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𝐂𝐈𝐍𝐄𝐌𝐀 𝐄 𝐏𝐒𝐈𝐊𝐄✍️𝑹𝒖𝒃𝒓𝒊𝒄𝒂 𝒒𝒖𝒊𝒏𝒅𝒊𝒄𝒊𝒏𝒂𝒍𝒆 𝒂 𝒄𝒖𝒓𝒂 𝒅𝒊 𝑴𝒂𝒓𝒊𝒂 𝑨𝒏𝒕𝒐𝒏𝒊𝒆𝒕𝒕𝒂 𝑪𝒐𝒄𝒄𝒂𝒏𝒂𝒓𝒊 𝒅𝒆' 𝑭𝒐𝒓𝒏𝒂𝒓𝒊🎥𝐼𝐷𝐷𝑈 - 𝐿'𝑈𝐿𝑇𝐼𝑀𝑂 𝑃𝐴𝐷𝑅𝐼𝑁𝑂 𝑑𝑖 𝐹𝑎𝑏𝑖𝑜 𝐺...
07/11/2024

𝐂𝐈𝐍𝐄𝐌𝐀 𝐄 𝐏𝐒𝐈𝐊𝐄

✍️𝑹𝒖𝒃𝒓𝒊𝒄𝒂 𝒒𝒖𝒊𝒏𝒅𝒊𝒄𝒊𝒏𝒂𝒍𝒆 𝒂 𝒄𝒖𝒓𝒂 𝒅𝒊 𝑴𝒂𝒓𝒊𝒂 𝑨𝒏𝒕𝒐𝒏𝒊𝒆𝒕𝒕𝒂 𝑪𝒐𝒄𝒄𝒂𝒏𝒂𝒓𝒊 𝒅𝒆' 𝑭𝒐𝒓𝒏𝒂𝒓𝒊

🎥𝐼𝐷𝐷𝑈 - 𝐿'𝑈𝐿𝑇𝐼𝑀𝑂 𝑃𝐴𝐷𝑅𝐼𝑁𝑂 𝑑𝑖 𝐹𝑎𝑏𝑖𝑜 𝐺𝑟𝑎𝑠𝑠𝑎𝑑𝑜𝑛𝑖𝑎 𝑒 𝐴𝑛𝑡𝑜𝑛𝑖𝑜 𝑃𝑖𝑎𝑧𝑧𝑎

𝐈𝐃𝐃𝐔 – 𝐥’𝐮𝐥𝐭𝐢𝐦𝐨 𝐩𝐚𝐝𝐫𝐢𝐧𝐨 – (𝟐𝟎𝟐𝟒) 𝐈𝐧 𝐒𝐢𝐜𝐢𝐥𝐢𝐚, 𝐧𝐞𝐥𝐥𝐚 “𝐓𝐞𝐫𝐫𝐚 𝐝𝐞𝐢 𝐭𝐞𝐦𝐩𝐥𝐢 𝐞 𝐝𝐞𝐥𝐥’𝐨𝐥𝐢𝐨”, 𝐥𝐚 𝐦𝐚𝐟𝐢𝐚: 𝐯𝐢𝐭𝐚, 𝐢𝐧𝐟𝐚𝐧𝐳𝐢𝐚 𝐥𝐚𝐭𝐢𝐭𝐚𝐧𝐳𝐚, 𝐩𝐢𝐳𝐳𝐢𝐧𝐢, 𝐚𝐫𝐫𝐞𝐬𝐭𝐨 𝐝𝐢 𝐌𝐚𝐭𝐭𝐞𝐨 𝐌𝐞𝐬𝐬𝐢𝐧𝐚 𝐃𝐞𝐧𝐚𝐫𝐨 (𝐄𝐥𝐢𝐨 𝐆𝐞𝐫𝐦𝐚𝐧𝐨). 𝐂’𝐞̀ 𝐚𝐧𝐜𝐡𝐞 𝐢𝐥 𝐬𝐮𝐨 𝐩𝐚𝐝𝐫𝐢𝐧𝐨 𝐝𝐢 𝐛𝐚𝐭𝐭𝐞𝐬𝐢𝐦𝐨 (𝐓𝐨𝐧𝐢 𝐒𝐞𝐫𝐯𝐢𝐥𝐥𝐨) 𝐢𝐥 “𝐩𝐫𝐞𝐬𝐢𝐝𝐞”, 𝐜𝐡𝐞 𝐞𝐬𝐜𝐞 𝐝𝐚𝐥 𝐜𝐚𝐫𝐜𝐞𝐫𝐞 𝐞 𝐧𝐞 𝐝𝐢𝐯𝐞𝐧𝐭𝐚 𝐦𝐞𝐬𝐜𝐡𝐢𝐧𝐨 𝐭𝐫𝐚𝐝𝐢𝐭𝐨𝐫𝐞 𝐩𝐢𝐞𝐠𝐚𝐭𝐨 𝐚𝐢 𝐒𝐞𝐫𝐯𝐢𝐳𝐢 𝐒𝐞𝐠𝐫𝐞𝐭𝐢 𝐩𝐞𝐫 𝐛𝐢𝐬𝐨𝐠𝐧𝐢 𝐩𝐞𝐫𝐬𝐨𝐧𝐚𝐥𝐢, 𝐝𝐢𝐬𝐩𝐫𝐞𝐳𝐳𝐚𝐭𝐨 𝐞 𝐝𝐞𝐧𝐢𝐠𝐫𝐚𝐭𝐨 𝐝𝐚𝐥𝐥𝐚 𝐦𝐨𝐠𝐥𝐢𝐞 𝐬𝐞𝐯𝐞𝐫𝐚 𝐞 𝐬𝐚𝐫𝐝𝐨𝐧𝐢𝐜𝐚. 𝐑𝐞𝐠𝐢𝐚 𝐝𝐢 𝐅𝐚𝐛𝐢𝐨 𝐆𝐫𝐚𝐬𝐬𝐚𝐝𝐨𝐧𝐢𝐚 𝐞 𝐀𝐧𝐭𝐨𝐧𝐢𝐨 𝐏𝐢𝐚𝐳𝐳𝐚. 𝐈𝐧𝐭𝐞𝐫𝐞𝐬𝐬𝐚𝐧𝐭𝐞 𝐥𝐚 𝐦𝐮𝐬𝐢𝐜𝐚 𝐝𝐢 𝐂𝐨𝐥𝐚𝐩𝐞𝐬𝐜𝐞 𝐢𝐬𝐩𝐢𝐫𝐚𝐭𝐚 𝐚𝐢 𝐯𝐞𝐜𝐜𝐡𝐢 𝐟𝐢𝐥𝐦 𝐝’𝐢𝐦𝐩𝐞𝐠𝐧𝐨 𝐜𝐢𝐯𝐢𝐥𝐞 (𝐆𝐞𝐫𝐦𝐢, 𝐏𝐞𝐭𝐫𝐢), 𝐚𝐧𝐜𝐡𝐞 𝐧𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐜𝐚𝐧𝐳𝐨𝐧𝐞 𝐟𝐢𝐧𝐚𝐥𝐞 𝐢𝐧𝐞𝐝𝐢𝐭𝐚 “𝐋𝐚 𝐦𝐚𝐥𝐯𝐚𝐠𝐢𝐭𝐚̀” 𝐬𝐮𝐥𝐥𝐚 𝐢𝐧𝐞𝐥𝐮𝐭𝐭𝐚𝐛𝐢𝐥𝐢𝐭𝐚̀ 𝐝𝐞𝐥 𝐌𝐚𝐥𝐞.

Matteo ha avuto un’infanzia allenato dal padre, boss, al commercio con la violenza. Per esempio, bisogna sgozzare un agnello. Il fratello maggiore ha timore, Matteo e la sa sorella impavida no. Sangue che schizza sui visi. Simbolo di un destino. Allora l’infanzia torna in flashback nel nascondiglio dell’insegnane (Barbora Bobulova) che gli deve il favore. Qui è la condanna alla invisibilità (“che però rinsalda la mia presenza”) di tutta una buia segregazione (“come un sorcio”) tra tristezze e segreti e un puzzle gioco da tavolo eternamente incompiuto, e incubi, e memorie di angeli di pietra che incombono più come punitori che custodi.
Il taglio letterario dà alla pellicola una sublimazione, letterario è il linguaggio del dotto “preside” e anche quello di Messina, acculturato, quando parlano con gli altri e quando si scrivono tra loro, surrogato di rapporto, e teatrale è la confezione dell’opera intera, anche con i personaggi minori -i vari caratteri degli agenti segreti-.
Come è spesso in questo genere cinematografico, il protagonista apparirebbe l’eroe specie con quella sua aura esistenziale filosofica e pessimista che s’interroga sul senso della umana vita anche secondo la cruda verità dell’Ecclesiaste (“degenerare è il nostro destino”), se la sicilianità pirandelliana non desse quella ambiguità necessaria ad elevare il registro. Ma alla fine è la interpretazione dei due grandi attori per la prima volta insieme, che partecipa in maniera energica a questo registro.

𝐂𝐈𝐍𝐄𝐌𝐀 𝐄 𝐏𝐒𝐈𝐊𝐄✍️𝑹𝒖𝒃𝒓𝒊𝒄𝒂 𝒒𝒖𝒊𝒏𝒅𝒊𝒄𝒊𝒏𝒂𝒍𝒆 𝒂 𝒄𝒖𝒓𝒂 𝒅𝒊 𝑴𝒂𝒓𝒊𝒂 𝑨𝒏𝒕𝒐𝒏𝒊𝒆𝒕𝒕𝒂 𝑪𝒐𝒄𝒄𝒂𝒏𝒂𝒓𝒊 𝒅𝒆' 𝑭𝒐𝒓𝒏𝒂𝒓𝒊🎥𝐼𝐿 𝑇𝐸𝑀𝑃𝑂 𝐶𝐻𝐸 𝐶𝐼 𝑉𝑈𝑂𝐿𝐸 𝑑𝑖 𝐹𝑟𝑎𝑛𝑐𝑒𝑠𝑐𝑎...
24/10/2024

