Effigie edizioni

Effigie edizioni casa editrice fondata nel 2004 Uno dei motivi unificanti è il dialogo tra i linguaggi, in particolare tra la fotografia e la scrittura saggistica e creativa.

Dal 2004 Effigie è in libreria con collane dedicate alla poesia e alla narrativa italiana e straniera, al reportage, alla storia, al viaggio e all’educazione. Le narrazioni e le poesie di Stellefilanti puntano sull’alta qualità di testi e traduzioni (e, per i saggi, sul valore aggiunto letterario). La collana è suddivisa in serie: in Taccuino di viaggio pubblicheremo rendiconti di affermati scritt

ori italiani e stranieri su temi e luoghi del nostro tempo; Le cento città offre sguardi monografici inediti sul nostro vivere quotidiano. Saggi e documenti offre approfondimenti monografici curati da studiosi sia di area umanistica che scientifica. Libri pungenti nei contenuti, esaustivi negli apparati e ben scritti, che attraversano un tema, una biografia, un’epoca, combinando in modo sempre diverso il rigore della ricerca, la passione dell’investigazione biografica e civile, il montaggio dei frammenti e molte altre modalità di interazione con la documentazione di volta in volta scritta, orale, iconografica. In Visioni pubblichiamo biografie per immagini di autori contemporanei e monografie tematiche riccamente illustrate. Infine Il primo amore, il nostro fiore all’occhiello: è una rivista quadrimestrale nella quale la letteratura invade senza reticenze la politica e la fotografia si fa racconto: un ripensamento radicale delle strutture mentali, di fronte all’emergenza di specie e ad una umanità che pare sempre più narcotizzata.

PAGANELLI OGGI A FAHRENEITAppuntamento da non perdere oggi a Fahreneit (Radio 3 Rai, ore 17.30). “Libro del giorno” è in...
23/10/2024

PAGANELLI OGGI A FAHRENEIT

Appuntamento da non perdere oggi a Fahreneit (Radio 3 Rai, ore 17.30). “Libro del giorno” è infatti “Un misterioso disordine” del compianto pistoiese Gianluigi Paganelli: trentacinque racconti colti e visionari – inediti, come è sostanzialmente inedito il loro autore – sospesi tra avanguardia e tradizione; una scheggia di quel Novecento che ci siamo persi per strada, ora in libreria per Effigie.

UNO SCRITTORE SOSPESO TRA AVANGUARDIA E TRADIZIONE Bella, bellissima questa recensione di Massimo Onofri sull'edizione o...
12/10/2024

UNO SCRITTORE SOSPESO TRA AVANGUARDIA E TRADIZIONE

Bella, bellissima questa recensione di Massimo Onofri sull'edizione odierna di “Avve**re” a “Un misterioso disordine” di Gianluigi Paganelli (Effigie, 2024). Onofri rimarca «l'anomalia doppia di una scrittura divaricata tra avanguardia e tradizione (nobilmente toscana), vocazione al racconto e passione per la metafora ardua» entro una esperienza di scrittura «eticamente molto seria, radicale»: anomala essa stessa, «e non ingaggiata in alcun partito letterario».

