12/09/2024
Tensioni nella Sanità
ecco ciò che rilevavo nel mio doculibro,"Labirinto" in luglio 2026 all'interno dell'ospedale San Giovanni di Roma:
"In generale non mi fanno paura né il caldo né il freddo; tuttavia sapere che Roma, là fuori, è attanagliata da una temperatura prossima ai quaranta gradi e che, dentro, si è insufficientemente equipaggiati e impossibilitati a muoversi per sfuggire alla “magia” del freddo da condizionatore, acuisce in me la sensazione di essere in trappola. Quindi abbandono la stanza per passeggiare avanti e indietro lungo il corridoio, un po’ più vivibile e igienizzato, dal pavimento e dalle pareti di linoleum celeste-ospedale.
Non appena fuori dalla porta, sono investito da urla sovrumane provenienti dalla stanza quattro, antistante alla medicheria. Non posso fare a meno di pensare a spasmi di dolore insopportabile di qualche paziente. Normale amministrazione, penso, anche se in verità urla così nei giorni trascorsi in degenza non mi è mai capitato di sentire. Sono diretto, nel passeggiare, proprio verso quella parte e, avvicinandomi alla fonte, realizzo che le urla appartengono a persone diverse, almeno due. A frasi indecifrabili, lamentose, ma of-fensive nei toni, seguono improperi minacciosi, sicuramente fuori contesto, che non ti aspetteresti di udire.
«Mi hai rotto il c***o! (mi scuso coi lettori ma è testuale) hai capito? È da stanotte che rompi i co****ni! Ora basta! O ti spacco la testa e dall’ospedale giuro che esci steso!»
Mi pizzico la pelle per davvero, penso che da un momento all’altro mi sveglierò dall’ennesimo incubo. Di nuovo la domanda: “Che ci faccio, io, qui?”.
So di non sognare, ma ne voglio essere assolutamente certo: non vorrei si trattasse di un tiro mancino del Minotauro per impedirmi di raggiungere il centro del labirinto dove probabilmente, subdolo, si annida.
Proseguo verso la provenienza delle voci, di fronte alla medicheria, dove si forma un capannello di pazienti inqueti e curiosi indecisi tra l’entrare nella stanza delle urla o tirar via. Nel dubbio rimangono lì tremanti e non solo per la paura. Man mano che mi avvicino, si comprende meglio la dinamica: agli improperi indicibili si aggiunge una più sommessa litania, ma altrettanto minacciosa nelle intenzioni benché, all’apparire, tanto supplicante nei toni quanto indecifrabile nei contenuti.
Credo di udire un «non rivolgerti a me col TU!», un «mannaggia» e un «ammazza».
Al che segue un botto secco, probabilmente di un pugno su un ripiano, che per un attimo sembra far tremare le pareti e sobbalzare all’unisono i pazienti in capannello. Raggiungo la postazione. Mentre devo rispondere al cellulare che squilla, trovo un pertugio tra la folla radunata e insinuo lo sguardo all’interno della camerata.
Dai letti collocati l’uno di fronte all’altro vicino alla finestra, i due pazienti, occupanti e duellanti, si fronteggiano agitando braccia intubate, trafitte con aghi, incerottate e tumefatte.
Quello di destra, disteso e con le sole braccia e il viso al di fuori delle lenzuola, agita entrambe le mani puntando il dito, minacciando e imprecando frasi incomprensibili.
Un vecchio più di là che di qua.
Quello di sinistra è certamente più giovane e vitale, si fa per dire. È seduto con le gambe incrociate e gli occhi, solitamente dilatati, hanno le pupille quasi fuori dalle orbite. L’ho già visto altre volte percorrere il corridoio col fisioterapista per la riabilitazione.
Gonfiando le vene del collo e quasi lanciando fuori le pupille, ripete per l’ennesima volta il suo mantra: «Mi hai rotto il c***o, la devi smettere! Sennò t’ammazzo, quant’è vero Iddio».
Scaglia via con una mano una sedia metallica e con l’altra continua a ba***re ripetutamente ora il pugno ora il palmo della mano sul tavolo in formica di pertinenza del letto.
Lo fa con una tale foga che, se fosse sostenuta da altrettanta energia, ora svanita, il ripiano sicuramente si spezzerebbe. Non si spezza certo, ma il non spezzarsi è per gli astanti ancora peggio, visto il maggior fragore che produce.
Un’energia residua, comunque inspiegabile, quella che esce dal misero corpo maciullato dall’interno, dove un cuore difettoso ne ha fiaccato la potenza.
Se usasse la medesima energia per la riabilitazione, cosa che osservando la dinamica col terapista non appare, probabilmente sarebbe già fuori.
Non mi fermo. Proseguo i passi fino alla finestra alla fine del corridoio e mi soffermo dietro ai vetri per proiettarmi con la mente all’esterno: vi rimango qualche minuto isolandomi dal resto. Ma quando ripasso, costato che il duello si accende ancor più, forse alimentato dal maggior numero di spettatori che via via si ammassano in corridoio.
Minuti interminabili senza il minimo intervento di qualsivoglia preposto all’assistenza, medico o paramedico o, manco a pensarci, personale addetto alla sicurezza. Sembra, in quei minuti, una terra di nessuno; zona franca dove tutto può succedere per un tempo indefinito.
Mi viene spontaneo spostare il focus dal duello alla sala infermieri e, forse per caso, noto finalmente che in due si decidono a intervenire. Si tratta della simpatica ragazzona di colore, quell’Antonella che ha rasato le mie parti intime solleticando improbabili reazioni, e un’altra che diresti dal sorriso professionale privo di ogni sentimento o buona relazione verso il prossimo.
Escono di malavoglia e, già stressate, si dirigono verso l’arena.
Immagino, da vecchio docente, che nei corsi professionali abbiano anche ricevuto suggerimenti su come intervenire in casi critici simili, momenti di straordinaria follia e di inedite risse fra pazienti, forse perfino moribondi. Magari saranno state anche brave ai test.
Ma qui, sul campo, con la follia vera, appaiono smarrite, p***e.
Non riescono a fare di meglio che frapporsi fra i due inferociti contendenti, urlando e minacciando (non si comprende cosa) a loro volta per intimare la fine delle ostilità, senza lasciare intendere di essere interessate all’oggetto del contendere.
Tentativo vano al primo approccio. Anzi, il loro intervento sembra produrre l’effetto contrario. Infatti ciascuno dei due facinorosi, ritenendo di aver ragione, interpreta l’intervento delle “autorità” in suo favore e accresce la potenza di fuoco verbale.
Perfino il lamentoso moribondo ora alza la voce.
Cosa ci faccio, io, qui?
Sogno o son desto?
Mi pizzico ancora e avverto dolore al pizzico. Son desto e son qui!
Intanto all’ingresso fa la sua apparizione l’addetto al catering per il pasto del mezzodì.
Una mai perduta fame, ora ospedaliera, mi riporta alla realtà.
Dunque non mi potrò svegliare altrove.
Non mi curo più della stanza quattro, raggiungo la numero uno, la mia, e con i coinquilini: il russatore, il “sanlorenzino” e l’ultimo arrivato più giovane, operato alle coronarie, commentiamo con gli sguardi e senza parole l’accaduto. Consumo l’ennesimo pasto senza gusto ma per le calorie e le altre proprietà organolettiche studiate, si spera, al sol fine di nutrire e mantenere in vita il corpo.
La mente ha bisogno di ben altro e non vi sono catering o nutrizionisti in grado di scrivere la dieta adatta.