𝐂𝐈𝐍𝐄𝐌𝐀 𝐄 𝐏𝐒𝐈𝐊𝐄

✍️𝑹𝒖𝒃𝒓𝒊𝒄𝒂 𝒒𝒖𝒊𝒏𝒅𝒊𝒄𝒊𝒏𝒂𝒍𝒆 𝒂 𝒄𝒖𝒓𝒂 𝒅𝒊 𝑴𝒂𝒓𝒊𝒂 𝑨𝒏𝒕𝒐𝒏𝒊𝒆𝒕𝒕𝒂 𝑪𝒐𝒄𝒄𝒂𝒏𝒂𝒓𝒊 𝒅𝒆' 𝑭𝒐𝒓𝒏𝒂𝒓𝒊

🎥𝐼𝐿 𝑇𝐸𝑀𝑃𝑂 𝐶𝐻𝐸 𝐶𝐼 𝑉𝑈𝑂𝐿𝐸 𝑑𝑖 𝐹𝑟𝑎𝑛𝑐𝑒𝑠𝑐𝑎 𝐶𝑜𝑚𝑒𝑛𝑐𝑖𝑛𝑖

𝐈𝐋 𝐓𝐄𝐌𝐏𝐎 𝐂𝐇𝐄 𝐂𝐈 𝐕𝐔𝐎𝐋𝐄 (𝟐𝟎𝟐𝟒) 𝐂𝐨𝐦𝐦𝐨𝐬𝐬𝐨 𝐞 𝐜𝐨𝐦𝐦𝐨𝐯𝐞𝐧𝐭𝐞 𝐞 𝐜𝐨𝐫𝐚𝐠𝐠𝐢𝐨𝐬𝐨 𝐟𝐢𝐥𝐦 𝐚𝐮𝐭𝐨𝐛𝐢𝐨𝐠𝐫𝐚𝐟𝐢𝐜𝐨 𝐝𝐞𝐥 𝐫𝐚𝐩𝐩𝐨𝐫𝐭𝐨 𝐩𝐚𝐝𝐫𝐞/𝐟𝐢𝐠𝐥𝐢𝐚. 𝐑𝐢𝐜𝐨𝐫𝐝𝐢 𝐯𝐢𝐯𝐢𝐝𝐢. 𝐒𝐞𝐧𝐭𝐢𝐦𝐞𝐧𝐭𝐢 𝐩𝐨𝐭𝐞𝐧𝐭𝐢. 𝐒𝐨𝐥𝐨 𝐥𝐨𝐫𝐨 𝐝𝐮𝐞 𝐝𝐚𝐥𝐥’𝐢𝐧𝐟𝐚𝐧𝐳𝐢𝐚 𝐚𝐥𝐥𝐚 𝐠𝐢𝐨𝐯𝐢𝐧𝐞𝐳𝐳𝐚 𝐧𝐞𝐠𝐥𝐢 𝐚𝐧𝐧𝐢 𝐝𝐢 𝐩𝐢𝐨𝐦𝐛𝐨, 𝐝𝐚𝐥𝐥’𝐚𝐜𝐪𝐮𝐢𝐞𝐬𝐜𝐞𝐧𝐳𝐚 𝐚𝐥 𝐦𝐚𝐥𝐞𝐬𝐬𝐞𝐫𝐞 𝐚𝐥𝐥𝐞 𝐫𝐢𝐛𝐞𝐥𝐥𝐢𝐨𝐧𝐢 𝐚𝐥 𝐥𝐞𝐧𝐭𝐨 𝐫𝐢𝐭𝐫𝐨𝐯𝐚𝐫𝐬𝐢 𝐜𝐨𝐧𝐬𝐚𝐩𝐞𝐯𝐨𝐥𝐞 𝐞 𝐚𝐟𝐟𝐞𝐭𝐭𝐮𝐨𝐬𝐨 𝐫𝐚𝐜𝐜𝐨𝐧𝐭𝐚𝐧𝐝𝐨𝐬𝐢 𝐞 𝐦𝐚𝐧𝐢𝐟𝐞𝐬𝐭𝐚𝐧𝐝𝐨𝐬𝐢 𝐧𝐞𝐥𝐥𝐞 𝐩𝐢𝐞𝐠𝐡𝐞 𝐝𝐢 𝐨𝐠𝐧𝐢 𝐚𝐦𝐛𝐢𝐯𝐚𝐥𝐞𝐧𝐳𝐚. 𝐔𝐧 𝐟𝐢𝐥𝐦 𝐬𝐜𝐫𝐢𝐭𝐭𝐨 𝐞 𝐝𝐢𝐫𝐞𝐭𝐭𝐨 𝐝𝐚 𝐅𝐫𝐚𝐧𝐜𝐞𝐬𝐜𝐚 𝐂𝐨𝐦𝐞𝐧𝐜𝐢𝐧𝐢, 𝐚𝐧𝐜𝐡𝐞 𝐬𝐜𝐞𝐧𝐨𝐠𝐫𝐚𝐟𝐚. 𝐏𝐬𝐢𝐜𝐨𝐥𝐨𝐠𝐢𝐜𝐨, 𝐫𝐚𝐠𝐢𝐨𝐧𝐚𝐭𝐨, 𝐬𝐨𝐟𝐟𝐞𝐫𝐭𝐨, 𝐚𝐧𝐜𝐡𝐞 𝐫𝐨𝐦𝐚𝐧𝐭𝐢𝐜𝐨. 𝐏𝐞𝐫 𝐪𝐮𝐚𝐥𝐜𝐮𝐧𝐨 𝐜𝐨𝐧 𝐭𝐫𝐨𝐩𝐩𝐢 𝐢𝐧𝐬𝐞𝐫𝐭𝐢 𝐬𝐦𝐢𝐞𝐥𝐚𝐭𝐢 𝐩𝐮𝐫 𝐧𝐞𝐥𝐥’𝐚𝐧𝐝𝐚𝐦𝐞𝐧𝐭𝐨 𝐝𝐢 𝐮𝐧 𝐠𝐫𝐚𝐧𝐝𝐞 𝐜𝐨𝐦𝐩𝐥𝐢𝐜𝐚𝐭𝐨 𝐝𝐨𝐥𝐨𝐫𝐞; 𝐩𝐞𝐫 𝐦𝐞, 𝐩𝐞𝐫 𝐦𝐨𝐥𝐭𝐢, 𝐢𝐧𝐭𝐞𝐧𝐬𝐨, 𝐛𝐞𝐥𝐥𝐨. 𝐈𝐧𝐜𝐚𝐧𝐭𝐞𝐯𝐨𝐥𝐞 𝐥𝐚 𝐬𝐜𝐞𝐥𝐭𝐚 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐦𝐮𝐬𝐢𝐜𝐚 𝐜𝐥𝐚𝐬𝐬𝐢𝐜𝐚 𝐞, 𝐬𝐩𝐞𝐜𝐢𝐞 𝐩𝐞𝐫 𝐥𝐚 𝐦𝐢𝐚 𝐠𝐞𝐧𝐞𝐫𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞, 𝐚𝐧𝐜𝐡𝐞 𝐪𝐮𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐞 𝐜𝐚𝐧𝐳𝐨𝐧𝐢 𝐝𝐞𝐥𝐥’𝐞𝐩𝐨𝐜𝐚. 𝐒𝐮𝐩𝐞𝐫𝐛𝐚 𝐥’𝐢𝐧𝐭𝐞𝐫𝐩𝐫𝐞𝐭𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞: 𝐑𝐨𝐦𝐚𝐧𝐚 𝐌𝐚𝐠𝐠𝐢𝐨𝐫𝐚 𝐕𝐞𝐫𝐠𝐚𝐧𝐨, 𝐅𝐚𝐛𝐫𝐢𝐳𝐢𝐨 𝐆𝐢𝐟𝐮𝐧𝐢.

Un padre, e anche un uomo sempre “troppo buono e gentile”, poco adatto ad imporsi sul set tra strilli e disordini. Eppure è anche il padre della commedia all’italiana Luigi Comencini (“Pane amore e fantasia”, “Pane amore e gelosia”). La piccola Francesca lo segue incantata durante le riprese di “Pinocchio” dove Lucignolo “non nasce cattivo”, nessuno nasce cattivo dice il regista, Lucignolo vuole solo essere libero. Poi sarà il padre a seguirla, adolescente, anzi a portarla via, a strapparla da Roma, dalla droga e dal lutto per il suo amore, Carlo Rivolta, il grande giornalista d’inchiesta ma a sua volta tossicodipendente. Portarla a Parigi.
“Quanto staremo via?” lei chiede. “Non lo so. Il tempo che ci vuole” risponde lui. “E che faremo il tempo che ci vuole a Parigi?” fa lei. “Andremo al cinema” risponde il padre.
Tra ragionevolezza, dolcezza, severità: ma un genitore sbaglia sempre. Eppure qualche cosa di profondamente giusto questo padre deve aver fatto per questa figlia che lo ha interiorizzato come guida, che può volare da sola quando lui vola nel cielo, che può cadere e rialzarsi sempre, per una maturità esistenziale e professionale dove quella balena/simbolo mummificata, da circo, a piazza del Popolo quando era piccina, le cui fauci incombono dalle prime sequenze, non ha potuto divorarla.
Francesca Comencini ha tre sorelle nella realtà, tutte nel mondo del cinema, Cristina è la più famosa. Ha anche una madre, la principessa di Partanna. Ma loro nel film non ci sono. Un film in cui quotidiano e atemporalità sono dati solo da questa diade. Certo si sente che è un bisogno prepotente di esistere per questo padre, può darsi che lo abbia reso troppo empatico e meraviglioso nella Sceneggiatura proiettando bisogni e desideri, vai a capire.
Si era raccontata in altri lungometraggi e in documentari. Ma in questo film c’è un pathos che voleva, doveva, dirsi, a se stessa e all’altro, un testamento riparatorio di ogni vicendevole mancanza ma insieme un inno a un amore di fondo autentico e immarcescibile.
Finisce come in un sogno, ma non è solo un film per sognatori. L’opera intera è ben padroneggiata da un rigoroso impegno introspettivo. Un grandangolo non sempre ovvio anche per i grandi frequentatori delle cose psichiche.
Anche nei bianchi e neri e nei tanti colori della grande fotografia di Luca Bigazzi, sincerità e costruzione artistica sono sempre annodate.

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22/10/2024

🆙Per gli iscritti alla pagina biglietti super scontati per "Il colore della forma", in scena al Teatro Marconi fino a domenica.
👉Per informazioni e prenotazioni scriveteci in privato.

Dritti al cuore 21.10.2024 - Podcast - Radio Vaticana - Vatican News

La presentazione su Il Messaggero dello spettacolo IL COLORE DELLA FORMA, in scena al Teatro Marconi da stasera al 27 ot...
17/10/2024

La presentazione su Il Messaggero dello spettacolo IL COLORE DELLA FORMA, in scena al Teatro Marconi da stasera al 27 ottobre. Non mancate!!

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12/10/2024

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REA INTERNATIONAL Al Teatro Marconi di Roma ‘Il colore della forma’ di Marco Schiavon. Rainero Schembri 11 Ottobre 2024 4 min read (Foto: sullo sfondo del Teatro Marconi l’autore Marco Schiavon)   È stato spesso detto che nell’arte non si può prescindere dalla personalità di chi concepis...

𝐂𝐈𝐍𝐄𝐌𝐀 𝐄 𝐏𝐒𝐈𝐊𝐄✍️𝑹𝒖𝒃𝒓𝒊𝒄𝒂 𝒒𝒖𝒊𝒏𝒅𝒊𝒄𝒊𝒏𝒂𝒍𝒆 𝒂 𝒄𝒖𝒓𝒂 𝒅𝒊 𝑴𝒂𝒓𝒊𝒂 𝑨𝒏𝒕𝒐𝒏𝒊𝒆𝒕𝒕𝒂 𝑪𝒐𝒄𝒄𝒂𝒏𝒂𝒓𝒊 𝒅𝒆' 𝑭𝒐𝒓𝒏𝒂𝒓𝒊🎥𝐿𝐴 𝑀𝐼𝑆𝑈𝑅𝐴 𝐷𝐸𝐿 𝐷𝑈𝐵𝐵𝐼𝑂 𝑑𝑖 𝐷𝑎𝑛𝑖𝑒𝑙 𝐴𝑢𝑡...
10/10/2024

𝐂𝐈𝐍𝐄𝐌𝐀 𝐄 𝐏𝐒𝐈𝐊𝐄

✍️𝑹𝒖𝒃𝒓𝒊𝒄𝒂 𝒒𝒖𝒊𝒏𝒅𝒊𝒄𝒊𝒏𝒂𝒍𝒆 𝒂 𝒄𝒖𝒓𝒂 𝒅𝒊 𝑴𝒂𝒓𝒊𝒂 𝑨𝒏𝒕𝒐𝒏𝒊𝒆𝒕𝒕𝒂 𝑪𝒐𝒄𝒄𝒂𝒏𝒂𝒓𝒊 𝒅𝒆' 𝑭𝒐𝒓𝒏𝒂𝒓𝒊

🎥𝐿𝐴 𝑀𝐼𝑆𝑈𝑅𝐴 𝐷𝐸𝐿 𝐷𝑈𝐵𝐵𝐼𝑂 𝑑𝑖 𝐷𝑎𝑛𝑖𝑒𝑙 𝐴𝑢𝑡𝑒𝑢𝑖𝑙

𝐋𝐀 𝐌𝐈𝐒𝐔𝐑𝐀 𝐃𝐄𝐋 𝐃𝐔𝐁𝐁𝐈𝐎 (𝟐𝟎𝟐𝟒). 𝐃𝐚𝐧𝐢𝐞𝐥 𝐀𝐮𝐭𝐞𝐮𝐢𝐥 𝐝𝐢𝐫𝐢𝐠𝐞 𝐞 𝐬𝐜𝐫𝐢𝐯𝐞 (𝐜𝐨𝐧 𝐒𝐭𝐞𝐯𝐞𝐧 𝐌𝐢𝐭𝐳) 𝐮𝐧 𝐛𝐞𝐥 𝐠𝐢𝐚𝐥𝐥𝐨 𝐠𝐢𝐮𝐝𝐢𝐳𝐢𝐚𝐫𝐢𝐨 𝐝𝐢 𝐜𝐮𝐢 𝐞̀ 𝐚𝐧𝐜𝐡𝐞 𝐩𝐫𝐨𝐭𝐚𝐠𝐨𝐧𝐢𝐬𝐭𝐚 𝐧𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐩𝐚𝐫𝐭𝐞 𝐝𝐢 𝐮𝐧 𝐚𝐯𝐯𝐨𝐜𝐚𝐭𝐨. 𝐌𝐨𝐥𝐭𝐚 𝐩𝐬𝐢𝐜𝐨𝐥𝐨𝐠𝐢𝐚 𝐞𝐝 𝐞𝐜𝐡𝐢 𝐟𝐢𝐥𝐨𝐬𝐨𝐟𝐢𝐜𝐢, 𝐞 𝐮𝐧 𝐟𝐢𝐧𝐚𝐥𝐞 𝐢𝐧𝐚𝐭𝐭𝐞𝐬𝐨 𝐝'𝐢𝐧𝐭𝐞𝐫𝐞𝐬𝐬𝐞 𝐟𝐚𝐦𝐢𝐥𝐢𝐚𝐫𝐞-𝐬𝐨𝐜𝐢𝐚𝐥𝐞.

Jean è un avvocato ormai da tempo ritiratosi, votato alla difesa dei colpevoli.

Poi c'è un uomo che deve difendere, accusato dell'omicidio della moglie descritta come un'alcoolista violenta e trascurante verso i loro bambini; è astemio, beve solo latte, e si proclama innocente; è isolato, taciturno, remissivo, con un solo amico intimo, il barista, e un'accorata preoccupazione per i figli che a loro volta gli mostrano un accorato attaccamento.

Il film è incentrato sul processo, con andamento classico, teatrale, lento eppure appassionante. Fondamentale la Sceneggiatura che indica competenza psicologica e capacità di travalicare la certosina ricostruzione dei fatti per interrogarsi sul senso della memoria ("ognuno ha il suo ricordo") e soprattutto per raggiungere la composita questione del dubbio, e “il filo", ("Le fil" è il titolo originale), tortuoso, verso la Verità reale e metafisica. Infatti, ripetute inquadrature di un filo azzurro tra le tracce delle indagini, e tanto buio e improvvise luci terse nella Fotografia.

Non casuale la sottile rapida e ripetuta inserzione di un'altra famiglia, e di un toro, che si spiega nel fotogramma finale simbolico e spiazzante: c'è la richiesta di difesa da parte di un padre per il proprio figlio aspirante torero che lui vorrebbe diverso, e che è disobbediente e criminale. Due costellazioni familiari a confronto, docilità versus ribellione. E infine la sua, quella dell'avvocato: nessun figlio, a condividere con la moglie, sua collega, tutti i conflitti, relazionali, professionali, esistenziali.

Da una storia vera accaduta in Francia.

Da non perdere.

▶Per scegliere la narrazione corretta serve analizzare il contesto, a chi ti rivolgi, che messaggio vuoi trasmettere. 🥸N...
30/09/2024

▶Per scegliere la narrazione corretta serve analizzare il contesto, a chi ti rivolgi, che messaggio vuoi trasmettere.

🥸Nulla è come sembra...

‼️Scegli attentamente qual è la narrazione che vuoi dare...