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Paganelli, una doppia vocazione: racconto e metafora
Non si sa da dove cominciare per provare a tracciare il ritratto dl Gianluigi Paganelli, lo scrittore nato a Pistoia nel 1935, stimato da Giuseppe Ungaretti, Piero Bigongiari, Mario Luzi, Giorgio La Pira, e lì morto sei anni fa, quando ci si confronta con l'anomalia doppia d'una scrittura divaricata tra avanguardia e tradizione (nobilmente toscana), vocazione al racconto e passione per la metafora ardua. Del resto, come recita il titolo del libro datato 2012, che raccoglie 35 suoi racconti appena pubblicati dall'editore Effigie, la sua vicenda ci si affida come Un misterioso disordine (pagine 216, curo 24,00) per la cura di Massimo Baldi, che scrive anche una veloce postfazione (La narrazione come liberazione), e Claudio Frosini. Ma sentite qua. Si tratta dell'incipit di L'uomo sul carro. «Venne trovato morto piegato in due, nella rigida postura del pupazzo, non più tenuto su dai fili. La posizione del corpo magro, ritagliato per terra ad angolo retto, faceva di lui un ca****re a novanta gradi». Come scrive di sé nella Nota introduttiva, lo scrittore è in effetti lontanissimo da ogni «teoria contenutistica» della letteratura, dall'idea che, in un libro di narrativa, la «forma» («l'ordine e l'energia della scrittura») – per lui tutto – debba «farsi ancella della filosofia».
Ma attenzione a non farne un fanatico del formalismo, se non addirittura un calligrafo per eccesso di sperimentalismo. Quella della scrittura è per Paganelli un'esperienza eticamente molto seria, radicale: «Racconto per racconto si evince, semmai, una possibilità conveniente alla natura delle cose e dell'uomo in generale». E poi: «Si dà per scontato che l'interno di tale "natura" abiti il dolore, la contraddizione e infine la morte. Tutto il libro è pieno di morte, è pingue di morte». Ogni personaggio di questi racconti, infatti, «incontra una morte particolare e particolarmente cruda, anche. Sempre diversa e sempre dura». È, proprio in un senso heideggeriano, un essere per la morte. Un tale risentimento metafisico, sostenuto da una scrittura altrettanto anomala e non ingaggiata in alcun partito letterario, non si registrava nella nostra narrativa dal 1963, quando Romano Bilenchi e Mario Luzi (ancora lui: prefatore, per altro, del Paganelli poeta) pubblicarono per Lerici i racconti di Un caso di coscienza di Angelo Fiore. L'aria è anche un po' kafkiana (magari filtrata da cena bizzarria alla Rodolfo Wilcock): come in aenigmate, nell'ultimo racconto Intervista, pare suggerirci la metamorfosi in ragno del brillante entomologo in presenza d'un terrorizzato testimone: «L'elegante giornalista si trovò nella augusta presenza di un aracnide gigantesco, dall'addome morbido che respirava lento e dal dorso che ne garantiva la maestà e la bellezza». Scopro che su questo punto il pistoiese Roberto Carifi la pensa come me.
Ha ragione Massimo Baldi quando punta a valorizzare il dato preminentemente musicale, prosodico, della scrittura di Paganelli, mentre ne evidenzia il commercio, davvero prodigioso, con le verità dell'esistenza. E scrive: «In Gianluigi Paganelli la vita e la scrittura sono tenute a una distanza sottilissima e per questo densa di tensione. La mimesi scrittoria non è mai finzione sganciata dagli appigli della vita». In quanto tale, la sua scrittura è «un fenomeno terrestre che non essendo vita e non fingendo la vita, non ha che una strada: l'inseguire la vita», ma, «in questo inseguimento», «ha bisogno di giochi. E di imparare a giocarli. Tutti». Il ritmo della sua sintassi insomma «è il moderno, lo è peraltro senza contorsioni stilistiche, senza costrizioni». Ecco: «È avanguardia senza tributi stilistici, filosofici o ideologici alle avanguardie». Finita la lettura del libro ci siamo fatti quest'idea di Paganelli: che, come il saggista del primo racconto (La mosca), gli sarebbe piaciuto starsene beato a leggere Rilke per tutti i suoi giorni e altro non fare: se non fosse stato per quell'insetto molesto – la vita fuori della stanza – venuto a disturbarlo con insistita insolenza, fino a farlo andare su tutte le furie, coi risultati che il lettore vedrà. Già, le mosche, molte delle quali giacciono «defunte ai solenni piedi dei volumi, rattrappite sotto i chiusi tomi»: «Se ne potrebbe concludere che le mosche non curano seriamente la morte, ma risulterà più semplice supporre che esse si sappiano confondere con le indolenti reti di un vuoto non piagato, non tumefatto, quale invece appare al bipede evolutivo e pensante, persuaso di essere protagonista assoluto sul triste teatro del mondo». E così sia.

CON NEESKENS NEL CUOREIl calcio mi ha aiutato a crescere, a darmi una disciplina e a sciogliere le tensioni in eccesso. ...
08/10/2024

CON NEESKENS NEL CUORE

Il calcio mi ha aiutato a crescere, a darmi una disciplina e a sciogliere le tensioni in eccesso. L'ho praticato in forma agonistica negli Aquilotti, la seconda squadra di Pavia, ma solo a livello giovanile. Ero l'ala sinistra della squadra allievi (vincemmo il campionato provinciale) e ogni tanto mi aggregavano ai più grandi, la squadra juniores. Così, per quanto scarso e fisicamente mingherlino (alto, magro, un buon sinistro e nulla più), ho giocato una decina di partite nel più prestigioso campionato regionale contro i coetanei di Milan, Brescia, Atalanta, Fanfulla... Come dimenticare quell'Atalanta-Aquilotti 1 a 2 una mattina a Bergamo, reti di Di Santi e Giovannetti. Ma altrettanto indimenticabile fu, nel 1972, in un caldo pomeriggio ad Amsterdam, palleggiare con Cruijff, Rep (nella foto grande a sinistra), Neeskens, Haan, Suurbier, indimenticabili campioni del calcio di allora. Ero in giro per l'Europa con l'amico Tiziano detto Ticio, un operaio della Moncalvi di Pavia: arrivammo a Londra con l'aereo e da lì, in autostop, in Olanda. Ad Amsterdam, solo e squattrinato (Ticio era intanto tornato al lavoro) bivaccavo in piazza Dam, mangiavo non più di una volta al giorno e dormivo in una sleeping house, un dormitorio pubblico. Un pomeriggio presi il bus e andai al vecchio stadio dell'Ajax, l'arena dei campioni europei di calcio di quel tempo, i missionari del “calcio totale”. Sai che emozione nel vedere che in un campetto contiguo era in corso una seduta di allenamento della squadra e che, senza alcuna formalità o barriera, si poteva sedere a bordo campo, a due passi da Johan Cruijff, il miglior giocatore d'Europa. Oggi sarebbe inimmaginabile. La seduta si concluse con una partitella defatigante giocata sopra un'ampia aiuola tra il campo e lo stadio. Stavo con altri seduto sull'erba a guardare. Ogni tanto il pallone arrivava dalle mie parti e, calciando di prima, lo rendevo. I campioni d'Europa, cortesi, ringraziavano. Di ieri è la notizia che Neeskens se ne è andato. Ciao campione. (G. G.)

