Premessa. Campuswave è difficile a dirsi, e non a caso spesso ci storpiano il nome.
Chi siamo. Chi siamo stati, chi saremo. Bella domanda. Abbiamo cercato di aggirarla il più
a lungo possibile, di lasciar parlare i fatti, descrivendoci semplicemente con i nostri
obiettivi, i risultati raggiunti. O anche solo tramite un certo modo di stare al mondo: una
vocazione, un’attitudine, un approccio. Una deformazione (anti)professionale. Una voce,
diamine. Ok, si può dire che Campuswave sia soprattutto questo: una voce. Differente,
stentata, stentorea, indiependente (già che tira tanto, di ‘sti tempi), fuoricampo e fuori dal
coro.
Ormai abbiamo una certa età, però, e tocca mettere le cose in chiaro, o almeno tentare.
Non per una bio, ma nemmeno per gioco. All'anagrafe scriveremmo “Web radio ufficiale
dell’Università degli Studi di Genova”. Sotto domicilio: “Palazzina Lagorio, Campus
universitario di Savona”. Ma bastano i documenti a farci presenti al mondo? Ci
accontentiamo forse della faccia da abbelinato sulla carta d’identità, per descrivere chi
siamo?
Avete presente la scritta in catalano che campeggia sugli spalti del Camp Nou, lo stadio
del Barcellona? Se non vi torna in mente, pazientate un secondo. Se sapete di cosa
stiamo parlando, invece, pazientate lo stesso, e non prendetelo come un moto di
spocchia, un’autocelebrazione di cui nessuno sentiva il bisogno. Se c’è una cosa che non
sopportiamo, è chi si autocelebra. E se non siete convinti, prendetevela prima col Barça.
Sugli spalti del Camp Nou c’è scritto Més que un Club, Più di una Squadra. Vale lo stesso
per noi. Campuswave è una cricca di moschettieri. È una per tutti, e per tutti qualcosa di
speciale, di unico. Negli anni, ci siamo sentiti chiamare seconda casa, esperimento,
organizzazione, associazione, laboratorio, palestra, centro sociale, doposcuola,
dopolavoro, stazione radiofonica, fiore all’occhiello, agenzia di comunicazione, parco
giochi, set, loft, circo, lounge bar, discoteca.
Siamo la coda lunga di un progetto nato più da dentro che dal basso. Tanto per allungare
l’elenco: un’esigenza narrativa, informativa, di comunicazione, che si è trasformata in
microfoni e jack infilati nei mixer. Perché comunicare – se cercate i sinonimi su Google:
collegare, trasmettere, raccontare – è ciò che ci piace fare. Ciò che abbiamo fatto e
continueremo a fare. È più forte di noi.
I diggei dei Novanta dicevano Stay tuned, qui è sufficiente un A presto. O, al massimo,
Pace.
Matteo Faccio