𝐂𝐈𝐍𝐄𝐌𝐀 𝐄 𝐏𝐒𝐈𝐊𝐄✍️𝑹𝒖𝒃𝒓𝒊𝒄𝒂 𝒒𝒖𝒊𝒏𝒅𝒊𝒄𝒊𝒏𝒂𝒍𝒆 𝒂 𝒄𝒖𝒓𝒂 𝒅𝒊 𝑴𝒂𝒓𝒊𝒂 𝑨𝒏𝒕𝒐𝒏𝒊𝒆𝒕𝒕𝒂 𝑪𝒐𝒄𝒄𝒂𝒏𝒂𝒓𝒊 𝒅𝒆' 𝑭𝒐𝒓𝒏𝒂𝒓𝒊🎥𝐵𝐸𝐸𝑇𝐿𝐸𝐽𝑈𝐼𝐶𝐸 𝐵𝐸𝐸𝑇𝐿𝐸𝐽𝑈𝐼𝐶𝐸 𝑑𝑖 𝑇𝑖𝑚 𝐵𝑢𝑟...
26/09/2024

𝐂𝐈𝐍𝐄𝐌𝐀 𝐄 𝐏𝐒𝐈𝐊𝐄

✍️𝑹𝒖𝒃𝒓𝒊𝒄𝒂 𝒒𝒖𝒊𝒏𝒅𝒊𝒄𝒊𝒏𝒂𝒍𝒆 𝒂 𝒄𝒖𝒓𝒂 𝒅𝒊 𝑴𝒂𝒓𝒊𝒂 𝑨𝒏𝒕𝒐𝒏𝒊𝒆𝒕𝒕𝒂 𝑪𝒐𝒄𝒄𝒂𝒏𝒂𝒓𝒊 𝒅𝒆' 𝑭𝒐𝒓𝒏𝒂𝒓𝒊

🎥𝐵𝐸𝐸𝑇𝐿𝐸𝐽𝑈𝐼𝐶𝐸 𝐵𝐸𝐸𝑇𝐿𝐸𝐽𝑈𝐼𝐶𝐸 𝑑𝑖 𝑇𝑖𝑚 𝐵𝑢𝑟𝑡𝑜𝑛

𝐁𝐄𝐄𝐓𝐋𝐄𝐉𝐈𝐂𝐄 𝐁𝐄𝐄𝐓𝐋𝐄𝐉𝐈𝐂𝐄 (𝟐𝟎𝟐𝟒). 𝐒𝐞𝐪𝐮𝐞𝐥 𝐝𝐞𝐥 𝐜𝐮𝐥𝐭 𝐠𝐫𝐨𝐭𝐭𝐞𝐬𝐜𝐨 𝐡𝐨𝐫𝐫𝐨𝐫 “𝐁𝐞𝐞𝐭𝐥𝐞𝐣𝐮𝐢𝐜𝐞 – 𝐬𝐩𝐢𝐫𝐢𝐭𝐞𝐥𝐥𝐨 𝐩𝐨𝐫𝐜𝐞𝐥𝐥𝐨” 𝐝𝐞𝐥 𝟏𝟗𝟖𝟖. 𝐒𝐭𝐨𝐫𝐢𝐞 𝐝𝐢 𝐯𝐢𝐯𝐢 𝐞 𝐝𝐢 𝐟𝐚𝐧𝐭𝐚𝐬𝐦𝐢 𝐝𝐞𝐭𝐮𝐫𝐩𝐚𝐭𝐢 𝐦𝐮𝐭𝐢𝐥𝐚𝐭𝐢 𝐢𝐧𝐬𝐚𝐧𝐠𝐮𝐢𝐧𝐚𝐭𝐢 𝐫𝐢𝐜𝐮𝐜𝐢𝐭𝐢 𝐨𝐠𝐧𝐮𝐧𝐨 𝐜𝐨𝐧 𝐢 𝐬𝐢𝐦𝐛𝐨𝐥𝐢 𝐝𝐞𝐥 𝐩𝐫𝐨𝐩𝐫𝐢𝐨 𝐭𝐢𝐩𝐨 𝐝𝐢 𝐦𝐨𝐫𝐭𝐞. 𝐒𝐭𝐨𝐫𝐢𝐞 𝐝𝐢 𝐧𝐨𝐫𝐦𝐚𝐥𝐢 𝐞 𝐝𝐢 𝐦𝐨𝐬𝐭𝐫𝐢, 𝐝𝐢 𝐠𝐢𝐠𝐚𝐧𝐭𝐢 𝐞 𝐝𝐢 𝐦𝐢𝐜𝐫𝐨𝐜𝐞𝐟𝐚𝐥𝐢, 𝐬𝐞𝐦𝐩𝐫𝐞 𝐭𝐫𝐚 𝐥𝐨𝐫𝐨 “𝐜𝐨𝐧𝐧𝐞𝐬𝐬𝐢” 𝐚𝐭𝐭𝐨𝐫𝐧𝐨 𝐚𝐥 𝐝𝐞𝐟𝐮𝐧𝐭𝐨 “𝐛𝐢𝐨𝐞𝐬𝐨𝐫𝐜𝐢𝐬𝐭𝐚” 𝐁𝐞𝐞𝐭𝐥𝐞𝐣𝐮𝐢𝐜𝐞 (𝐌𝐢𝐜𝐡𝐚𝐞𝐥 𝐊𝐞𝐚𝐭𝐨𝐧) 𝐜𝐡𝐞 𝐚𝐧𝐜𝐨𝐫𝐚 𝐮𝐧𝐚 𝐯𝐨𝐥𝐭𝐚 𝐯𝐨𝐫𝐫𝐞𝐛𝐛𝐞 𝐬𝐩𝐨𝐬𝐚𝐫𝐞 𝐋𝐲𝐝𝐢𝐚 𝐟𝐨𝐬𝐜𝐚 𝐫𝐚𝐠𝐚𝐳𝐳𝐚 𝐠𝐨𝐭𝐡 (𝐖𝐢𝐧𝐨𝐧𝐚 𝐑𝐲𝐝𝐞𝐫, 𝐧𝐞𝐥 𝟏𝟗𝟖𝟖 𝐬𝐞𝐝𝐢𝐜𝐞𝐧𝐧𝐞 𝐚𝐥 𝐬𝐮𝐨 𝐩𝐫𝐢𝐦𝐨 𝐟𝐢𝐥𝐦 𝐢𝐦𝐩𝐨𝐫𝐭𝐚𝐧𝐭𝐞) 𝐬𝐟𝐮𝐠𝐠𝐞𝐧𝐝𝐨 𝐚𝐥𝐥𝐚 𝐩𝐨𝐬𝐬𝐞𝐬𝐬𝐢𝐯𝐢𝐭𝐚̀ 𝐝𝐞𝐥𝐥’𝐞𝐱 𝐦𝐨𝐠𝐥𝐢𝐞 𝐬𝐚𝐧𝐠𝐮𝐢𝐧𝐚𝐫𝐢𝐚 “𝐦𝐚𝐧𝐠𝐢𝐚 𝐚𝐧𝐢𝐦𝐞” (𝐧𝐞𝐰 𝐞𝐧𝐭𝐫𝐲 𝐌𝐨𝐧𝐢𝐜𝐚 𝐁𝐞𝐥𝐥𝐮𝐜𝐜𝐢, 𝐜𝐨𝐦𝐞 𝐖𝐢𝐥𝐥𝐢𝐚𝐦 𝐃𝐚𝐟𝐨𝐞 𝐧𝐞𝐥 𝐫𝐮𝐨𝐥𝐨 𝐝𝐢 𝐮𝐧 𝐝𝐞𝐭𝐞𝐜𝐭𝐢𝐯𝐞 𝐝𝐞𝐥𝐥’𝐚𝐥𝐝𝐢𝐥𝐚̀). 𝐇𝐚 𝐚𝐩𝐞𝐫𝐭𝐨 𝐥’𝟖𝟏° 𝐌𝐨𝐬𝐭𝐫𝐚 𝐢𝐧𝐭𝐞𝐫𝐧𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐚𝐥𝐞 𝐝𝐢 𝐕𝐞𝐧𝐞𝐳𝐢𝐚.

Lydia è diventata una conduttrice di successo in un programma televisivo sul paranormale. È perennemente ansiosa e s’imbottisce di tranquillanti. Ha un grande conflitto con la figlia razionale e scientifica (ad Halloween si traveste da Madame Curie) che non crede a queste cose, non accetta comunque che la madre non riesca a mettersi in contatto nell’al di là con il mitico padre viaggiatore morto mentre andava a salvare le foreste, e s’innamora di un ragazzo che legge “Delitto e castigo”, che la inganna perché è morto, uccise i genitori e ora vuole usarla mandando lei nell’al di là per tornare lui tra i vivi, come del resto desiderano tutte queste anime morte. Nella loro casa dentro un plastico è sopito Beetlejuice, spirito di un uomo morto durante la peste secoli prima, dal nome impronunciabile se non si vuol farlo risvegliare a provocar danni vari con i suoi scherzi raccapriccianti. Ma il nome viene pronunciato eccome! Ed ecco avventure a non finire, transitando perpetuamente nel portale tra il regno dei vivi e quello dei trapassati.
La sceneggiatura è scarna, e traccia è l’umorismo. Blande note d’interesse psicologico come i conflitti familiari e transgenerazionali, l’avidità di successo materiale, l’ipocrisia dei sentimenti, il tradimento, “il bambino interiore”, il coraggio verso l’ignoto, l’aspirazione all’armonia relazionale, e l’eterno desiderio umano d’immortalità garantito da varie credenze. Ma dominano naturalmente effetti visivi ipercolorati fantasmagorici, e tra i trucchi impressionanti anche quello che già negli anni ’80 affermò l’immagine dark delle ragazze dell’epoca.
Danny Elfman si riconferma autore delle musiche alternate da thriller e da commedia, spesso efficacemente di contrasto, partecipando a quella bizzarria inquieta e adorabile per grandi e piccini che sgorga senza posa dalla creatività di Tim Burton, un po’ farsa dei nostri tempi, un po’ poetico pleonasmo visivo d’indiscutibile fascino. Un film “miracoloso e strano” dice la Rider nel cui personaggio, Lydia, Tim Burton ha affermato d’identificarsi. Dichiarando che questo secondo film vuole essere un omaggio (nostalgico, NdR) ai suoi fans del primo. Anche con l’(ennesimo) omaggio al nostro Mario Bava, “il mago dei colori”.

𝐂𝐈𝐍𝐄𝐌𝐀 𝐄 𝐏𝐒𝐈𝐊𝐄✍️𝑹𝒖𝒃𝒓𝒊𝒄𝒂 𝒒𝒖𝒊𝒏𝒅𝒊𝒄𝒊𝒏𝒂𝒍𝒆 𝒂 𝒄𝒖𝒓𝒂 𝒅𝒊 𝑴𝒂𝒓𝒊𝒂 𝑨𝒏𝒕𝒐𝒏𝒊𝒆𝒕𝒕𝒂 𝑪𝒐𝒄𝒄𝒂𝒏𝒂𝒓𝒊 𝒅𝒆' 𝑭𝒐𝒓𝒏𝒂𝒓𝒊🎥𝐶𝐴𝑀𝑃𝑂 𝐷𝐼 𝐵𝐴𝑇𝑇𝐴𝐺𝐿𝐼𝐴 𝑑𝑖 𝐺𝑖𝑎𝑛𝑛𝑖 𝐴𝑚𝑒𝑙𝑖...
12/09/2024

𝐂𝐈𝐍𝐄𝐌𝐀 𝐄 𝐏𝐒𝐈𝐊𝐄

✍️𝑹𝒖𝒃𝒓𝒊𝒄𝒂 𝒒𝒖𝒊𝒏𝒅𝒊𝒄𝒊𝒏𝒂𝒍𝒆 𝒂 𝒄𝒖𝒓𝒂 𝒅𝒊 𝑴𝒂𝒓𝒊𝒂 𝑨𝒏𝒕𝒐𝒏𝒊𝒆𝒕𝒕𝒂 𝑪𝒐𝒄𝒄𝒂𝒏𝒂𝒓𝒊 𝒅𝒆' 𝑭𝒐𝒓𝒏𝒂𝒓𝒊

🎥𝐶𝐴𝑀𝑃𝑂 𝐷𝐼 𝐵𝐴𝑇𝑇𝐴𝐺𝐿𝐼𝐴 𝑑𝑖 𝐺𝑖𝑎𝑛𝑛𝑖 𝐴𝑚𝑒𝑙𝑖𝑜

𝐂𝐀𝐌𝐏𝐎 𝐃𝐈 𝐁𝐀𝐓𝐓𝐀𝐆𝐋𝐈𝐀 (𝟐𝟎𝟐𝟒). 𝐑𝐞𝐠𝐢𝐚 𝐝𝐢 𝐆𝐢𝐚𝐧𝐧𝐢 𝐀𝐦𝐞𝐥𝐢𝐨. 𝐅𝐢𝐥𝐦 𝐝’𝐢𝐦𝐩𝐞𝐠𝐧𝐨 𝐬𝐮𝐥𝐥𝐚 𝐆𝐫𝐚𝐧𝐝𝐞 𝐠𝐮𝐞𝐫𝐫𝐚 𝐞 𝐬𝐮𝐥𝐥𝐞 𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐢 𝐨𝐩𝐩𝐨𝐬𝐭𝐞 𝐝𝐢 𝐝𝐮𝐞 𝐚𝐦𝐢𝐜𝐢 𝐦𝐞𝐝𝐢𝐜𝐢 𝐦𝐢𝐥𝐢𝐭𝐚𝐫𝐢 𝐢𝐝𝐞𝐚𝐥𝐢𝐬𝐭𝐢. 𝐌𝐚𝐫𝐠𝐢𝐧𝐚𝐥𝐞 𝐥’𝐚𝐬𝐩𝐞𝐭𝐭𝐨 𝐫𝐨𝐦𝐚𝐧𝐭𝐢𝐜𝐨 𝐝𝐢 𝐮𝐧𝐚 𝐜𝐫𝐨𝐜𝐞𝐫𝐨𝐬𝐬𝐢𝐧𝐚 𝐜𝐨𝐧 𝐥𝐨𝐫𝐨 𝐚𝐥 𝐟𝐫𝐨𝐧𝐭𝐞, 𝐜𝐡𝐞 𝐚𝐯𝐞𝐯𝐚 𝐢𝐧𝐭𝐞𝐫𝐫𝐨𝐭𝐭𝐨 𝐠𝐥𝐢 𝐬𝐭𝐮𝐝𝐢 𝐝𝐢 𝐌𝐞𝐝𝐢𝐜𝐢𝐧𝐚: 𝐛𝐫𝐞𝐯𝐢 𝐫𝐢𝐦𝐚𝐧𝐝𝐢 𝐚𝐥𝐥𝐚 𝐜𝐨𝐧𝐝𝐢𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐝𝐨𝐧𝐧𝐚 𝐚 𝐪𝐮𝐞𝐥 𝐭𝐞𝐦𝐩𝐨. 𝐏𝐫𝐞𝐬𝐞𝐧𝐭𝐚𝐭𝐨 𝐚𝐥𝐥𝐚 𝐌𝐨𝐬𝐭𝐫𝐚 𝐝𝐞𝐥 𝐂𝐢𝐧𝐞𝐦𝐚 𝐈𝐧𝐭𝐞𝐫𝐧𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐚𝐥𝐞 𝐝𝐢 𝐕𝐞𝐧𝐞𝐳𝐢𝐚. 𝐄̀ 𝐭𝐫𝐚𝐭𝐭𝐨 𝐝𝐚𝐥 𝐫𝐨𝐦𝐚𝐧𝐳𝐨 “𝐋𝐚 𝐬𝐟𝐢𝐝𝐚” 𝐝𝐢 𝐂𝐚𝐫𝐥𝐨 𝐏𝐚𝐭𝐫𝐢𝐚𝐫𝐜𝐚.