OCCIDENTE CONTRO RESTO DEL MONDO Il 27 ottobre 2023, il plenum delle Nazioni unite approva una risoluzione, non vincolan...
07/10/2024

OCCIDENTE CONTRO RESTO DEL MONDO

Il 27 ottobre 2023, il plenum delle Nazioni unite approva una risoluzione, non vincolante, chiedendo un cessate il fuoco immediato a Gaza. Sono 120 i sì, 14 i voti contrari e 45 gli astenuti. A favore si schierano molti paesi del Sud Globale, incluso l’intero mondo arabo e gran parte dell’Africa. Contrari, invece, Israele, Stati Uniti e alcuni alleati occidentali. Gran parte dell’UE, Italia compresa, si astiene, riflettendo divisioni interne sul conflitto. La mappa del voto è in gran parte sovrapponibile con quella dei paesi che due anni prima avevano condannato (o meno) l’invasione russa dell’Ucraina o imposto sanzioni a Mosca. Tuttavia non mancano le eccezioni, come ad esempio l’India, che non ha condannato la Russia e dopo il 7 ottobre si è schierata immediatamente a favore di Israele, per via di legami economici e strategici crescenti e per una convergenza tra i due paesi sul contrasto al terrorismo di matrice islamica. Al netto di questo, tuttavia, uno scenario da West vs The Rest (Occidente contro il resto del mondo) è sempre più evidente (Ispi).

A UN PASSO DAL BARATROL'altro ieri al Parlamento europeo è passata la risoluzione che consentirebbe all'Ucraina di usare...
30/09/2024

A UN PASSO DAL BARATRO

L'altro ieri al Parlamento europeo è passata la risoluzione che consentirebbe all'Ucraina di usare le armi europee – e dunque italiane – in territorio russo (a favore Partito democratico, Forza Italia e Fratelli d'Italia; contro Lega, Cinquestelle e Verdi e Sinistra): un altro passo verso il baratro di una guerra nucleare nel bel mezzo dell'Europa.
Uno di loro, brandendo i princìpi fondanti dell'unità europea, quelli volti a favorire una pace durevole, ha voluto ricordare al vice-presidente della Commissione europea Valdis Dombrovskis che «quella stessa pace, oggi, sembra sgretolarsi di fronte ai nostri occhi. Là signor Dombrovskis, in quella direzione a est, circa 2.400 km da questo parlamento, lei ci promette una guerra ad oltranza, per cercare una vittoria che ben si è ben guardato dal definire. E visto che la vittoria non arriva, fa delle pressioni continue sugli stati come l‘Italia, che ha deciso giustamente di cedere le proprie armi per garantire la legittima difesa ad uno stato aggredito, ma che non vuole che queste stesse armi si trasformino in un strumento che ci potrebbe portare al baratro della distruzione termo-nucleare. E allora cosa fa l’alto rappresentate Borell, prende un aereo e vola in Medioriente, chiedendo un cessate il fuoco immediato tra Israele e Gaza: da una parte chiede la pace senza condizioni, dall’altra ci promette guerra, missili, granate e droni. E critica e condanna il Presidente Orban, unico rappresentante europeo che cerca una soluzione negoziale di questo conflitto, ma poi in questi giorni plaude al cancelliere Scholz, che giustamente vuole che la Russia partecipi alla prossima conferenza di pace. È l’ora di finirla signor Dombrovskis con questa politica di due pesi e due misure. Anche perché questi due anni e mezzo di guerra non hanno portato ad alcun risultato tangibile, ma pesano in maniera terrificante sulle spalle dell’Ucraina e creano delle nefande conseguenze economiche e sociali che tutti i cittadini europei sono tenuti a pagare. Tacciano i cannoni, signor Dombrovskis, in Medioriente come in Ucraina e facciamo lavorare chi vuole veramente la pace. E chi vuole salvare l’Unione Europea e i valori su cui si fonda, che lei, probabilmente, e il commissario Borrell hanno dimenticato».
Sono forse parole dell'europarlamentare superpacifista Cecilia Strada? No, lei si è astenuta (!!!); o forse le ha dette quell'altro, l'ex direttore di “Avve**re” Marco Tarquinio? fedele alla linea, si è astenuto anche lui! No, questo monito di «radicale chiarezza» è del generale Roberto Vannacci. Eh, ma come ci ricorda Danela Ranieri sul “Fatto quotidiano” Vannacci non è solo razzista, sovranista e omofobo; è anche “putiniano” «mentre gli altri, gli atlantisti pro-guerra, non possono essere detti guerrafondai e servi degli Usa, perché sono buoni a prescindere».

UN AUTORE MISTERIOSO E RITROVATOSu “la Lettura” di questa settimana (è l'allegato “cult” del “Corriere della Sera”) legg...
23/09/2024

UN AUTORE MISTERIOSO E RITROVATO

Su “la Lettura” di questa settimana (è l'allegato “cult” del “Corriere della Sera”) leggiamo questa splendida, a tratti toccante, recensione di Stefano Innocenti a “Un misterioso disordine” di Gianluigi Paganelli, ora in libreria. «Leggere questi racconti», scrive Innocenti, porta a «scoprire un autore che ha sommerso, prima per pudore e poi per la sua morte naturale – la sua scrittura per anni. Significa anche abbandonarsi a un movimento che lascia il lettore in uno stato di stupore e bellezza di cose minute e minime. Dentro una realtà che esiste e non esiste. Allo stesso tempo». L'editore ringrazia.

