilità fisiche e psicologiche, derivanti dalla privazione degli effetti fisiologici esercitati dal testosterone in tutti gli esseri viventi, indipendentemente del genere cui appartengono.
In mancanza di adeguate informazioni cliniche non è possibile essere certi che sia questo il caso di Imane Khelif, l'atleta algerina che si sarebbe dovuta confrontare con la pugile italiana Angela Carini alle Olimpiadi in corso a Parigi, anche se è assai probabile. Non dovrebbe essere necessario ricordare che questioni di tale delicatezza dovrebbero essere affrontate solo su basi scientifiche e culturali adeguate, rinunciando a pregiudizi e posizioni ideologiche e non rendendole oggetto di speculazioni politiche. Ogni individuo con problemi di salute ha diritto al rispetto; tale considerazione è ancora più forte se si considerano patologie genetiche e croniche.


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29/07/2024

condivido questo interessante articolo
L’imaging cerebrale vede il sesso, ma anche il genere
di Eva Benelli
Pubblicato il 26/07/2024
Tempo di lettura: 6 mins

Il sesso biologico e l'identità di genere sono rappresentati in reti neuronali diverse tra loro. Sono i risultati preliminari di una ricerca che ha esaminato quasi cinquemila preadolescenti nell’ambito di un ampio studio statunitense sullo sviluppo del cervello e la salute delle persone giovani. Obiettivo della ricerca è indagare in che modo l’appartenere a uno o l’altro sesso può influire sul presentarsi di diverse patologie neurologiche, e per farlo ha incluso anche i dati riferiti alle persone che dichiarano una diversa identità di genere, mettendo in luce differenze nelle reti neuronali. Con buona pace di chi non ci crede

MENTE
La divaricazione rischia di farsi sempre più ampia: da una parte chi nega la potenziale distanza tra sesso e genere e preferisce parlare di una supposta “teoria del gender” e dall’altra il progredire degli studi sulle identità di genere che via via cercano di fare luce su come si origina questa identità e le eventuali incongruenze.

Per capirci è bene ricordare che ormai dal 2019 l’Organizzazione mondiale della sanità non definisce più come un disturbo mentale l’incongruenza di genere, cioè quella non coincidenza tra il genere a cui una persona sente di appartenere e il sesso assegnato alla nascita sulla base dei caratteri visibili. Una presa di posizione importante che non solo elimina (almeno sulla carta) lo stigma che accompagna spesso le persone transgender e gender diverse, ma che apre anche al riconoscere che esistono identità di genere diverse, così come orientamenti sessuali diversi, e che tutti appartengono alla dimensione umana (e animale, peraltro). Significa anche riuscire a dare un numero a questi modi di essere, tanto che oggi si stima che l’incongruenza di genere riguardi tra lo 0,5 e l’1,3 per cento della popolazione. Numeri piccoli, ma non minimi.

La dinamica tra mente e cervello
Come si affermi l’identità di genere, dicevamo, è tuttora oggetto di teorie e studi, ma l’approccio che raccoglie maggiori consensi mette in fila sia i fattori biologici, per esempio l’ambiente ormonale in cui si sviluppa il feto o le basi genetiche, sia quelli socioculturali come le interazioni con i genitori e i pari e gli stessi modelli culturali. Certamente il ruolo del cervello rimane uno degli ambiti di studio più promettenti e controversi.

«I fattori neurobiologici che influenzano l’identità di genere sono difficili da stabilire. Al momento, nessun modello ha portato prove significative a suo favore», dice Ute Habel, docente di psicologia al Politecnico di Aquisgrana, in Germania, riportata da Massimo Sandal in un lungo articolo sulla rivista Mind. Secondo l’ipotesi più discussa, proposta principalmente dal neurobiologo olandese Dick Swaab, l’identità di genere è codificata nel cervello grazie all’azione degli ormoni sessuali. Durante il secondo trimestre di gravidanza e fino a tre mesi dopo la nascita, (ipotizza Swaab )se il cervello viene sottoposto a un impulso di testosterone tenderà a mascolinizzarsi, e a sviluppare un’identità di genere maschile, altrimenti svilupperà un’identità femminile. «Questa teoria spiega in modo naturale l’esistenza delle persone trans. La differenziazione sessuale dei cervelli avviene molto dopo la differenziazione degli organi sessuali, che ha luogo entro i primi due mesi di sviluppo fetale. I due processi possono quindi essere influenzati separatamente. Se le due differenziazioni prendono direzioni diverse, l’identità di genere codificata a livello cerebrale non collima più con i caratteri sessuali fisici», precisa Sandal.

Seppur interessante, questa teoria neurobiologica attribuisce forse troppo poco peso al contesto sociale e culturale e, soprattutto alla dinamica tra mente e corpo. In questa direzione si aggiungono nuove indagini, come quella, appena pubblicata sulla rivista ScienceAdviser che ha evidenziato come il sesso e il genere modellino diversamente le reti neurali.