Il capitano Stefano (Gabriel Montesi) e il tenente Giulio (Alessandro Borghi), amici per la pelle dall’infanzia, si trovano nella prima guerra mondiale in Friuli come medici nelle tremende corsie dove la macchina da presa non risparmia le mutilazioni più raccapriccianti dei soldati feriti provenienti soprattutto dalla miseria del sud (molti sottotitoli per i dialetti), mentre la febbre sp****la incombe a mieter vittime militari e civili. Il secondo, più tagliato per la ricerca che per la clinica, trova degli escamotages per aggravare le condizioni dei soldati impedendo che vengano rimandati al fronte a morte certa. L’altro, inflessibile, è disgustato dai “miserabili” simulatori che sfuggono da vigliacchi al dovere verso la Patria, applicando pene severissime fino alla fucilazione per tradimento. Giunge in ospedale anche Anna (Federica Rosellini), ex collega di studi universitari che interruppe quando il clima non era favorevole alla donna istruita, oggi infermiera volontaria della CRI, al centro di un sentimento triangolare e in un personale conflitto psichico sulla giustezza dell’una o dell’altra posizione ideologica dei due dottori risolvendolo in un’amara pietas per la follia della guerra.
Il film si fa quindi incisivo portatore del tema del conflitto, affidato più alla riflessione che non all’azione, più alla tensione dell’immagine che alla sceneggiatura scarna. Metafora delle ambitendenze umane, il “campo di battaglia” non è solo quello bellico politico, ma anche quello interiore (Giulio gioca a scacchi da solo), relazionale, affettivo. Indico nel carteggio Freud-Einstein “Perché la guerra” la possibilità di una risposta alla sua assurdità e alla sua ineluttabilità.
Nel film alcune insistenze su dettagli cruenti ai limiti dell’horror appaiono inutili. La recitazione di Montesi appare la più credibile perché recitare al di fuori del proprio dialetto è tra le prove meno agevoli. Nell’insieme un film importante.

𝐂𝐈𝐍𝐄𝐌𝐀 𝐄 𝐏𝐒𝐈𝐊𝐄✍️𝑹𝒖𝒃𝒓𝒊𝒄𝒂 𝒒𝒖𝒊𝒏𝒅𝒊𝒄𝒊𝒏𝒂𝒍𝒆 𝒂 𝒄𝒖𝒓𝒂 𝒅𝒊 𝑴𝒂𝒓𝒊𝒂 𝑨𝒏𝒕𝒐𝒏𝒊𝒆𝒕𝒕𝒂 𝑪𝒐𝒄𝒄𝒂𝒏𝒂𝒓𝒊 𝒅𝒆' 𝑭𝒐𝒓𝒏𝒂𝒓𝒊🎥𝐿𝐴 𝐶𝐻𝐼𝑀𝐸𝑅𝐴 𝑑𝑖 𝐴𝑙𝑖𝑐𝑒 𝑅𝑜ℎ𝑟𝑤𝑎𝑐ℎ𝑒𝑟𝐄̀ 𝐚...
25/07/2024

𝐂𝐈𝐍𝐄𝐌𝐀 𝐄 𝐏𝐒𝐈𝐊𝐄

✍️𝑹𝒖𝒃𝒓𝒊𝒄𝒂 𝒒𝒖𝒊𝒏𝒅𝒊𝒄𝒊𝒏𝒂𝒍𝒆 𝒂 𝒄𝒖𝒓𝒂 𝒅𝒊 𝑴𝒂𝒓𝒊𝒂 𝑨𝒏𝒕𝒐𝒏𝒊𝒆𝒕𝒕𝒂 𝑪𝒐𝒄𝒄𝒂𝒏𝒂𝒓𝒊 𝒅𝒆' 𝑭𝒐𝒓𝒏𝒂𝒓𝒊

🎥𝐿𝐴 𝐶𝐻𝐼𝑀𝐸𝑅𝐴 𝑑𝑖 𝐴𝑙𝑖𝑐𝑒 𝑅𝑜ℎ𝑟𝑤𝑎𝑐ℎ𝑒𝑟

𝐄̀ 𝐚𝐦𝐛𝐢𝐞𝐧𝐭𝐚𝐭𝐚 𝐧𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐓𝐮𝐬𝐜𝐢𝐚 𝐝𝐞𝐠𝐥𝐢 𝐚𝐧𝐧𝐢 𝟖𝟎, 𝐧𝐞𝐥 𝐜𝐫𝐮𝐝𝐨 𝐚𝐦𝐛𝐢𝐞𝐧𝐭𝐞 𝐜𝐥𝐚𝐧𝐝𝐞𝐬𝐭𝐢𝐧𝐨 𝐝𝐞𝐢 𝐭𝐨𝐦𝐛𝐚𝐫𝐨𝐥𝐢 𝐝𝐞𝐢 𝐭𝐞𝐬𝐨𝐫𝐢 𝐞𝐭𝐫𝐮𝐬𝐜𝐡𝐢, 𝐞 𝐬𝐞𝐦𝐩𝐫𝐞 𝐜𝐨𝐧 𝐢 𝐜𝐚𝐫𝐚𝐛𝐢𝐧𝐢𝐞𝐫𝐢 𝐢𝐧𝐜𝐨𝐦𝐛𝐞𝐧𝐭𝐢, 𝐪𝐮𝐞𝐬𝐭𝐚 𝐬𝐭𝐨𝐫𝐢𝐚 𝐝𝐢 𝐬𝐨𝐩𝐫𝐚𝐯𝐯𝐢𝐯𝐞𝐧𝐳𝐚 𝐞 𝐝𝐢 𝐚𝐦𝐨𝐫𝐞 𝐢𝐫𝐫𝐢𝐝𝐮𝐜𝐢𝐛𝐢𝐥𝐞, 𝐜𝐨𝐧 𝐬𝐯𝐢𝐥𝐮𝐩𝐩𝐨 𝐪𝐮𝐚𝐬𝐢 𝐩𝐨𝐥𝐢𝐳𝐢𝐞𝐬𝐜𝐨 𝐞 𝐟𝐢𝐧𝐚𝐥𝐞 𝐩𝐨𝐞𝐭𝐢𝐜𝐨, 𝐟𝐢𝐫𝐦𝐚𝐭𝐚 𝐝𝐚 𝐀𝐥𝐢𝐜𝐞 𝐑𝐨𝐡𝐫𝐰𝐚𝐜𝐡𝐞𝐫. 𝐈𝐥 𝐟𝐢𝐥𝐦, 𝐩𝐫𝐞𝐬𝐞𝐧𝐭𝐚𝐭𝐨 𝐚 𝐂𝐚𝐧𝐧𝐞𝐬, 𝐯𝐢𝐧𝐜𝐞 𝐢𝐥 𝐏𝐫𝐞𝐦𝐢𝐨 𝐀𝐅𝐂𝐀𝐄 𝐩𝐞𝐫 𝐥𝐞 𝐬𝐚𝐥𝐞 𝐝’𝐞𝐬𝐬𝐚𝐢 𝐞 𝐧𝐮𝐦𝐞𝐫𝐨𝐬𝐢 𝐩𝐫𝐞𝐦𝐢 𝐢𝐧𝐭𝐞𝐫𝐧𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐚𝐥𝐢. 𝐍𝐚𝐬𝐭𝐫𝐨 𝐝’𝐚𝐫𝐠𝐞𝐧𝐭𝐨 𝐚 𝐈𝐬𝐚𝐛𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐑𝐨𝐬𝐬𝐞𝐥𝐥𝐢𝐧𝐢, 𝐢𝐧𝐬𝐞𝐠𝐧𝐚𝐧𝐭𝐞 𝐝𝐢 𝐜𝐚𝐧𝐭𝐨, 𝐚𝐧𝐳𝐢𝐚𝐧𝐚 𝐦𝐚𝐝𝐫𝐞 𝐟𝐚𝐭𝐮𝐚 𝐞 𝐫𝐢𝐬𝐨𝐥𝐮𝐭𝐚 𝐢𝐧 𝐮𝐧 𝐬𝐮𝐨 𝐩𝐢𝐜𝐜𝐨𝐥𝐨 𝐫𝐞𝐠𝐧𝐨 𝐦𝐚𝐭𝐫𝐢𝐚𝐫𝐜𝐚𝐥𝐞.

Arthur, un inglese tombarolo e rabdomante, percepisce i punti delle tombe da saccheggiare. È uscito di prigione, è risentito contro chi non l’ha protetto, irritabile, ancorato al ricordo di una ragazza amata morta nonostante la relazione con una ragazza brasiliana che nasconde i suoi figli e canta canta mentre lavora. È l’unica a trovar bella la sua baracca. Sotto la terra ci sono reperti e il lato oscuro ma anche un filo che ricongiunge al sopra dove esplode la luce vera e anche ultraterrena, dall’invisibile all’abbagliante.
Tutto un ossimoro, tutta una lettura stratificata per un perenne alone arcaico e una struggente sottesa reminiscenza di Orfeo e Euridice con tanto celestiale celeste dove volano e rivolano uccelli come per gli antichi aruspici etruschi. Film dominato dalla bellezza della fotografia e dal sapiente mélange di lentezze e accelerazioni, di realismo e sogno, chimera di ricchezze materiali e di amore immortale. Nell’azione, inserzioni narrative interessanti, come i menestrelli che raccontano le gesta di questa banda e la loro filosofia, come le citazioni pasoliniane e felliniane. Film altamente simbolico, dove lo scavo è metafora di ricerca interiore e dell’Inconscio e dell’“oltre” (“troppe cose sono ancora lì sotto”), dove la statua della dea decapitata è fatta di suggestioni polisemiche, dove il rapporto con il nascosto trascende le miserie terrene e trova nell’amore e nella ricongiunzione con l’universo dei vivi e dei morti un senso grandioso.

‼La rubrica CINEMA E PSIKE sospende le sue pubblicazioni per la pausa estiva e vi dà appuntamento a 𝐠𝐢𝐨𝐯𝐞𝐝𝐢̀ 𝟏𝟐 𝐬𝐞𝐭𝐭𝐞𝐦𝐛𝐫𝐞. BUONE VACANZE!😎⛱

𝐂𝐈𝐍𝐄𝐌𝐀 𝐄 𝐏𝐒𝐈𝐊𝐄✍️𝑹𝒖𝒃𝒓𝒊𝒄𝒂 𝒒𝒖𝒊𝒏𝒅𝒊𝒄𝒊𝒏𝒂𝒍𝒆 𝒂 𝒄𝒖𝒓𝒂 𝒅𝒊 𝑴𝒂𝒓𝒊𝒂 𝑨𝒏𝒕𝒐𝒏𝒊𝒆𝒕𝒕𝒂 𝑪𝒐𝒄𝒄𝒂𝒏𝒂𝒓𝒊 𝒅𝒆' 𝑭𝒐𝒓𝒏𝒂𝒓𝒊🎥𝐿'𝐴𝑅𝑇𝐸 𝐷𝐸𝐿𝐿𝐴 𝐺𝐼𝑂𝐼𝐴 𝑑𝑖 𝑉𝑎𝑙𝑒𝑟𝑖𝑎 𝐺𝑜𝑙𝑖...
11/07/2024