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Quante volte si può morire in una vita? E al giorno? E in una stagione? Sono le domande che suscitano i 35 racconti pubblicati sotto il titolo Un misterioso disordine (Effigie editori), la raccolta di testi di Gianluigi Paganelli (1935-2018), uomo novecentesco consapevole della tradizione, uomo dalla vita irregolare e dai tratti misteriosi.
Ogni racconto gira attorno a un tema preciso: la fine o il fine di una vita che può dipanarsi tra «gli arcolai, che sono i custodi del tempo» o tra campi di girasole in un «agitarsi di filamenti tenui, come ragnatele, sì, ma scompaginate, dissolte nelle loro mappe». Il risultato rimane identico: a ogni fine racconto – che può, e magari deve, essere letto ad alta voce – la sonorità della parola è un gheriglio in «un mezzogiorno furioso, una luce roventissima che arda in una notte scozzese, Nel centro vdella notte». Così – come si legge ne L'uomo sul carro – «se fosse vero che l'orologio misura il ritmo di un mistero», la metrica temporale di questo scrittore scivola in attimi di «una spietata pace in cielo, uno di quei secchi sereni agostani cui non è possibile confidare nessuna speranza e perfino nessun dolore». Perché, come si legge invece in Non c'è più tempo, «il tempo che si estingue non realizza l'estinzione di un tempo. Se ne va nell'atlantico di una immensità molle e lenta, o puramente se ne va, ma senza quando».
Questi racconti sono un vortice di situazioni che hanno come baricentro «la caparbia industria dell'illusione che poi era, tutto sommato, l'oligarca della sua vita». Personaggi sulla cartapesta esistenziale, che improvvisamente vengono slabbrati dalla narrazione e nella narrazione: questo vale, come si legge in Marco, per un ubriaco che viene azzannato a morte da un cane in mezzo alla strada e non si sa se sia solo un incubo oppure sia reale perché «accade, come tutto accade e cade»; questo vale per un uomo che cammina in strada e non riesce a tornare a casa perché le mura della cittadina si allungano per magia e ne mutano le vie; questo accade per un traduttore apparentemente ucciso da una mosca ma che in realtà si suicida; questo accade per uno stupro maschile.
È tutto un gioco di realtà e di irrealtà: è tenendo conto di questa latitudine artistica che in queste pagine si possono trovare tracce di temi altrove trattati da autori come Julio Cortázar, Antonio Delfini, Franz Kafka, Edgar Allan Poe, Italo Svevo, Fernando Pessoa, Giuseppe Berto, Antonio Pçizzuto, Silvio D'Arzo, Tommaso Landolfi, Antonin Artaud, Eschilo, Sofocle. Il conglomerato artistico di Paganelli procede in questo territorio e lo arricchisce di una cultura impressionante: egli conosce il patrimonio dei Latini, la Bibbia, le religioni tutte, il teatro nella sua interezza, la pittura nelle sue campiture intime e strazianti, la tristezza di un cielo dicembrino.
E non può esserci «solennità nel pianto, c'è tutta la creta secca della sconfitta, c'è il tiepido orrore dell'ultima resa», come si legge in Lungo le mura. Per uno scrittore che è un iniziato scampato ai secoli – come l'ha efficacemente definito Claudio Frosini, pittore pistoiese che con l'associazione Nomos detiene l'archivio Gianluigi Paganelli – il senso della parola non sta però nel paganesimo ma, per paradosso, in una religiosità che si fa mistero «nella divina indifferenza delle cose». I piani di lettura di qualsiasi racconto si moltiplicano così all'inverosimile, autenticando – anche questo per paradosso – miracoli intimi e quasi indicibili. È il caso di Isachar, uno dei racconti più strazianti. È la storia di una donna che cerca Isachar, il suo amore che, lo si capirà a fine lettura, è morto. Ma non per lei che lo ripete eternamente, riportandolo alla vita, in un crepuscolo che si intrufola dentro la loro casa perché «forse qualunque casa sulla terra è infinita, e qualunque oggetto all'interno della casa è infinito come la casa, come le penombre e le ombre».
Paganelli, come i grandi scrittori, guarda alla vita come fosse mistero e meccanica, magia e cinismo. E lo fa con uno sguardo che tutto tiene. A dispetto di quanto si possa pensare, la narrazione procede, nella quasi totalità dei racconti, per storie violente. Ci sono suicidi immaginari, ci sono uomini che si trasformano in ragni, messi postali di territori diversi che impongono all'altro le loro regole ferree, ci sono morti che non sono morti. Ed è abbastanza chiaro che Paganelli conduca la sua penna – verrebbe voglia di dire la sua v***a da rabdomante – nel mistero della tragedia greca.
La grande forza di questi racconti sta nella forma usata da Paganelli per raccontare le sue storie. Il suo periodare, di assoluta efficacia, possiede un ritmo quasi ancestrale, antico. La stessa sonorità dei vocaboli è una specie di suono che mette a regime una metrica da compiere. O che appare già compiuta. Così se «tutta la storia umana è una storia di accusa», come si legge ne L'intervista, allora quello che resta in tutto quest'universo autoriale, è masticare la realtà e «quello che accadde – e che apparirà incerto fra l'accadere e il non accadere (come sempre quando la vita mostra la propria snella figura di squalo)», scrive Paganelli che ha avuto contatti costanti con Giuseppe Ungaretti e Guido Ceronetti.
Leggere questi racconti – per nulla facili, sia chiaro – è scoprire un autore che ha sommerso, prima per pudore e poi per la sua morte naturale – la sua scrittura per anni. Significa anche abbandonarsi a un movimento che lascia il lettore in uno stato di stupore e bellezza di cose minute e minime. Dentro una realtà che esiste e non esiste. Allo stesso tempo.

Stefano Innocenti (“la Lettura”, 22 settembre 2024)

CORREVA L'ANNO...Con Allen Ginsberg e Nanda Pivano nella casa milanese di Luca Formenton. Questa foto la davo per persa,...
19/08/2024

CORREVA L'ANNO...

