10/06/2023
"Quando decisi di non essere più un ingegnere informatico e di fare lo scrittore a tempo pieno, mi recai a Segrate, alla sede generale della IBM, per comunicare la cosa a chi di dovere. Era il 7 maggio del 1978. Ebbene, lo confesso: in quanto napoletano, e come tale facile alla lacrima, ero piuttosto commosso. Sembravo un liceale che doveva dire addio al suo primo amore.
D’altra parte, capitemi: avevo lavorato in quell’azienda per quasi venti anni, e per quanto mi piacesse il nuovo mestiere, un certo languorino in fondo allo stomaco lo provavo.
Una volta uscito dallo studio del Grande Capo, scesi giù, nell’open space del secondo piano, dai miei ex compagni di lavoro. Entrai e li vidi seduti, tutti e tre, ognuno dietro la propria scrivania, così come li avevo visti il primo giorno che avevo messo piede a Milano. Giorgio, Ernesto e Stefano stavano ancora lì, con le loro scartoffie davanti, i loro diagrammi a blocco e i loro telefoni sempre in funzione. Mi guardavano stupiti per la decisione che avevo preso. Non parlavano, ma era fin troppo chiaro quello che stavano pensando: «Lascia l’IBM per andare a fare lo scrittore! Dev’essere impazzito!»
Probabilmente pensavano che avessi avuto una crisi esistenziale o qualcosa del genere.
Avevo già teso le braccia per stringerli in un abbraccio ideale, diciamo pure collettivo, quando uno di loro mi anticipò dicendo:
«Scusaci, De Crescenzo, ma abbiamo una riunione vendite con il dottor Fiumara.»
Ebbene, credetemi, non ci vidi più dalla rabbia. Ma come? Io vengo a salutarvi... forse è l’ultima volta che ci vediamo... vi tendo le braccia commosso... ho gli occhi ancora lucidi... e voi che fate? Mi dite che dovete andare alla riunione vendite! Che non avete nemmeno un minuto per darmi un addio degno di questo nome! Con tutte le giornate che abbiamo trascorso insieme, lavorando gomito a gomito, sempre a sgobbare, sempre a litigare con qualcuno. Con tutte le nottate che abbiamo passato davanti a un computer per un programma che non ne voleva sapere di girare!
«Avete la riunione vendite?» urlai. «Ed è la riunione vendite quella che vi meritate! Non capirete mai un c***o della vita finché resterete chiusi qui dentro. State in carcere e non lo sapete: ecco qual è la verità! Eppure avete tutti davanti una targhetta su cui sta scritto RIFLETTETE! Ma io, Dio sia lodato, me ne vado. Io scappo. Io vado dove la gente è ancora capace di commuoversi. Tanti saluti al dottor Fiumara e a tutti i dirigenti della IBM. Spero di non incontrarvi più nella vita. Mi spiace solo che ci troviamo in un open space e che non posso sb****re la porta!»
Quando giunsi all’ingresso tremavo ancora per la rabbia. Dovevo ricompormi e dovevo farlo alla svelta, anche perché avevo un appuntamento alla Mondadori con il dottor Caruso, l’editor che aveva curato il mio primo libro, Così parlò Bellavista. Ora si dà il caso che la sede Mondadori, a Segrate, disti quasi un chilometro da quella IBM.
«Che faccio?» mi chiesi. «Faccio ve**re un taxi da Linate solo per fare un chilometro? Nossignore, vado a piedi, così mi calmo.»
D’accordo che avevo una valigia, ma non era molto pesante, e poi un chilometro a piedi non è chissà che cosa. Mi avviai per la strada provinciale. A destra e a sinistra c’era solo campagna. Spirava un venticello allegro, diciamo pure sostenuto. Fossi stato a Napoli ne avrei indovinato anche la provenienza. Da come era caldo si sarebbe detto un libeccio. Certo è che dopo cento metri stavo in un bagno di sudore e avevo tutti i capelli scompaginati dal vento.
«Questo è un messaggio del destino!» mi dissi, compiaciuto. «Sono diventato artista e un artista non può essere pettinato, deve avere i capelli al vento. Anzi, già che ci sono, mi tolgo anche la cravatta e mi slaccio il collo della camicia. Non me lo immagino Dostoevskij in giacca e cravatta!»
Poi, per completare la metamorfosi, mi misi anche a cantare Vide ‘o mare quanto è bello, spira tantu sentimento. Forse, tenuto conto che lì, a Segrate, il mare non c’era, sarebbe stata più adatta una canzone sul genere di Vento, vento, portami via con te.
Purtroppo, però, non ne conoscevo le parole, e avevo anche paura di stonare.
Incrociai un uomo e lo salutai con un largo sorriso. Lui mi guardò stupito. A Milano è proibito salutare gli sconosciuti per strada, soprattutto se ci si trova su una strada periferica. Io, però, non avevo la cravatta e me lo potevo permettere.
Insomma mi stavo lentamente trasformando da bruco in farfalla. In me non c’era più traccia dell’ingegnere informatico che fino a pochi minuti prima era tutto calcoli e previsioni. Grazie a Dio, mi ero liberato dall’obbligo di dover rassomigliare ai dirigenti della società. In IBM, se si vuole fare carriera, bisogna essere alti, snelli, sorridenti e sempre in tiro. E a questo proposito, non so se ve ne siete accorti, ma anche in Fininvest, oggi, capita la stessa cosa: quasi tutti cercano di rassomigliare, magari inconsciamente, al Cavaliere: vestono come Lui, parlano come Lui, si muovono come Lui, fanno lo jogging come Lui, ovviamente vestiti di bianco. Tendono al successo attraverso la mimetizzazione, laddove il Disordine pretenderebbe, come minimo, la libertà di abbigliamento. Io oggi, in quanto uomo libero, se ho voglia di scrivere, scrivo, se ho voglia di leggere, leggo, e se non ho voglia né di scrivere né di leggere non faccio niente. In altre parole sono l’assoluto dominatore di me stesso: rido e piango quando mi pare.
Immerso in questi pensieri, giunsi alla Mondadori con una mezzoretta di ritardo.
Trovai giù, alla reception, la segretaria del dottor Caruso che mi stava aspettando.
«Presto, ingegnere,» mi disse «è atteso al quarto piano. Oggi c’è la riunione vendite.»
Era tutto uguale: anche lì l’Ordine imponeva le sue leggi draconiane, e non poteva essere diversamente."
da "Ordine e Disordine", di Luciano De Crescenzo
Foto: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Decrescenzo3.jpg