𝐂𝐈𝐍𝐄𝐌𝐀 𝐄 𝐏𝐒𝐈𝐊𝐄

✍️𝑹𝒖𝒃𝒓𝒊𝒄𝒂 𝒒𝒖𝒊𝒏𝒅𝒊𝒄𝒊𝒏𝒂𝒍𝒆 𝒂 𝒄𝒖𝒓𝒂 𝒅𝒊 𝑴𝒂𝒓𝒊𝒂 𝑨𝒏𝒕𝒐𝒏𝒊𝒆𝒕𝒕𝒂 𝑪𝒐𝒄𝒄𝒂𝒏𝒂𝒓𝒊 𝒅𝒆' 𝑭𝒐𝒓𝒏𝒂𝒓𝒊

🎥𝐿'𝐴𝑅𝑇𝐸 𝐷𝐸𝐿𝐿𝐴 𝐺𝐼𝑂𝐼𝐴 𝑑𝑖 𝑉𝑎𝑙𝑒𝑟𝑖𝑎 𝐺𝑜𝑙𝑖𝑛𝑜

𝐋’𝐀𝐑𝐓𝐄 𝐃𝐄𝐋𝐋𝐀 𝐆𝐈𝐎𝐈𝐀 - 𝐏𝐚𝐫𝐭𝐞 𝐬𝐞𝐜𝐨𝐧𝐝𝐚 - (𝟐𝟎𝟐𝟒). 𝐑𝐞𝐠𝐢𝐚 𝐝𝐢 𝐕𝐚𝐥𝐞𝐫𝐢𝐚 𝐆𝐨𝐥𝐢𝐧𝐨 𝐞 𝐍𝐢𝐜𝐨𝐥𝐚𝐧𝐠𝐞𝐥𝐨 𝐆𝐞𝐥𝐨𝐦𝐢𝐧𝐢. 𝐈𝐥 𝐩𝐞𝐫𝐬𝐨𝐧𝐚𝐠𝐠𝐢𝐨 𝐢𝐧𝐯𝐞𝐧𝐭𝐚𝐭𝐨 𝐝𝐚 𝐆𝐨𝐥𝐢𝐚𝐫𝐝𝐚 𝐒𝐚𝐩𝐢𝐞𝐧𝐳𝐚 𝐧𝐞𝐥𝐥𝐨 𝐬𝐜𝐚𝐛𝐫𝐨𝐬𝐨 𝐥𝐢𝐛𝐫𝐨 𝐨𝐦𝐨𝐧𝐢𝐦𝐨, 𝐌𝐨𝐝𝐞𝐬𝐭𝐚, 𝐥𝐚 𝐩𝐨𝐯𝐞𝐫𝐚 𝐨𝐫𝐟𝐚𝐧𝐚 𝐜𝐫𝐞𝐬𝐜𝐢𝐮𝐭𝐚 𝐢𝐧 𝐜𝐨𝐧𝐯𝐞𝐧𝐭𝐨, 𝐨𝐫𝐚, 𝐭𝐫𝐚 𝐢 𝐬𝐞𝐠𝐫𝐞𝐭𝐢 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐜𝐚𝐬𝐚 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐩𝐫𝐢𝐧𝐜𝐢𝐩𝐞𝐬𝐬𝐚 𝐁𝐫𝐚𝐧𝐝𝐢𝐟𝐨𝐫𝐭𝐢 --𝐝𝐨𝐯𝐞 𝐯𝐢𝐞𝐧𝐞 𝐭𝐫𝐚𝐬𝐟𝐞𝐫𝐢𝐭𝐚, 𝐜𝐨𝐬𝐭𝐫𝐮𝐢𝐬𝐜𝐞 𝐚𝐯𝐢𝐝𝐚𝐦𝐞𝐧𝐭𝐞 𝐢𝐦𝐩𝐥𝐚𝐜𝐚𝐛𝐢𝐥𝐦𝐞𝐧𝐭𝐞 𝐥𝐚 𝐬𝐮𝐚 𝐚𝐬𝐜𝐞𝐬𝐚 𝐩𝐞𝐫𝐟𝐞𝐳𝐢𝐨𝐧𝐚𝐧𝐝𝐨 𝐨𝐠𝐧𝐢 𝐬𝐭𝐫𝐚𝐭𝐞𝐠𝐢𝐚 𝐩𝐞𝐫 𝐜𝐨𝐫𝐨𝐧𝐚𝐫𝐞 𝐮𝐧 𝐝𝐢𝐬𝐞𝐠𝐧𝐨 𝐬𝐩𝐢𝐞𝐭𝐚𝐭𝐨 𝐝𝐢 𝐫𝐢𝐬𝐜𝐚𝐭𝐭𝐨 𝐟𝐞𝐦𝐦𝐢𝐧𝐢𝐥𝐞 𝐞 𝐬𝐨𝐜𝐢𝐚𝐥𝐞, 𝐚𝐥𝐥𝐨 𝐬𝐭𝐞𝐬𝐬𝐨 𝐭𝐞𝐦𝐩𝐨 𝐫𝐢𝐛𝐞𝐥𝐥𝐚𝐧𝐝𝐨𝐬𝐢 𝐚 𝐨𝐠𝐧𝐢 𝐜𝐨𝐧𝐯𝐞𝐧𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞, 𝐞 𝐚𝐬𝐬𝐚𝐩𝐨𝐫𝐚𝐧𝐝𝐨 𝐢𝐥 𝐩𝐢𝐚𝐜𝐞𝐫𝐞 𝐝𝐞𝐢 𝐬𝐞𝐧𝐬𝐢 𝐜𝐡𝐞 𝐥𝐞 𝐬𝐢 𝐨𝐟𝐟𝐫𝐞 𝐧𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐝𝐞𝐯𝐨𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐩𝐫𝐢𝐧𝐜𝐢𝐩𝐞𝐬𝐬𝐢𝐧𝐚 𝐁𝐞𝐚𝐭𝐫𝐢𝐜𝐞 𝐞 𝐧𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐬𝐞𝐧𝐬𝐮𝐚𝐥𝐞 𝐬𝐢𝐜𝐮𝐫𝐞𝐳𝐳𝐚 𝐝𝐞𝐥 𝐠𝐚𝐛𝐞𝐥𝐥𝐨𝐭𝐭𝐨, 𝐩𝐚𝐝𝐫𝐞 𝐧𝐚𝐭𝐮𝐫𝐚𝐥𝐞 𝐝𝐢 𝐪𝐮𝐞𝐬𝐭𝐚, 𝐦𝐚𝐞𝐬𝐭𝐨𝐬𝐨 𝐬𝐮𝐥 𝐬𝐮𝐨 𝐜𝐚𝐯𝐚𝐥𝐥𝐨 𝐧𝐞𝐫𝐨: 𝐮𝐧 𝐆𝐮𝐢𝐝𝐨 𝐂𝐚𝐩𝐫𝐢𝐧𝐨 𝐬𝐭𝐫𝐚𝐨𝐫𝐝𝐢𝐧𝐚𝐫𝐢𝐚𝐦𝐞𝐧𝐭𝐞 𝐢𝐧𝐜𝐢𝐬𝐢𝐯𝐨.

Addomesticare il figlio deforme - la “cosa” - della principessa protettiva e velenosa, tenuto nascosto per vergogna, e farne il suo sposo alla luce del sole, è la via perché sia ora Modesta, Modì, a farsi chiamare “principessa”. “Si può amare una donna un uomo un albero un mostro”. Eccola, al centro d’intrighi e malefatte, mentre imperversano la prima guerra mondiale e la sp****la che miete vittime nobili e contadine. Modesta conosce dall’odio propulsore la gioia del potere e dell’eros mentre i flashback la riportano di continuo ai fantasmi miseri dell’infanzia tra violenze unanimi e la capretta amica. Intanto la sua ombra sul muro continua a inquietarla sebbene la cifra della libertà, del desiderio, della volontà risultino sempre il motore dominante e felice rispetto a qualunque altro tema.
Lo sguardo luciferino sulle verità dell’Inconscio e la brutalità della determinazione rendono questa seconda parte più pregnante della prima, che era più scontata nell’attenzione al formarsi della personalità secondo esperienze e abusi infantili.
Valeria Golino era stata allieva di recitazione di Goliarda Sapienza all’Accademia d’Arte Drammatica. La scrittrice aveva preso a guidarla chiamandola “la mia Modesta”, ma solo tanti anni dopo l’attrice avrebbe capito il senso grande di quel nomignolo affettuoso e complesso.

𝐂𝐈𝐍𝐄𝐌𝐀 𝐄 𝐏𝐒𝐈𝐊𝐄✍️𝑹𝒖𝒃𝒓𝒊𝒄𝒂 𝒒𝒖𝒊𝒏𝒅𝒊𝒄𝒊𝒏𝒂𝒍𝒆 𝒂 𝒄𝒖𝒓𝒂 𝒅𝒊 𝑴𝒂𝒓𝒊𝒂 𝑨𝒏𝒕𝒐𝒏𝒊𝒆𝒕𝒕𝒂 𝑪𝒐𝒄𝒄𝒂𝒏𝒂𝒓𝒊 𝒅𝒆' 𝑭𝒐𝒓𝒏𝒂𝒓𝒊🎥𝐿'𝐴𝑅𝑇𝐸 𝐷𝐸𝐿𝐿𝐴 𝐺𝐼𝑂𝐼𝐴 𝑑𝑖 𝑉𝑎𝑙𝑒𝑟𝑖𝑎 𝐺𝑜𝑙𝑖...
27/06/2024

𝐂𝐈𝐍𝐄𝐌𝐀 𝐄 𝐏𝐒𝐈𝐊𝐄

✍️𝑹𝒖𝒃𝒓𝒊𝒄𝒂 𝒒𝒖𝒊𝒏𝒅𝒊𝒄𝒊𝒏𝒂𝒍𝒆 𝒂 𝒄𝒖𝒓𝒂 𝒅𝒊 𝑴𝒂𝒓𝒊𝒂 𝑨𝒏𝒕𝒐𝒏𝒊𝒆𝒕𝒕𝒂 𝑪𝒐𝒄𝒄𝒂𝒏𝒂𝒓𝒊 𝒅𝒆' 𝑭𝒐𝒓𝒏𝒂𝒓𝒊

🎥𝐿'𝐴𝑅𝑇𝐸 𝐷𝐸𝐿𝐿𝐴 𝐺𝐼𝑂𝐼𝐴 𝑑𝑖 𝑉𝑎𝑙𝑒𝑟𝑖𝑎 𝐺𝑜𝑙𝑖𝑛𝑜

𝐋’𝐀𝐑𝐓𝐄 𝐃𝐄𝐋𝐋𝐀 𝐆𝐈𝐎𝐈𝐀 – 𝐏𝐚𝐫𝐭𝐞 𝐩𝐫𝐢𝐦𝐚 - (𝟐𝟎𝟐𝟒). 𝐑𝐞𝐠𝐢𝐚 𝐝𝐢 𝐕𝐚𝐥𝐞𝐫𝐢𝐚 𝐆𝐨𝐥𝐢𝐧𝐨 𝐝𝐞𝐥 𝐟𝐢𝐥𝐦 𝐭𝐫𝐚𝐭𝐭𝐨 𝐝𝐚𝐥𝐥’𝐨𝐦𝐨𝐧𝐢𝐦𝐨 𝐫𝐨𝐦𝐚𝐧𝐳𝐨 𝐩𝐨𝐬𝐭𝐮𝐦𝐨 𝐝𝐢 𝐆𝐨𝐥𝐢𝐚𝐫𝐝𝐚 𝐒𝐚𝐩𝐢𝐞𝐧𝐳𝐚, 𝐜𝐡𝐞 𝐢𝐧𝐢𝐳𝐢𝐚 𝐜𝐨𝐦𝐞 𝐫𝐨𝐦𝐚𝐧𝐳𝐨 𝐝𝐢 𝐟𝐨𝐫𝐦𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞. 𝐒𝐢𝐜𝐜𝐨𝐦𝐞 𝐪𝐮𝐞𝐬𝐭𝐚 𝐬𝐜𝐫𝐢𝐭𝐭𝐫𝐢𝐜𝐞 𝐞̀ 𝐩𝐞𝐜𝐮𝐥𝐢𝐚𝐫𝐞 𝐩𝐫𝐨𝐩𝐫𝐢𝐨 𝐧𝐞𝐥𝐥𝐨 𝐬𝐭𝐢𝐥𝐞 𝐜𝐚𝐩𝐫𝐢𝐜𝐜𝐢𝐨𝐬𝐨, 𝐦𝐨𝐥𝐭𝐨 𝐝𝐢𝐟𝐟𝐢𝐜𝐢𝐥𝐞 𝐫𝐞𝐧𝐝𝐞𝐫𝐥𝐨 𝐢𝐧 𝐢𝐦𝐦𝐚𝐠𝐢𝐧𝐢. 𝐋𝐚 𝐬𝐜𝐞𝐧𝐞𝐠𝐠𝐢𝐚𝐭𝐮𝐫𝐚, 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐬𝐭𝐞𝐬𝐬𝐚 𝐆𝐨𝐥𝐢𝐧𝐨 𝐞 𝐚𝐥𝐭𝐫𝐢, 𝐞̀ 𝐜𝐨𝐦𝐮𝐧𝐪𝐮𝐞 𝐛𝐮𝐨𝐧𝐚, 𝐥’𝐢𝐫𝐨𝐧𝐢𝐚 𝐞̀ 𝐢𝐧𝐜𝐞𝐬𝐬𝐚𝐧𝐭𝐞 𝐞 𝐩𝐫𝐞𝐬𝐞𝐫𝐯𝐚𝐭𝐫𝐢𝐜𝐞 𝐝𝐚𝐥 𝐟𝐞𝐮𝐢𝐥𝐥𝐞𝐭𝐨𝐧, 𝐥𝐞 𝐩𝐚𝐮𝐬𝐞 𝐚𝐯𝐯𝐨𝐥𝐭𝐞 𝐝𝐚𝐥𝐥𝐚 𝐜𝐫𝐞𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐦𝐮𝐬𝐢𝐜𝐚𝐥𝐞 𝐝𝐢 𝐓𝐨𝐭𝐢 𝐆𝐮𝐨𝐧𝐚𝐬𝐨𝐧 𝐪𝐮𝐚𝐬𝐢 𝐨𝐬𝐬𝐞𝐬𝐬𝐢𝐯𝐚, 𝐢𝐧𝐬𝐢𝐞𝐦𝐞 𝐜𝐨𝐧 𝐛𝐫𝐚𝐧𝐢 𝐝𝐢 𝐂𝐡𝐨𝐩𝐢𝐧 𝐒𝐜𝐚𝐫𝐥𝐚𝐭𝐭𝐢 𝐃𝐯𝐨𝐫𝐚𝐤 𝐑𝐚𝐯𝐞𝐥, 𝐚𝐢𝐮𝐭𝐚𝐧𝐨 𝐦𝐨𝐥𝐭𝐨 𝐧𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐜𝐫𝐞𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐝𝐞𝐥 𝐜𝐥𝐢𝐦𝐚𝐱 𝐝𝐢 𝐮𝐧𝐚 𝐬𝐭𝐨𝐫𝐢𝐚 𝐝𝐞𝐥 𝐩𝐫𝐢𝐦𝐨 𝐍𝐨𝐯𝐞𝐜𝐞𝐧𝐭𝐨, 𝐝𝐮𝐫𝐚 𝐞 𝐭𝐨𝐫𝐛𝐢𝐝𝐚, 𝐝𝐢 𝐮𝐧𝐚 𝐛𝐚𝐦𝐛𝐢𝐧𝐚 𝐩𝐨𝐯𝐞𝐫𝐚 𝐞 𝐚𝐛𝐮𝐬𝐚𝐭𝐚 𝐜𝐡𝐞 𝐭𝐫𝐚 𝐜𝐨𝐧𝐯𝐞𝐧𝐭𝐨 𝐞 𝐜𝐚𝐬𝐞 𝐠𝐞𝐧𝐭𝐢𝐥𝐢𝐳𝐢𝐞 𝐫𝐮𝐛𝐞𝐫𝐚̀ 𝐝𝐚𝐥𝐥𝐚 𝐯𝐢𝐭𝐚, 𝐜𝐨𝐦𝐞 𝐮𝐧 𝐝𝐢𝐫𝐢𝐭𝐭𝐨, 𝐨𝐠𝐧𝐢 𝐦𝐨𝐳𝐳𝐢𝐜𝐨 𝐝𝐢 𝐠𝐢𝐨𝐢𝐚, 𝐚 𝐪𝐮𝐚𝐥𝐮𝐧𝐪𝐮𝐞 𝐜𝐨𝐬𝐭𝐨, 𝐚𝐧𝐜𝐡𝐞 𝐝𝐞𝐥𝐥’𝐚𝐬𝐬𝐚𝐬𝐬𝐢𝐧𝐢𝐨. “𝐄̀ 𝐯𝐞𝐫𝐨, 𝐡𝐨 𝐫𝐮𝐛𝐚𝐭𝐨. 𝐇𝐨 𝐬𝐞𝐦𝐩𝐫𝐞 𝐫𝐮𝐛𝐚𝐭𝐨 𝐥𝐚 𝐦𝐢𝐚 𝐩𝐚𝐫𝐭𝐞 𝐝𝐢 𝐠𝐢𝐨𝐢𝐚”.