Con Allen Ginsberg e Nanda Pivano nella casa milanese di Luca Formenton. Questa foto la davo per persa, invece eccola qua.

UCRAINA VS GAZA: UN PARAGONE IMPROPRIO?L’amministrazione Biden, più volte criticata per il suo sostegno a Netanyahu ma f...
11/07/2024

UCRAINA VS GAZA: UN PARAGONE IMPROPRIO?

L’amministrazione Biden, più volte criticata per il suo sostegno a Netanyahu ma finora refrattaria a ogni cambiamento di rotta, ha più volte affermato che i paragoni tra Gaza e Ucraina sono “tutt’altro che corretti”, e potrebbe avere ragione. In meno di dieci mesi, i bombardamenti israeliani hanno prodotto nella Striscia circa 37 milioni di tonnellate di macerie, ovvero 300 chilogrammi per metro quadrato. Il territorio, un’enclave sotto embargo dal 2007 tra le aree più densamente popolate al mondo, è stato raso al suolo al punto che la ricostruzione, quando inizierà, richiederà decenni. La maggior parte degli abitanti, pari all’85% della popolazione, è sfollata, costretta ad abbandonare le proprie case e l’interruzione della distribuzione di aiuti ha causato secondo gli esperti delle Nazioni Unite, una vera e propria carestia. Nulla di smile è riscontrabile in Ucraina anche se è vero che sia in Ucraina che a Gaza sono in atto due guerre disastrose, con massacri di civili e un livello di distruzione tale da perpetuarsi anche dopo la conclusione delle attività belliche. Inoltre, se finora le autorità locali e le Nazioni Unite stimavano che la guerra a Gaza avesse ucciso circa 40mila persone, The Lancet, autorevole rivista medica britannica, denuncia che “un bilancio ragionevole” delle vittime palestinesi – inclusi i dispersi tra le rovine e le morti indirette dovute a malnutrizione, malattie e altre condizioni causate dal conflitto – potrebbe ammontare a circa 186.000 persone, pari all’8% della popolazione.

(Fonte: Ispi)

È GIUNTA LA GIUNTACaro Michele Lissia, cara Alice Moggi, alle Amministrative speranzoso ho votato per voi e in particola...
25/06/2024

È GIUNTA LA GIUNTA

Caro Michele Lissia, cara Alice Moggi, alle Amministrative speranzoso ho votato per voi e in particolare per te, cara Alice.
Che dire del nuovo esecutivo: forse non è il migliore possibile, ma è di certo il migliore da trent'anni a questa parte. E non è poco. Sempre sperando che i singoli assessori sappiano fare squadra e rispondere non a parole ma con pensieri e opere ai cittadini, disdegnando le sirene di questo o a quel “potere forte”, come invece è successo tante, troppe volte nel recente passato. E provando sin da ora a elaborare un progetto visionario di città.
Tempo fa sul “Ticino” mi ero dato a offrire spunti, a fare come la cicala di Rodari, che il suo bel canto non vende, lo regala. E dunque quegli spunto provo a riproporli. Sia mai che...

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Lettera aperta a una classe dirigente che a Pavia non c’è
di Giovanni Giovannetti