«Uno studio preliminare basato sull'imaging cerebrale di preadolescenti indica che il sesso biologico e l'identità di genere sono rappresentati in reti neuronali diverse tra loro, suggerendo che le differenze tra i cervelli delle persone a cui è stato assegnato un certo sesso alla nascita potrebbero essere i riflessi di aspettative culturali, e non solo di differenze biologiche» si legge nella presentazione del lavoro.

Differenze di genere e malattie
A rendere interessante questa ricerca non è solo il numero di giovani persone coinvolte, quasi 5.000, ma anche l’approccio dello studio che prende in considerazione le realtà diverse tra sesso e genere, dandone per acquisita la diversità e contestualizzandola nel percorso di ricerca. «Sia il sesso che il genere sono importanti da studiare perché sono componenti essenziali dell'identità», afferma Elvisha Dhamala, neuroscienziata presso i Feinstein Institutes for Medical Research e lo Zucker Hillside Hospital e autrice principale del nuovo studio. «Sta diventando sempre più chiaro che guardare solo al sesso in sé non è sufficiente. Non ci darà tutte le risposte». Obiettivo finale del gruppo di ricerca sono alcuni aspetti delle neuroscienze cliniche, perché è ormai accettato che esistono differenze sostanziali tra i sessi nella prevalenza, nei tempi e nel manifestarsi clinicamente di molti disturbi cerebrali comuni nel corso della vita. Per esempio, il disturbo dello spettro autistico e il morbo di Parkinson sono più comuni nei maschi che nelle femmine, mentre la depressione, l'emicrania e il morbo di Alzheimer sono più comuni nelle femmine che nei maschi. E proprio perché le cause delle differenze tra i sessi sono poco comprese, e spesso confuse tra sesso e genere, basare la ricerca e l'assistenza clinica su un approccio che considera solamente il sesso maschile come se fosse unico e valesse per tutte le persone, ne mette in discussione la validità. Al contrario, Elvisha Dhamala e i suoi hanno incluso nella complessità anche le differenze tra sesso e genere.

Per distinguere gli effetti del sesso da quelli del genere sull'attività neuronale, infatti, hanno analizzato i dati di imaging cerebrale raccolti grazie al più grande studio a lungo termine sullo sviluppo del cervello e sulla salute infantile negli Stati Uniti: l’Adolescent Brain Cognitive Development (ABCD), più ampio anche negli obiettivi. Il team ha esaminato le scansioni di risonanza magnetica funzionale di 4727 bambini di età compresa tra 9 e 10 anni, assegnati al sesso femminile (2315 bambine) o al sesso maschile (2442) alla nascita. La raccolta dei dati sul genere è stata un po' più complicata e si è basata su due questionari, uno rivolto a bambini e bambine e uno ai genitori. L’equipe ha potuto individuare perciò che le reti neuronali associate al genere erano distinte da quelle associate al sesso assegnato alla nascita. Le reti che mostravano modelli di connettività associati al sesso includevano quelle che svolgono un ruolo nell'elaborazione sensoriale e nel controllo motorio, mentre le reti associate al genere erano più ampiamente distribuite in tutto il cervello e tendevano a essere coinvolte in capacità cognitive come attenzione, cognizione sociale ed elaborazione emotiva.

Limiti e stimoli
«Una limitazione importante dello studio è che include dati solo da persone che non hanno raggiunto la pubertà. La mappatura tra sesso e genere potrebbe cambiare durante la pubertà insieme al modo in cui queste due caratteristiche si manifestano nel cervello. Le norme di genere possono anche variare ampiamente tra le culture, quindi lo studio ABCD, che include solo bambini e bambine negli Stati Uniti, non riflette la popolazione globale», è la critica di Tobias Kaufmann, neuroscienziato presso le università di Tubinga e di Oslo, a commento di questo lavoro. Tuttavia Elvisha Dhamala e il suo gruppo sono certi dell’importanza dei loro risultati: «La scoperta che sesso e genere influenzano il cervello in modi diversi potrebbe cambiare il modo in cui facciamo scienza», affermano senza falsa modestia.

È vero che un clima polarizzato come quello che riguarda il tema delle identità di genere, studi come questo rischiano di essere strumentalizzati, in fondo lo abbiamo già visto accadere: nel secolo scorso per esempio, gli scienziati hanno utilizzato la differenza nel peso medio del cervello tra uomini e donne per sostenere che queste ultime sono meno intelligenti. Oggi, le polemiche intorno al ricorso ai bloccanti della pubertà per le persone giovani con problemi di disforia di genere, non sono certo un esempio rassicurante. «Il modo migliore per evitare idee sbagliate è svolgere una scienza rigorosa» è la risposta di Elvisha Dhamala, che aggiunge: «Abbiamo coinvolto nel processo persone transgender e non conformi al genere, i cui corpi e identità sono stati storicamente esclusi o trattati come anormali dagli scienziati, perché sono persone che possono avere intuizioni uniche sulla natura del sesso e del genere. Non si può fare ricerca su una popolazione senza includere quella popolazione nel team di ricerca».

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