Modesta è una bambina che vive in campagna come un animaletto vitale, libera nella pioggia a dare il nome alle stelle all’ombra dell’Etna che erutta e fa paura, nella miseria più nera con la madre e una sorella disabile. Il padre torna da lontano e la violenta. Un incendio distrugge il tugurio. Modesta non fa niente per salvare i suoi, anzi.
Ormai senza nessuno al mondo, viene portata in convento dove le nobili educande la umiliano, dove viene istruita tra lusinghe e ipocrisie. E poi, alla morte dell’ambigua madre superiora (Jasmine Trinca) di cui si era innamorata, viene portata nella nobile casa di quest’ultima dove s’innamora di uomini e donne, “quando era necessario”. Dove piange “ogni volta che diventa necessario”.
Dove la principessa (Valeria Bruni Tedeschi) madre della suora, fugge ogni vile problema quotidiano rifugiandosi nella Bellezza, dell’Arte, delle maniere, unica cifra del suo Sé. Quel nome Modesta, poi, così meschino, bisognerà cambiarlo. Sarà Modì, per evocare i poeti maledetti, Baudelaire, Rimbaud, Verlaine, che la ragazza comincia a leggere voracemente.
Conosce le “diavolerie” come l’automobile e il grammofono. Aleggia anche il fantasma di un altro figlio della nobildonna, Jacopo, di cui si parla come di un mito, il più bello della bella famiglia, il pilota, lo sfolgorante, l’eroe. Rumori strani intanto turbano le ore della Bellezza. Aleggiano segreti. Ci saranno sorprese. Citazione, tra le molte, di 𝐴𝑛𝑖𝑚𝑎 𝑃𝑒𝑟𝑠𝑎 di Dino Risi con effetti espressionisti e grotteschi.
Modesta è anche l’Io narrante. La vediamo da grande che racconta con flash back innescati da associazioni, circondata di lievi eleganze, vestita di punto Venezia, sorridente in modo ambiguo: è la rivincita –potere e piacere- che si chiama “gioia”. Conquistata con intelligenza spregiudicatezza manipolazioni e determinazione, e con mezzi decisivi che sapremo in un altro film: parte seconda.

𝐂𝐈𝐍𝐄𝐌𝐀 𝐄 𝐏𝐒𝐈𝐊𝐄✍️𝑹𝒖𝒃𝒓𝒊𝒄𝒂 𝒒𝒖𝒊𝒏𝒅𝒊𝒄𝒊𝒏𝒂𝒍𝒆 𝒂 𝒄𝒖𝒓𝒂 𝒅𝒊 𝑴𝒂𝒓𝒊𝒂 𝑨𝒏𝒕𝒐𝒏𝒊𝒆𝒕𝒕𝒂 𝑪𝒐𝒄𝒄𝒂𝒏𝒂𝒓𝒊 𝒅𝒆' 𝑭𝒐𝒓𝒏𝒂𝒓𝒊🎥𝑀𝐴𝑅𝐶𝐸𝐿𝐿𝑂 𝑀𝐼𝑂 𝑑𝑖 𝐶ℎ𝑟𝑖𝑠𝑡𝑜𝑝ℎ𝑒 𝐻𝑜𝑛𝑜𝑟𝑒́...
13/06/2024

𝐂𝐈𝐍𝐄𝐌𝐀 𝐄 𝐏𝐒𝐈𝐊𝐄

✍️𝑹𝒖𝒃𝒓𝒊𝒄𝒂 𝒒𝒖𝒊𝒏𝒅𝒊𝒄𝒊𝒏𝒂𝒍𝒆 𝒂 𝒄𝒖𝒓𝒂 𝒅𝒊 𝑴𝒂𝒓𝒊𝒂 𝑨𝒏𝒕𝒐𝒏𝒊𝒆𝒕𝒕𝒂 𝑪𝒐𝒄𝒄𝒂𝒏𝒂𝒓𝒊 𝒅𝒆' 𝑭𝒐𝒓𝒏𝒂𝒓𝒊

🎥𝑀𝐴𝑅𝐶𝐸𝐿𝐿𝑂 𝑀𝐼𝑂 𝑑𝑖 𝐶ℎ𝑟𝑖𝑠𝑡𝑜𝑝ℎ𝑒 𝐻𝑜𝑛𝑜𝑟𝑒́

𝐌𝐀𝐑𝐂𝐄𝐋𝐋𝐎 𝐌𝐈𝐎 (𝟐𝟎𝟐𝟒). 𝐈𝐥 𝐫𝐞𝐠𝐢𝐬𝐭𝐚 𝐂𝐡𝐫𝐢𝐬𝐭𝐨𝐩𝐡𝐞 𝐇𝐨𝐧𝐨𝐫𝐞́ (𝐫𝐢𝐜𝐨𝐫𝐝𝐚𝐭𝐞 𝙈𝒂 𝒎𝙚̀𝒓𝙚?), 𝐜𝐨𝐬𝐭𝐫𝐮𝐢𝐬𝐜𝐞 𝐮𝐧 𝐜𝐮𝐫𝐢𝐨𝐬𝐨 𝐟𝐢𝐥𝐦 𝐬𝐮 𝐦𝐢𝐬𝐮𝐫𝐚 𝐩𝐞𝐫 𝐂𝐡𝐢𝐚𝐫𝐚 𝐌𝐚𝐬𝐭𝐫𝐨𝐢𝐚𝐧𝐧𝐢 𝐟𝐢𝐠𝐥𝐢𝐚 𝐝𝐢 𝐌𝐚𝐫𝐜𝐞𝐥𝐥𝐨 𝐞 𝐝𝐢 𝐂𝐚𝐭𝐡𝐞𝐫𝐢𝐧𝐞 𝐃𝐞𝐧𝐞𝐮𝐯𝐞. 𝐂𝐡𝐢𝐚𝐫𝐚 𝐢𝐧𝐭𝐞𝐫𝐩𝐫𝐞𝐭𝐚 𝐮𝐧𝐚 𝐬𝐞 𝐬𝐭𝐞𝐬𝐬𝐚 𝐨𝐬𝐬𝐞𝐬𝐬𝐢𝐨𝐧𝐚𝐭𝐚 𝐝𝐚𝐥𝐥𝐚 𝐟𝐢𝐠𝐮𝐫𝐚 𝐝𝐞𝐥 𝐩𝐚𝐝𝐫𝐞, 𝐬𝐢 𝐯𝐞𝐬𝐭𝐞 𝐜𝐨𝐦𝐞 𝐥𝐮𝐢, 𝐬𝐢 𝐟𝐚 𝐜𝐡𝐢𝐚𝐦𝐚𝐫𝐞 𝐌𝐚𝐫𝐜𝐞𝐥𝐥𝐨, 𝐢𝐧𝐬𝐨𝐦𝐦𝐚 𝐬’𝐢𝐝𝐞𝐧𝐭𝐢𝐟𝐢𝐜𝐚 𝐜𝐨𝐧 𝐥𝐮𝐢, 𝐞 𝐬𝐮𝐚 𝐦𝐚𝐝𝐫𝐞 𝐬𝐭𝐚 𝐚 𝐠𝐮𝐚𝐫𝐝𝐚𝐫𝐞, 𝐨𝐫𝐚 𝐜𝐨𝐧 𝐝𝐢𝐬𝐭𝐚𝐜𝐜𝐚𝐭𝐚 𝐩𝐫𝐞𝐨𝐜𝐜𝐮𝐩𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐨𝐫𝐚 𝐜𝐨𝐧 𝐝𝐢𝐯𝐞𝐫𝐭𝐢𝐭𝐨 𝐝𝐢𝐬𝐭𝐚𝐜𝐜𝐨.

Allora eccola sfilare in esterni e interni, strade vere parigine mare italiano di Formia, e citazioni e flash di set immaginati, 𝐿𝑒 𝑛𝑜𝑡𝑡𝑖 𝑏𝑖𝑎𝑛𝑐ℎ𝑒, 𝐺𝑖𝑛𝑔𝑒𝑟 𝑒 𝑅𝑜𝑔𝑒𝑟, 𝐷𝑖𝑣𝑜𝑟𝑧𝑖𝑜 𝑎𝑙𝑙’𝑖𝑡𝑎𝑙𝑖𝑎𝑛𝑎, goduria per i cinefili, con una 𝐷𝑜𝑙𝑐𝑒 𝑉𝑖𝑡𝑎 dominante dove Chiara in lungo abito nero e fluente chioma d’oro nella fontana effettivamente esplode nella impressionante somiglianza con il padre piuttosto che con quella “meraviglia della natura” come diceva Fellini di Anita Ekberg. Le altre persone reali interpretano se stesse, vedi ad esempio Melvil Poupaud, Stefania Sandrelli, Francesca Fialdini e l’empatico Fabrice Luchini che cita Nietzsche “tutto ciò che c’è di bello nella vita è ereditato”. Sconcertante l’abilità della protagonista nella mimica gli atteggiamenti il movimento che di continuo la rendono davvero confondente rispetto all’augusto padre. Una sorta di reincarnazione sorridentemente malinconica, un gesto amoroso per non farlo morire. Questo è il senso della memoria. Chiara travalica il ruolo di “figlia di”, entra in un gioco assurdo dell’identità assoluta. Il percorso naturale delle identificazioni sarebbe con il genitore dello stesso sesso. Forse una madre algida e dal fascino inarrivabile rende più semplice ripiegare sull’altro? O è solo un modo simbolico per farlo restare, per non strapparsi da lui dopo che lui andandosene le aveva “strappato il cuore”?
Benevola la critica italiana, quella internazionale taccia il film di narcisismo e banalità a gogò, un film inutile. Lo si prenda per quel che è: un omaggio a Marcello Mastroianni nel Centenario della nascita.