Con questo mio intervento, il settimanale della Diocesi pavese “il Ticino” inaugura un dibattito sulla via da intraprendere per risollevare Pavia dal coma profondo – politico, economico, spirituale – in cui attualmente versa. Capitale di regno al tempo dei Longobardi e poi capitale culturale del Ducato di Milano, dopo la chiusura delle sue importanti fabbriche (e il conseguente crepuscolo del manifatturiero) a Pavia primeggiano le economie parassitarie, nel cono d’ombra della sua storica Università: una città-dormitorio che manca di interrogarsi su un possibile futuro a vantaggio di tutti e non di pochi.
Cari pubblici amministratori del recente passato, di ora e del futuro; cari imprenditori locali, dirigenti di Fondazioni bancarie e mondo accademico, a Pavia stiamo rinunciando a valorizzare le nostre migliori potenzialità economiche e culturali, viste come fonte di occupazione. Abbandonata ogni aspirazione industriale o comunque produttiva, messa in naftalina la “Città dei congressi”, mai decollata la “Città dei saperi”, nuovamente si sono abbattuti i segni del passato industriale come la parte monumentale della Snia e il cosiddetto “Lingottino” della Necchi e avanza l’anonima rete commerciale di stoccaggio e vendita delle merci, a soffocare i negozi di vicinato e a costellare di future “aree dismesse” la pianura irrigua pavese. Il modello sta mostrando da tempo i suoi limiti.
Soffermiamoci allora su due parole “amiche”: «progetto» e «visioni». Pavia non può fare a meno del proprio rilancio, a partire dal censimento delle cose che già si fanno – un patrimonio da valorizzare – e delle idee sul da farsi. Al dunque, facciamo qualche esempio e alcune proposte.
Visitatori tutto l’anno
Manca tuttora una visione strategica d’insieme, quel progetto di città, alternativo all’attuale città-dormitorio, capace di coniugare la futuribile Città dei congressi con quella, egualmente a ve**re, dei Saperi e dei Sapori. Senza questa cornice ogni iniziativa, per quanto benemerita, è destinata a rimanere fine a sé stessa.
Pavia è luogo di transito, prima o dopo la visita al Monumento della Certosa. Un turismo “mordi e fuggi” che fa perno su Milano. Una tendenza da invertire, promuovendo la città e le sue peculiarità monumentali e gastronomiche come centro di un “sistema” che ramifica e fruttifica a sud nell’Oltrepo, a ovest in Lomellina, a nord alla Certosa e a est fino a Cremona, con una promozione coordinata degli eventi. Lo scopo non è fare un po’ di animazione culturale a uso e consumo dei locali come, ad esempio, lo era il Festival dei Saperi. Non guasta un po’ d’animazione, ma altra cosa è il marketing territoriale, altra cosa è portare visitatori a Pavia tutto l’anno e dare visibilità al territorio, puntando sulla città “sapiente” di Agostino, di Boezio, di Liutprando, di Petrarca, di Opicino, di Leonardo, di Cardano e tanti altri: Volta, Foscolo, Golgi, Milani, don Angelini…
La storia millenaria, le chiese romaniche, il parco fluviale, la campagna irrigua, le cascine storiche, le aree protette… Pavia offre molto, ma pochi ne sono al corrente.
Città dei Congressi
Pavia dovrebbe anzitutto dotarsi di un capace Centro congressi, senza il quale non si va da nessuna parte, e di conseguenza aumentare la ricezione alberghiera (in città come Mantova è dieci volte più alta): immaginate decine di migliaia di congressisti e accompagnatori che al loro ritorno si trasformano in gratuiti testimonial per Pavia e il suo territorio. Un Centro congressi era annunciato all’area Neca: lo hanno tolto, per fare spazio ad altra inutile edilizia commerciale e residenziale vista-ferrovia, più funzionale a una città-dormitorio per pendolari che alla “città dei saperi”.
Fingendo che l’urgenza di un Centro congressi torni d’attualità, a quel punto la futuribile Città dei saperi dovrebbe farsi ancora più attraente, migliorando l’offerta ricreativa d’intervento culturale, così da trattenere tra cotti e ciottolato i visitatori ora solo di passaggio. Come?
Penso una diversa gestione del complesso monumentale della Certosa (è proprietà del demanio), il più importante della Lombardia, provvedendo al suo restauro e ripristinando il biglietto d’ingresso, ridefinendolo altresì a luogo di raccoglimento spirituale.
Penso al grandioso parco tra il Castello visconteo e la sua Certosa, teatro della storica battaglia di Pavia che, nel 1525, vide fronteggiarsi il re di Francia Francesco I e quello spagnolo Carlo V d’Asburgo (a proposito: nel 2025 saranno cinquecento anni…). Penso dunque al parco “della battaglia” e a un museo multimediale da ospitare in Castello oppure, perché no, nell’antico maniero di Mirabello, oggi semi-abbandonato.
Penso a un percorso che colleghi fra loro i tanti luoghi cittadini v***ati da Leonardo da Vinci nelle sue carte e nei suoi quaderni.
Ecco, Leonardo: penso a un museo interattivo dell’acqua, della navigazione fluviale e della civiltà industriale, al Castello o all’Idroscalo e collegato al parco del Naviglio, ovvero a un’opera di ingegneria idraulica che ha fatto scuola nel mondo: un potenziale museo a cielo aperto tra il pavese Borgo Calvenzano e la Certosa, con la possibilità di viaggiare in “nave” da Pavia al Monumento, tra conche e natura.
Penso a un Museo dell’arte contemporanea in una struttura polivalente (foss’anche in cima a un parcheggio multipiano in qualche area dismessa) insieme a cinema, caffè, librerie e altro ancora, così come se ne vedono in Germania, in Svizzera e in Austria (a volte basterebbe saper copiare!). Uno spazio per iniziative non effimere, che aspirino alla documentazione e alla conservazione.
Penso a investimenti mirati e programmati nel tempo a favore del depresso sistema museale pavese (Pinacoteca e Museo del Risorgimento), aiutando i privati a promuoverne di nuove. Il “percorso risorgimentale” porta a pensare inevitabilmente a Villa Cairoli di Gropello: si inauguri allora un itinerario storico: Villa Cairoli e il Museo pavese, ma anche Palestro e Montebello (e la Stradella di Depretis).
Penso alle tante, tantissime cose possibili, ma lo spazio di questa pagina è quello che è, mi sono dilungato anche troppo e dunque mi avvio a concludere.

Ora et labora
Quanto al turismo religioso (Pavia possiede un complesso di chiese romaniche fra i maggiori al mondo), ricorderemo che Pavia è tappa della via Francigena, che da Canterbury portava e porta a Roma i pellegrini, quella via da percorrere prevalentemente a piedi per ragioni penitenziali e devozionali (l’hospitale presso la chiesa di Santa Maria in Betlem, in Borgo Ticino, era una tappa di quel viaggio). Senza dimenticare riti pagani come il “Bruciamento del diavolo” a Vigevano per carnevale, o di tradizione cattolica come il “Crocione” di Tromello e i “fuochi” di Zavattarello e Romagnese: questi ultimi sono tra le più arcaiche e poco note celebrazioni della Settimana santa pasquale; nulla da invidiare alle processioni del nostro Meridione. Per tacere di santuari come quello delle Bozzole di Garlasco o l’eremo di Sant’Alberto di Butrio nell’Oltrepo montano.
Quanto ad aree post-industriali come la Snia e l’Arsenale – limitrofe al centro storico – dovrà prevalere l’interesse pubblico, ad uso di poli scolastici e luoghi per attività produttive avanzate e la sera ricreative: cittadelle della cultura e della socializzazione sul modello di quanto già si vede in altre città europee.
Cari pubblici amministratori, sono suggerimenti che renderebbero la città più simile a Strasburgo e differente da Platì o Buccinasco, idee che vorrebbero rendere piacevole la permanenza a Pavia, con evidenti benefìci per l’economia locale, senza dimenticare che eleverebbe la qualità della vita per tutti.
Servono strumenti che già abbiamo. E poiché sognare non costa niente sogniamo pure amministratori capaci – e non rapaci – e una politica più visionaria e meno pasticciona; in una parola, lungimirante. E davvero “trasparente”.

PEDALA, PEDALASul "Domani" ancora in edicola, questo mio articolo su Pasolini e il Giro d'Italia.*  *  *«Sotto i cartell...
25/05/2024

PEDALA, PEDALA

Sul "Domani" ancora in edicola, questo mio articolo su Pasolini e il Giro d'Italia.

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«Sotto i cartelloni del cinema / si discorreva del Giro d’Italia ergendo / le voci nella notte verde di nascenza»; sono alcuni pasoliniani versi tratti da Appendici a “L'italiano è ladro”. Sin da ragazzetto lo scrittore seguiva tappa dopo tappa il Giro d'Italia, leggendo «quella specie di romanzo a puntate con personaggi tutti diversi» narrato da Ugo Ojetti nelle sue cronache sportive sul “Corriere della Sera”.
Pasolini gioca al pallone e pratica una vita da atleta: mangia poco, non beve alcolici non fuma, dorme il giusto e alle partitelle affianca la boxe oppure la bicicletta, tanto che nell'estate del 1940 pedala da Bologna a Casarsa, passando per Venezia, a vedere la Biennale, e San Vito di Cadore: tre tappe in tre mesi, in tutto fanno più di quattrocento chilometri in compagnia, ma solo fino a Venezia, dell'amico Ermes Parini detto il Paria, quel suo compagno di studi che due anni dopo morirà di freddo e di stenti nella Campagna di Russia.
Nell'immediato dopoguerra, in Friuli Pasolini pedala quasi ogni giorno lungo la strada che da Casarsa lo porta a Valvasone dove insegna, e un bel giorno il “professore” prova anche a competere con Egidio Feruglio e Giordano Cottur, due corridori professionisti della Wilier Triestina incontrati lungo la via, resistendo a perdifiato per chilometri e chilometri incollato alla loro ruota.
E poi a Roma. Anche nella capitale la bici rimane il suo mezzo di trasporto privilegiato: «può ve**re in bicicletta e lasciarla in custodia alla portiera», scrive nell'agosto 1951 il poeta Casimiro Fabbri a Pasolini. Poi quella bicicletta gliela rubano e al lavoro ci dovrà andare con l'autobus, almeno fino a quando nel 1957 Federico Fellini lo omaggerà di una Fiat 600, la sua prima automobile.

Con Kapitonov nelle borgate

Ma la bicicletta era ormai parte integrante del suo più intimo “romanzo” popolare. Nell'agosto 1960 il settimanale “Vie nuove” lo incarica di seguire le Olimpiadi, che quell'anno si svolgono a Roma, e il 10 settembre esce Tradì i pattini per la bicicletta, un articolo dedicato al campione olimpico di ciclismo su strada Viktor Kapitonov, sovietico, un biondo giovanotto ventisettenne «secco, alto, caldo di energia fisica, timido» che «ogni volta che apre bocca mi sembra debba dire una frase friulana». Finita l'intervista, assieme al suo allenatore e a un interprete «montiamo in macchina: istintivamente vado verso la periferia», tra le «infangate, miserande casette della borgata p***e nel livore della notte, mute». Dormono tutti?, domandano. «”No!” dico io sorridendo “qui c'è una specie di coprifuoco!” Scendiamo dalla macchina, nel piazzale circondato dalle casette degli sfruttati, chiuse nel loro miserabile orticello. Lontanissime, splendono le luci della Roma olimpica. Non dormono, no, alla borgata: se ne stanno, esclusi dalla città, come rintanati tra le loro casette. Vedendoci, un po' alla volta vengono fuori, si raccolgono intorno, è una piccola folla: sono quasi tutti giovani, e come riconoscono Kapitonov, gli si raccolgono intorno, festosi, nei loro eleganti stracci di malandrini. Ah, quante cose ci sarebbero da dire...»

«Lei sa chi era Canavesi?»