🎬𝐂𝐈𝐍𝐄𝐌𝐀 𝐄 𝐏𝐒𝐈𝐊𝐄✍️𝑹𝒖𝒃𝒓𝒊𝒄𝒂 𝒒𝒖𝒊𝒏𝒅𝒊𝒄𝒊𝒏𝒂𝒍𝒆 𝒂 𝒄𝒖𝒓𝒂 𝒅𝒊 𝑴𝒂𝒓𝒊𝒂 𝑨𝒏𝒕𝒐𝒏𝒊𝒆𝒕𝒕𝒂 𝑪𝒐𝒄𝒄𝒂𝒏𝒂𝒓𝒊 𝒅𝒆' 𝑭𝒐𝒓𝒏𝒂𝒓𝒊🎥𝐴𝑛𝑎𝑡𝑜𝑚𝑖𝑎 𝑑𝑖 𝑢𝑛𝑎 𝑐𝑎𝑑𝑢𝑡𝑎 𝑑𝑖 𝐽𝑢𝑠𝑡𝑖𝑛𝑒...
16/11/2023

🎬𝐂𝐈𝐍𝐄𝐌𝐀 𝐄 𝐏𝐒𝐈𝐊𝐄

✍️𝑹𝒖𝒃𝒓𝒊𝒄𝒂 𝒒𝒖𝒊𝒏𝒅𝒊𝒄𝒊𝒏𝒂𝒍𝒆 𝒂 𝒄𝒖𝒓𝒂 𝒅𝒊 𝑴𝒂𝒓𝒊𝒂 𝑨𝒏𝒕𝒐𝒏𝒊𝒆𝒕𝒕𝒂 𝑪𝒐𝒄𝒄𝒂𝒏𝒂𝒓𝒊 𝒅𝒆' 𝑭𝒐𝒓𝒏𝒂𝒓𝒊

🎥𝐴𝑛𝑎𝑡𝑜𝑚𝑖𝑎 𝑑𝑖 𝑢𝑛𝑎 𝑐𝑎𝑑𝑢𝑡𝑎 𝑑𝑖 𝐽𝑢𝑠𝑡𝑖𝑛𝑒 𝑇𝑟𝑖𝑒𝑡

𝐀𝐍𝐀𝐓𝐎𝐌𝐈𝐀 𝐃𝐈 𝐔𝐍𝐀 𝐂𝐀𝐃𝐔𝐓𝐀 (𝟐𝟎𝟐𝟑). 𝐃𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐭𝐚𝐥𝐞𝐧𝐭𝐮𝐨𝐬𝐚 𝐫𝐞𝐠𝐢𝐬𝐭𝐚 𝐟𝐫𝐚𝐧𝐜𝐞𝐬𝐞 𝐉𝐮𝐬𝐭𝐢𝐧𝐞 𝐓𝐫𝐢𝐞𝐭. 𝐋𝐮𝐧𝐠𝐨 𝐠𝐢𝐚𝐥𝐥𝐨 𝐠𝐢𝐮𝐝𝐢𝐳𝐢𝐚𝐫𝐢𝐨 (𝟏𝟓𝟎’) 𝐜𝐨𝐧 𝐬𝐨𝐥𝐮𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐚𝐦𝐛𝐢𝐠𝐮𝐚, 𝐝𝐞𝐭𝐭𝐚𝐠𝐥𝐢𝐨 𝐬𝐞𝐜𝐨𝐧𝐝𝐚𝐫𝐢𝐨 𝐢𝐧 𝐮𝐧 𝐟𝐢𝐥𝐦 𝐝’𝐚𝐮𝐭𝐨𝐫𝐞 𝐝𝐨𝐯𝐞 𝐢𝐥 𝐟𝐨𝐜𝐮𝐬 𝐬𝐨𝐧𝐨 𝐢 𝐠𝐢𝐨𝐜𝐡𝐢 𝐩𝐞𝐫𝐯𝐞𝐫𝐬𝐢 𝐝𝐢 𝐜𝐨𝐩𝐩𝐢𝐚, 𝐞𝐬𝐚𝐦𝐢𝐧𝐚𝐭𝐢 𝐜𝐨𝐧 𝐞𝐧𝐨𝐫𝐦𝐞 𝐟𝐢𝐧𝐞𝐳𝐳𝐚 𝐩𝐬𝐢𝐜𝐨𝐥𝐨𝐠𝐢𝐜𝐚. 𝐒𝐢 𝐫𝐢𝐟𝐥𝐞𝐭𝐭𝐨𝐧𝐨 𝐬𝐮𝐥 𝐟𝐢𝐠𝐥𝐢𝐞𝐭𝐭𝐨 𝐝𝐢 𝟏𝟏 𝐚𝐧𝐧𝐢, 𝐜𝐢𝐞𝐜𝐨 𝐩𝐞𝐫𝐜𝐡𝐞́ 𝐢𝐧𝐯𝐞𝐬𝐭𝐢𝐭𝐨 𝐝𝐚 𝐮𝐧 𝐭𝐫𝐚𝐦, 𝐜𝐡𝐞 𝐬𝐢 𝐫𝐢𝐭𝐫𝐨𝐯𝐚 𝐜𝐨𝐧 𝐥’𝐚𝐦𝐚𝐭𝐨 𝐜𝐚𝐧𝐞 𝐚𝐜𝐜𝐚𝐧𝐭𝐨 𝐚𝐥 𝐜𝐚𝐝𝐚𝐯𝐞𝐫𝐞 𝐝𝐞𝐥 𝐩𝐚𝐝𝐫𝐞 𝐩𝐫𝐞𝐜𝐢𝐩𝐢𝐭𝐚𝐭𝐨 𝐝𝐚 𝐮𝐧𝐚 𝐟𝐢𝐧𝐞𝐬𝐭𝐫𝐚 𝐝𝐚𝐯𝐚𝐧𝐭𝐢 𝐚𝐥𝐥𝐚 𝐥𝐨𝐫𝐨 𝐜𝐚𝐬𝐚 𝐧𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐦𝐨𝐧𝐭𝐚𝐠𝐧𝐚 𝐢𝐧𝐧𝐞𝐯𝐚𝐭𝐚. 𝐏𝐚𝐥𝐦𝐚 𝐝’𝐎𝐫𝐨 𝐚 𝐂𝐚𝐧𝐧𝐞𝐬.

Una scrittrice tedesca di successo (Sandra Hüller). Un marito intellettuale che ha portato la famiglia a vivere nel suo luogo francese di origine. Un continuo obbligatorio e spaesante oscillare tra le due lingue di appartenenza e l’Inglese. Un isolamento inquieto. Lui, di bella penna, è in grave crisi morale e lavorativa dopo che un incidente aveva procurato anni prima la cecità parziale del loro bambino mentre stava scrivendo finalmente il romanzo della sua vita. Tremende coincidenze causano la menomazione quando lui avrebbe potuto andare a prenderlo a scuola, innescando naturalmente tutto un altro percorso di vita. Ma perché non è andata la madre, assorbita dalla scrittura? Ossessionato dalla colpa e dalla rabbia, smette di scrivere. Depressione vergogna umiliazione e competizione con la moglie più fredda e anche traditrice e anche ladra di un’idea geniale del suo romanzo, lo devastano. Si fanno carnefici e vittime, incolpandosi, punendosi in modo circolare, allontanandosi, alleandosi in rari momenti di ripiegamento. Con una Musica assordante a tutto volume lui la percuote perpetuamente, a parte le lotte fisiche come quella avvenuta proprio a ridosso della morte.
E il bambino assiste attonito ferito infelice.
Omicidio? Suicidio?
Polizia, magistratura, testimoni accentrano il sospetto sulla moglie, indagano e ricostruiscono con spietata accuratezza, incalzandosi tra accusa e difesa in un processo che è anche interiore, dove sfilano la verità e le finzioni, il ricordo e la sua deformazione, precludendo a chiunque una innocenza essenziale. La Musica violenta si distende nello Chopin di un finale polisemico in cui irreparabilità e perdono convivono in un abbraccio struggente. I critici lo considerano il più bel film dell’anno, e tra i più belli degli ultimi anni. In ogni caso, imperdibile.

📚 𝗥𝗘𝗖𝗘𝗡𝗦𝗜𝗢𝗡𝗘 𝗟𝗜𝗕𝗥𝗜“… 𝑶𝒈𝒏𝒊 𝒔𝒆𝒓𝒂 𝒎𝒊 𝒑𝒓𝒆𝒑𝒂𝒓𝒂𝒗𝒐 𝒂 𝒎𝒐𝒓𝒊𝒓𝒆. 𝑴𝒊 𝒄𝒊 𝒆𝒓𝒐 𝒒𝒖𝒂𝒔𝒊 𝒂𝒃𝒊𝒕𝒖𝒂𝒕𝒂. 𝑷𝒆𝒏𝒔𝒂𝒗𝒐 𝒂 𝒖𝒏 𝒔𝒐𝒏𝒏𝒐 𝒅𝒂 𝒄𝒖𝒊 𝒏𝒐𝒏 𝒄𝒊 𝒔𝒊 𝒔𝒗𝒆𝒈...
07/11/2023

📚 𝗥𝗘𝗖𝗘𝗡𝗦𝗜𝗢𝗡𝗘 𝗟𝗜𝗕𝗥𝗜

“… 𝑶𝒈𝒏𝒊 𝒔𝒆𝒓𝒂 𝒎𝒊 𝒑𝒓𝒆𝒑𝒂𝒓𝒂𝒗𝒐 𝒂 𝒎𝒐𝒓𝒊𝒓𝒆. 𝑴𝒊 𝒄𝒊 𝒆𝒓𝒐 𝒒𝒖𝒂𝒔𝒊 𝒂𝒃𝒊𝒕𝒖𝒂𝒕𝒂. 𝑷𝒆𝒏𝒔𝒂𝒗𝒐 𝒂 𝒖𝒏 𝒔𝒐𝒏𝒏𝒐 𝒅𝒂 𝒄𝒖𝒊 𝒏𝒐𝒏 𝒄𝒊 𝒔𝒊 𝒔𝒗𝒆𝒈𝒍𝒊𝒂, 𝒎𝒂 𝒑𝒆𝒓 𝒍𝒐 𝒎𝒆𝒏𝒐 𝒕𝒓𝒂𝒏𝒒𝒖𝒊𝒍𝒍𝒐, 𝒆 𝒔𝒆𝒏𝒛𝒂 𝒊 𝒄𝒓𝒂𝒎𝒑𝒊 𝒅𝒆𝒍𝒍𝒂 𝒇𝒂𝒎𝒆 𝒄𝒉𝒆 𝒎𝒊 𝒊𝒎𝒑𝒆𝒅𝒊𝒗𝒂𝒏𝒐 𝒅𝒊 𝒅𝒐𝒓𝒎𝒊𝒓𝒆… 𝒎𝒊 𝒊𝒎𝒎𝒂𝒈𝒊𝒏𝒂𝒗𝒐 𝒊𝒎𝒎𝒐𝒃𝒊𝒍𝒆 𝒆 𝒔𝒆𝒓𝒆𝒏𝒂”.

📖Nel suo ultimo libro Dacia Maraini racconta, in modo toccante, l'esperienza drammatica avuta con la sua famiglia, in Giappone, durante la prigionia in un campo di concentramento per dissidenti politici.

✍️La a cura di Alma Daddario.

Buona lettura!

Giappone 1943. Memorie di una bambina italiana in un campo di prigionia Sarebbe molto riduttivo definire questo libro un semplice diario, anche se le vicende narrate sono quelle realmente vissute dalla protagonista. Dacia Maraini ripercorre in queste pagine una parte drammatica della sua infanzia, q...

🎬𝐂𝐈𝐍𝐄𝐌𝐀 𝐄 𝐏𝐒𝐈𝐊𝐄✍️𝑹𝒖𝒃𝒓𝒊𝒄𝒂 𝒒𝒖𝒊𝒏𝒅𝒊𝒄𝒊𝒏𝒂𝒍𝒆 𝒂 𝒄𝒖𝒓𝒂 𝒅𝒊 𝑴𝒂𝒓𝒊𝒂 𝑨𝒏𝒕𝒐𝒏𝒊𝒆𝒕𝒕𝒂 𝑪𝒐𝒄𝒄𝒂𝒏𝒂𝒓𝒊 𝒅𝒆' 𝑭𝒐𝒓𝒏𝒂𝒓𝒊🎥𝐶'𝑒̀ 𝑎𝑛𝑐𝑜𝑟𝑎 𝑑𝑜𝑚𝑎𝑛𝑖 𝑑𝑖 𝑃𝑎𝑜𝑙𝑎 𝐶𝑜𝑟𝑡𝑒...
02/11/2023