Raggiunta la fama come scrittore e regista, lo chiamano a parlare di ciclismo anche in tivù: il 17 maggio 1969, a una puntata del Processo alla tappa Pasolini può dialogare con il campione abruzzese Vito Taccone e rispondere alle domande di Vittorio Adorni, che da lui vorrebbe sapere quanto sincero sia il suo interesse per il mondo del pedale. E Pasolini, sornione e pungente: «Il ciclismo è uno sport che mi piace moltissimo, e lo amo da vent'anni, da quando ero ragazzino. Per esempio, lei sa chi era Canavesi?», Severino Canavesi è un lombardo che ha avuto il torto di correre ai tempi di Bartali e Coppi. Adorni si mostra sorpreso: «Era un ciclista che correva vent'anni fa, tanto per dirne uno». E poiché allo scrittore piacciono le storie e le facce alla Canavesi, ecco, «stando qui nascono le sorprese e le cose impreviste. Per esempio ho visto due facce che veramente prenderei in un film, la faccia di Dancelli e quella di Taccone». Al commovente Taccone una parte la offrirà per davvero, nel Decameron: «Peccato che io non avessi finito la mia carriera», dirà il corridore abruzzese a Valerio Piccioni, «ero ancora impegnato in bicicletta, mi dispiacque molto. Anche perché da allora non lo vidi più».
E sempre a proposito di facce da film, eccolo il 10 maggio di quell'anno invitare gli italiani a considerarsi cittadini transnazionali e godersi la travolgente vitalità di un eccezionale campione come il belga Eddy Merckx, «tanto più che – del resto come tutti i ciclisti – ha una faccia così simpatica» (La faccia di Merckx, “Tempo illustrato” 10 maggio 1969, rubrica Il caos). Questo articolo, e non altro, gli varrà l'invito da parte di Maurizio Barendson e Sergio Zavoli al Processo alla tappa di quel giro “storico”: a Savona il 2 giugno proprio Merckx risulterà positivo a un controllo anti-doping e di conseguenza verrà sospeso; la maglia rosa passerà a Felice Gimondi, che in segno di solidarietà con il campione belga aspetterà un poco a indossarla, ma la terrà sino alla fine.
Sui corridori incontrati quel pomeriggio al Processo alla tappa, Pasolini torna il 7 giugno 1969 nella sua rubrica sul “Tempo illustrato”, ricordando proprio Michele «Dancelli, accorato come un ragazzino, che vede le ingiustizie del mondo con chiarezza e umiltà, senza arrendersi ma senza per questo incattivirsi o rendersi prepotente». E poi ricorda «l'intelligente Taccone, che, forse perché viene dal Sud, a differenza di Dancelli, è costretto a portare più avanti la critica: non solo lotta, ma cerca di farsi cosciente dei termini reali di questa lotta». Per Pasolini, Taccone e Dancelli sono figure in bilico tra realtà e irrealtà, e «l'irreale è la cultura borghese di massa con i suoi “media”». La loro simpatia umana a lui pare innegabile, ma «qualcosa tende con violenza a sopprimerla», tanto da indurli a eludere la verità, perché «se la dicessero farebbero una cosa sconveniente rispetto al “video” e ai loro datori di lavoro». Di lì a poco (“Corriere della Sera”, 24 agosto 1975), la «stupidità delittuosa della televisione» diverrà il pasoliniano capo d'imputazione in un altro Processo: quello alla Democrazia cristiana.

Adorni? Un grazioso piccolo-borghese

Con Adorni, aggiunge Pasolini sul “Tempo”, si è invece «parlato del più e del meno, cioè del nulla», e lo spiega: «Tra tutti i simpatici visi popolari dei ciclisti» quello di Adorni è «l'unico viso piccolo-borghese, ancorché grazioso», e per questo motivo di sicuro farà «più carriera come annunciatore della televisione che come ciclista». Nel lessico pasoliniano “piccolo-borghese” non suona a complimento: e poi Adorni – orrore – era anche un affermato conduttore di tele-quiz e un disinvolto commentatore televisivo di cose sportive; ma solo otto mesi prima del suo incontro-scontro con Pasolini, a Imola, sempre lui, il telegenico eroe piccolo-borghese, si era laureato campione del mondo di ciclismo su strada. Maglia rosa nel 1965 al Giro d'Italia e campione del mondo nel 1968: quanta strada ha fatto Adorni...
Secondo Pasolini, «un atleta ha un solo modo per realizzare pienamente la propria libertà: lottare liberamente per vincere»; e il miglior libero lottatore è nei fatti Eddy Merckx, detto “il cannibale”, perché il suo corpo «è più forte del consumo che se ne fa. Le vittorie di Merckx sono scandali». Doping incluso, verrebbe da aggiungere. Ma Pasolini non può saperlo, perché scrive questo articolo prima che i commissari dell'Unione ciclistica italiana trovino il campione belga positivo alla fencamfcamina, uno stimolante del sistema nervoso che aiuta a combattere la fatica.

Facce da cinema

Si direbbe che, più di altri, gli sportivi abbiano “facce da cinema”. Facce “popolari” come quella di un famoso attore come Raffaele Vallone detto Raf, che negli anni Trenta aveva giocato ventisei partite in serie A nel Torino (e sempre in A, sette ne giocherà con il Novara), segnando quattro reti e vincendo anche una Coppa Italia. O come la faccia atletica e barbuta di Giuseppe Gentile, pronipote dell'illustre filosofo, ex recordman mondiale nel salto triplo e medaglia di bronzo olimpica a Città del Messico nel 1968: a lui Pasolini si affida nel 1969 per la parte di Giasone in Medea, accanto a Maria Callas (e in questo film il possente discobolo e rugbista azzurro Gianni Brandizzi riveste i panni di Ercole). Oppure la faccia di quel «giocatore di calcio» del campionato etiopico di serie A «visto dentro lo stadio dell'Asmara», su cui Pasolini posa gli occhi per la parte del re Harùn nel Fiore delle Mille e una notte (1974).
Indimenticabile era poi la faccia da indio di Carlos Monzón, l'ex lustrascarpe e ladruncolo di Santa Fe, Argentina, che il 7 novembre 1970 al palasport di Roma mette al tappeto il “fascista” Benvenuti, troncandogli così la carriera. Pasolini se ne innamora, e lo vorrebbe a fare Yunàn nel Fiore delle Mille e una notte. La “borsa”, pur cospicua – quindicimila dollari più la diaria – è circa un decimo di quanto il pugile percepisce per un combattimento mondiale con titolo in palio. Nondimeno Monzón ci pensa, Pasolini lo incontra in Spagna ma gli impegni del pugile sono tanti, e alla fine non si approderà a niente.

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