🎬𝐂𝐈𝐍𝐄𝐌𝐀 𝐄 𝐏𝐒𝐈𝐊𝐄

✍️𝑹𝒖𝒃𝒓𝒊𝒄𝒂 𝒒𝒖𝒊𝒏𝒅𝒊𝒄𝒊𝒏𝒂𝒍𝒆 𝒂 𝒄𝒖𝒓𝒂 𝒅𝒊 𝑴𝒂𝒓𝒊𝒂 𝑨𝒏𝒕𝒐𝒏𝒊𝒆𝒕𝒕𝒂 𝑪𝒐𝒄𝒄𝒂𝒏𝒂𝒓𝒊 𝒅𝒆' 𝑭𝒐𝒓𝒏𝒂𝒓𝒊

🎥𝐶'𝑒̀ 𝑎𝑛𝑐𝑜𝑟𝑎 𝑑𝑜𝑚𝑎𝑛𝑖 𝑑𝑖 𝑃𝑎𝑜𝑙𝑎 𝐶𝑜𝑟𝑡𝑒𝑙𝑙𝑒𝑠𝑖

𝐂’𝐄’ 𝐀𝐍𝐂𝐎𝐑𝐀 𝐃𝐎𝐌𝐀𝐍𝐈 (𝟐𝟎𝟐𝟑). 𝐅𝐨𝐥𝐠𝐨𝐫𝐚𝐧𝐭𝐞 𝐞𝐬𝐨𝐫𝐝𝐢𝐨 𝐚𝐥𝐥𝐚 𝐫𝐞𝐠𝐢𝐚 𝐝𝐢 𝐏𝐚𝐨𝐥𝐚 𝐂𝐨𝐫𝐭𝐞𝐥𝐥𝐞𝐬𝐢 𝐩𝐞𝐫 𝐮𝐧 𝐟𝐢𝐥𝐦 𝐬𝐮𝐥𝐥𝐚 𝐜𝐨𝐧𝐝𝐢𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐜𝐚𝐬𝐚𝐥𝐢𝐧𝐠𝐚 𝐬𝐜𝐡𝐢𝐚𝐯𝐢𝐳𝐳𝐚𝐭𝐚 𝐝𝐚𝐥 𝐦𝐚𝐬𝐜𝐡𝐢𝐨 𝐞 𝐬𝐮𝐥 𝐜𝐚𝐦𝐛𝐢𝐚𝐦𝐞𝐧𝐭𝐨, 𝐚𝐦𝐛𝐢𝐞𝐧𝐭𝐚𝐭𝐨 𝐧𝐞𝐥 𝟏𝟗𝟒𝟔. 𝐅𝐢𝐧𝐚𝐥𝐞 𝐚 𝐬𝐨𝐫𝐩𝐫𝐞𝐬𝐚. 𝐃𝐫𝐚𝐦𝐦𝐚𝐭𝐢𝐜𝐨, 𝐜𝐨𝐧 𝐝𝐞𝐥𝐢𝐳𝐢𝐞 𝐥𝐞𝐠𝐠𝐞𝐫𝐞 𝐢𝐧 𝐞𝐪𝐮𝐢𝐥𝐢𝐛𝐫𝐢𝐨. 𝐒𝐜𝐫𝐢𝐭𝐭𝐨 𝐝𝐚𝐥𝐥𝐚 𝐬𝐭𝐞𝐬𝐬𝐚 𝐫𝐞𝐠𝐢𝐬𝐭𝐚 𝐜𝐨𝐧 𝐅𝐮𝐫𝐢𝐨 𝐀𝐧𝐝𝐫𝐞𝐨𝐭𝐭𝐢 𝐞 𝐆𝐢𝐮𝐥𝐢𝐚 𝐂𝐚𝐥𝐞𝐧𝐝𝐚. 𝐕𝐢𝐧𝐜𝐞 𝐚𝐥𝐥𝐚 𝐅𝐞𝐬𝐭𝐚 𝐝𝐞𝐥 𝐂𝐢𝐧𝐞𝐦𝐚 𝐝𝐢 𝐑𝐨𝐦𝐚 𝐢𝐥 𝐏𝐫𝐞𝐦𝐢𝐨 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐂𝐫𝐢𝐭𝐢𝐜𝐚 𝐞 𝐪𝐮𝐞𝐥𝐥𝐨 𝐝𝐞𝐥 𝐏𝐮𝐛𝐛𝐥𝐢𝐜𝐨, 𝐜𝐨𝐧 𝐮𝐧𝐚 𝐌𝐞𝐧𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐒𝐩𝐞𝐜𝐢𝐚𝐥𝐞 𝐜𝐨𝐦𝐞 𝐎𝐩𝐞𝐫𝐚 𝐏𝐫𝐢𝐦𝐚.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale nel sottoscala miserrimo di in popoloso quartiere romano, una delle famiglie tipo è costituita da marito violento (Valerio Mastandrea), moglie sottomessa (Paola Cortellesi), un suocero ignorante e prepotente (Giorgio Colangeli) che insegna al figlio i metodi “educativi” verso le donne che parlano troppo, due bambini, e una figlia adolescente piena di vergogna fidanzata con gentile ragazzo benestante che già mostra inclinazione al dominio. Nel cortile risuonano urla turpiloquio botte chiacchiere, e giochi di povera infanzia. Ed eccola là, lei, a faticare dentro casa e al lavoro, a sopportare ogni umiliazione da quel marito brutto bruto terribile e fragile, in una sorta di derealizzazione da difesa con un perenne sorriso rassegnato e l’aiuto morale di un’amica fruttivendola, del primo amor perduto, di un soldato nero che parla l’incomprensibile Inglese. Arriva una lettera misteriosa. Si risveglia la sua coscienza. Decide. I passi sostenuti delle ultime sequenze in suspense la stanno portando verso un altrove con piglio marziale e il crescendo di una curiosità che lo spettatore soddisfa con consenso intellettuale e commozione.
Gran ritmo per un dramma crudo, la celebrazione di un momento storico decisivo, sveltimenti dati da inclusioni comiche musiche canzoni e danze surreali di contrasto per una dose impagabile di ironia, come valore aggiunto in una fotografia B/N con cui Davide Leone, che ha studiato in maniera certosina quella della nostra Storia del Cinema, ci spinge addirittura verso i grandi nomi del Neorealismo.
In sala, e anche nelle altre sale italiane, applausi finali del pubblico, per un gioiello inatteso, dedicato alla giornalista e suffragette Anna Garofalo.

🎬𝐂𝐈𝐍𝐄𝐌𝐀 𝐄 𝐏𝐒𝐈𝐊𝐄✍️𝑹𝒖𝒃𝒓𝒊𝒄𝒂 𝒒𝒖𝒊𝒏𝒅𝒊𝒄𝒊𝒏𝒂𝒍𝒆 𝒂 𝒄𝒖𝒓𝒂 𝒅𝒊 𝑴𝒂𝒓𝒊𝒂 𝑨𝒏𝒕𝒐𝒏𝒊𝒆𝒕𝒕𝒂 𝑪𝒐𝒄𝒄𝒂𝒏𝒂𝒓𝒊 𝒅𝒆' 𝑭𝒐𝒓𝒏𝒂𝒓𝒊🎥𝐶𝑟𝑜𝑛𝑎𝑐ℎ𝑒 𝑑𝑖 𝑝𝑜𝑣𝑒𝑟𝑖 𝑎𝑚𝑎𝑛𝑡𝑖 𝑑𝑖 𝐶𝑎𝑟𝑙...
19/10/2023

🎬𝐂𝐈𝐍𝐄𝐌𝐀 𝐄 𝐏𝐒𝐈𝐊𝐄

✍️𝑹𝒖𝒃𝒓𝒊𝒄𝒂 𝒒𝒖𝒊𝒏𝒅𝒊𝒄𝒊𝒏𝒂𝒍𝒆 𝒂 𝒄𝒖𝒓𝒂 𝒅𝒊 𝑴𝒂𝒓𝒊𝒂 𝑨𝒏𝒕𝒐𝒏𝒊𝒆𝒕𝒕𝒂 𝑪𝒐𝒄𝒄𝒂𝒏𝒂𝒓𝒊 𝒅𝒆' 𝑭𝒐𝒓𝒏𝒂𝒓𝒊

🎥𝐶𝑟𝑜𝑛𝑎𝑐ℎ𝑒 𝑑𝑖 𝑝𝑜𝑣𝑒𝑟𝑖 𝑎𝑚𝑎𝑛𝑡𝑖 𝑑𝑖 𝐶𝑎𝑟𝑙𝑜 𝐿𝑖𝑧𝑧𝑎𝑛𝑖

✨𝗢𝗠𝗔𝗚𝗚𝗜𝗢 𝗔 𝗩𝗔𝗦𝗖𝗢 𝗣𝗥𝗔𝗧𝗢𝗟𝗜𝗡𝗜 𝗡𝗘𝗟 𝗚𝗜𝗢𝗥𝗡𝗢 𝗗𝗘𝗟𝗟’𝗔𝗡𝗡𝗜𝗩𝗘𝗥𝗦𝗔𝗥𝗜𝗢✨
(𝟭𝟵 𝗼𝘁𝘁𝗼𝗯𝗿𝗲 𝟭𝟵𝟭𝟯 – 𝟭𝟮 𝗴𝗲𝗻𝗻𝗮𝗶𝗼 𝟭𝟵𝟵𝟭)

𝐂𝐑𝐎𝐍𝐀𝐂𝐇𝐄 𝐃𝐈 𝐏𝐎𝐕𝐄𝐑𝐈 𝐀𝐌𝐀𝐍𝐓𝐈 (𝟏𝟗𝟓𝟒). 𝐄̀ 𝐢𝐥 𝐭𝐞𝐫𝐳𝐨 𝐥𝐮𝐧𝐠𝐨𝐦𝐞𝐭𝐫𝐚𝐠𝐠𝐢𝐨 𝐝𝐢 𝐂𝐚𝐫𝐥𝐨 𝐋𝐢𝐳𝐳𝐚𝐧𝐢, 𝐭𝐫𝐚𝐭𝐭𝐨 𝐝𝐚𝐥 𝐫𝐨𝐦𝐚𝐧𝐳𝐨 𝐜𝐨𝐧 𝐜𝐮𝐢 𝐕𝐚𝐬𝐜𝐨 𝐏𝐫𝐚𝐭𝐨𝐥𝐢𝐧𝐢 𝐜𝐡𝐢𝐮𝐝𝐞 𝐧𝐞𝐥 𝟏𝟗𝟒𝟔 𝐢𝐥 𝐜𝐢𝐜𝐥𝐨 𝐚𝐮𝐭𝐨𝐛𝐢𝐨𝐠𝐫𝐚𝐟𝐢𝐜𝐨 𝐞𝐬𝐚𝐥𝐭𝐚𝐧𝐝𝐨 𝐪𝐮𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐬𝐮𝐚 𝐏𝐨𝐞𝐭𝐢𝐜𝐚 𝐜𝐡𝐞 𝐚 𝐯𝐨𝐥𝐭𝐞 𝐧𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐩𝐚𝐠𝐢𝐧𝐚 𝐢𝐧𝐭𝐞𝐫𝐫𝐨𝐦𝐩𝐞 𝐢𝐥 𝐫𝐞𝐠𝐢𝐬𝐭𝐫𝐨 𝐦𝐞𝐝𝐢𝐨 𝐞 𝐢𝐧𝐭𝐫𝐨𝐝𝐮𝐜𝐞 𝐭𝐨𝐧𝐢 𝐩𝐢𝐮̀ 𝐚𝐥𝐭𝐢 𝐜𝐡𝐞 𝐜𝐨𝐧𝐟𝐢𝐠𝐮𝐫𝐚𝐧𝐨 𝐢𝐥 𝐬𝐮𝐨 𝐧𝐞𝐨𝐫𝐞𝐚𝐥𝐢𝐬𝐦𝐨 𝐩𝐞𝐜𝐮𝐥𝐢𝐚𝐫𝐞 𝐜𝐨𝐧 𝐥’𝐢𝐧𝐟𝐢𝐥𝐭𝐫𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐞𝐦𝐨𝐭𝐢𝐯𝐚 𝐫𝐨𝐦𝐚𝐧𝐭𝐢𝐜𝐚, 𝐟𝐚𝐦𝐢𝐥𝐢𝐚𝐫𝐞, 𝐚𝐦𝐢𝐜𝐚𝐥𝐞. 𝐈𝐥 𝐟𝐢𝐥𝐦 𝐜𝐨𝐫𝐚𝐥𝐞, 𝐬𝐭𝐨𝐫𝐢𝐞 𝐢𝐧𝐭𝐫𝐞𝐜𝐜𝐢𝐚𝐭𝐞 𝐧𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐩𝐨𝐩𝐨𝐥𝐚𝐫𝐞 𝐟𝐢𝐨𝐫𝐞𝐧𝐭𝐢𝐧𝐚 𝐯𝐢𝐚 𝐝𝐞𝐥 𝐂𝐨𝐫𝐧𝐨, 𝐯𝐢𝐧𝐬𝐞 𝐢𝐥 𝑷𝒓𝒊𝒙 𝑰𝒏𝒕𝒆𝒓𝒏𝒂𝒕𝒊𝒐𝒏𝒂𝒍 𝐚𝐥 𝟕° 𝐅𝐞𝐬𝐭𝐢𝐯𝐚𝐥 𝐝𝐢 𝐂𝐚𝐧𝐧𝐞𝐬 𝐞 𝐝𝐮𝐞 𝐍𝐚𝐬𝐭𝐫𝐢 𝐝’𝐀𝐫𝐠𝐞𝐧𝐭𝐨 𝐩𝐞𝐫 𝐥𝐚 𝐌𝐮𝐬𝐢𝐜𝐚 𝐞 𝐥𝐚 𝐒𝐜𝐞𝐧𝐨𝐠𝐫𝐚𝐟𝐢𝐚.

Negli anni ’20 a Firenze, a via del C***o, dove Pratolini nella realtà abitò alcuni anni, esperienze politiche, fasciste e comuniste, fidanzamenti, sfidanzamenti, tresche e chiacchiere gracchianti ai davanzali procedono tra i gatti “memorabili”, tra tragedie e allegrie dell’umile popolo ferito e la tracotanza del potere, lì rappresentato da Carlino e dalla Signora (Wanda Capodaglio), ricca ex maitresse che conosce tramite la sua protetta orfana Gesuina (Anna Maria Ferrero) sempre in finestra, verità e dicerie della via, mentre il ciabattino Staderini commenta con citazioni dantesche malignità e proverbi come un coro greco, la tragica commedia di una strada che è “un Politeama”. Le tante storie sono dominate da quelle di Ugo (Marcello Mastroianni), Maciste (il campione olimpionico di Lancio del Disco, Adolfo Consolini) e Mario (Gabriele Tinti), per le loro lotte contro le violenze delle camicie nere, dall’albergo della prostituzione con accento sulla bella Elisa (Cosetta Greco), da amori legittimi (Bruno e Clara, Mario e Bianca) a fianco di tradimenti episodici o consolidati, e alla storia centrale di Mario e Milena (Antonella Lualdi), pura fino alla morte del marito (Giuliano Montaldo) per mano dei fascisti.
Il film, a dispetto del titolo, lateralizza questo aspetto e, al contrario di quanto fa Zurlini nel privilegiare le vicende private nelle sue opere tratte dallo scrittore toscano, esalta la parte ideologica, culminando nell’arresto finale di Mario e nella rinnovata coscienza politica di Ugo accanto a Maciste, morto ammazzato sul sagrato di San Lorenzo dove similmente a quanto sarà in Pasolini (per esempio in 𝑀𝑎𝑚𝑚𝑎 𝑅𝑜𝑚𝑎, in 𝐼𝑙 𝑉𝑎𝑛𝑔𝑒𝑙𝑜 𝑠𝑒𝑐𝑜𝑛𝑑𝑜 𝑀𝑎𝑡𝑡𝑒𝑜) l’eroe si mostra come un quadro sacro nella posa simbolica del Cristo in Croce sacrificale.
Il voluminoso romanzo pullula di tali e tanti intrecci che sarebbe stato difficile trasporli in maniera piena in un unico film, Visconti per esempio abbandonò il progetto. Lizzani smussa i passi del libro d’inquietante sensualità, orge e disordini vari, elimina elementi cruciali, come il finale dove appare un ragazzino a raffigurare l’autore in divenire e a segno speranzoso della nascita di un mondo nuovo, o come il triangolo Otello il carbonaio-Aurora-Liliana, protette della Signora-Lucifero che le assoggetta in prigionia di pensiero e in contatti saffici, o come la fine tremenda e grottesca della maitresse. E ne fa un film dignitoso ed equilibrato, approvato da Pratolini, sempre vigile severo sulla rilettura cinematografica dei suoi romanzi.

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