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05/01/2025

Discorso profetico

05/01/2025

EPIFANIA
di Alberto Maggi

Il sorpasso dei pagani
La nascita di Gesù, con l’accettazione da parte di Giuseppe del suo concepimento “per opera dello Spirito santo” (Mt 1,18), non ha segnato la fine della turbolenza nella vita di Maria e di Giuseppe. “Chi mi ascolta vivrà tranquillo, senza paura di nessun male”, aveva sentenziato il grande re Salomone (Pr 1,1. 32), ma a Giuseppe e Maria l’aver ascoltato il loro Signore non ha portato tranquillità né tantomeno li ha protetti dal male.
Maria e Giuseppe sono consapevoli che il loro figlio proviene da Dio, quale frutto di una nuova creazione ad opera del Signore. Sanno anche che la missione di Gesù sarà quella di salvare “il suo popolo dai suoi peccati” (Mt 1,21). Ma ciò che sta per accadere sembra fatto appositamente per incrinare le loro certezze.
Maria e Giuseppe si trovano a Betlemme, dove Gesù è nato. I sommi sacerdoti e gli scribi della vicina Gerusalemme hanno già informato Erode, che ha espresso il desiderio di adorare “il re dei Giudei”, del luogo ove questi è nato: “A Betlemme di Giudea” (Mt 2,5), da dove, secondo il profeta Michea, “uscirà il Messia” (TgMic 5,4).
Ma da Gerusalemme nessuno si è dato la pena di verificare se nella piccola Betlemme si fosse realizzata la profezia di Michea. L’atteso Messia è lì, a due passi, e nessuno si muove.
Veramente una visita c’è, ma non è quella attesa. I personaggi che si sono presentati da Maria e Giuseppe hanno probabilmente sconcertato i genitori di Gesù. Infatti, gli unici che si recano nella casa di Betlemme sono “alcuni maghi giunti da oriente” (Mt 2,1).
Per comprendere il significato della presenza dei maghi a Betlemme è necessaria un’opera di restauro. Occorre infatti ripulire la figura di questi personaggi dalle incrostazioni accumulate nel tempo da tradizioni che hanno ridotto i maghi a elementi del folclore.
Lo sconcerto che dei maghi fossero stati i primi a adorare Gesù, ha portato infatti i primi cristiani a cercare di nobilitare tali personaggi, elevandoli alla dignità regale. In seguito si è provveduto a trasformare l’imbarazzante termine maghi, che era adoperato nella lingua greca per indicare i ciarlatani e gli imbroglioni, nel più innocuo magi (unica volta che il greco màgoi [maghi] è tradotto così). In base ai doni portati si stabilì il loro numero in tre e si trovarono persino i nomi: Gaspare, Melchiorre e Baldassarre. Infine, nella tradizione i maghi vennero rappresentati uno bianco, uno nero e l’altro meticcio... e i personaggi per il presepio erano pronti.
Con la presenza dei maghi, l’evangelista intende invece affermare che i primi (e gli unici) a rendere omaggio al re dei Giudei sono stati dei pagani (“giunti da oriente”). Constatando l’assenza dei sommi sacerdoti e la presenza dei maghi a Betlemme, Matteo anticipa e realizza la profezia di Gesù: “Ora io vi dico che molti verranno dall’oriente e dall’occidente e sederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli, mentre i figli del regno saranno cacciati fuori” (Mt 8,11). Il regno di Dio rifiutato da Israele “sarà dato a un popolo che ne produca i frutti” (Mt 21,43).
L’estensione del regno di Dio pure ai pagani e ai peccatori viene raffigurata dall’evangelista nei doni che i maghi offrono a Gesù.
Portando l’oro, omaggio regale, i pagani riconoscono Gesù come loro sovrano (1 Re 9,11.28). Il regno di Dio non è limitato a quello d’Israele, ma si estende a tutta l’umanità, pagani e peccatori compresi, perché tutti sono oggetto dell’amore di Dio, qualunque sia la loro religione o la loro condotta (Mt 5,45).
Una caratteristica esclusiva del popolo d’Israele era quella di essere un “regno di sacerdoti” (Es 19,6), e l’incenso era l’elemento specifico del servizio sacerdotale (Lv 2,1-2). L’offerta dell’incenso a Gesù significa che il privilegio di essere un popolo sacerdotale non è più riservato a Israele, ma viene esteso a tutti i popoli (1 Pt 2,9; Ap 5,10).
Nei profeti, il rapporto tra Dio e il suo popolo era raffigurato con l’immagine del matrimonio, nel quale Dio era lo sposo e Israele la sposa (Is 62,5; Os 2). La mirra, simbolo dell’amore della sposa per lo sposo, è il profumo con il quale l’amante seduce il suo amato (“Ho profumato il mio giaciglio di mirra”, Pr 7,17; Ct 5,5). Il dono a Gesù di questo profumo è segno che l’onore di essere il popolo sposo del Signore non è più solo d’Israele ma, attraverso i maghi, viene esteso a tutte le nazioni pagane.
Un Dio diverso
Matteo non segnala alcuna reazione da parte di Maria e Giuseppe alla visita dei maghi. Certamente lo sbalordimento deve essere stato enorme. Gesù è stato annunciato dall’Angelo del Signore come colui che avrebbe salvato il popolo d’Israele dai peccati (Mt 1,21). Che c’entrano i pagani?
La tradizione religiosa e nazionalista, nella quale Maria e Giuseppe sono cresciuti, ha presentato sempre i pagani come coloro che il Messia avrebbe annientato e per essi non c’è posto nel regno: “Nessun pagano avrà parte nel mondo avvenire” (Tos. Sanh. 13,2).
Tante volte Maria e Giuseppe hanno sentito nella sinagoga sentenziare che “il migliore dei pagani merita la morte” (Qid. Y. 66cd) e che uccidere il migliore dei pagani era come schiacciare la testa al migliore dei serpenti (MekEs. 14,7). Come è possibile che anche essi siano un popolo regale e sacerdotale? E se i pagani vengono ammessi anch’essi nel regno, come si può continuare a pregare il Signore con il salmo con cui si chiede: “Riversa sui pagani il tuo furore”? (Sal 79,6).
E’ solo l’inizio dei tanti interrogativi che scandiranno la crescita nella fede di Maria e di Giuseppe (“Anche la beata Vergine ha avanzato nel cammino della fede”, LG 58). I genitori di Gesù dovranno aprirsi completamente al nuovo che il loro figliolo rappresenta, modificando in maniera radicale l’immagine di Dio e della sua azione sul mondo.
Ma ora non c’è tempo per riflettere.
I maghi sono appena partiti, che “un Angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: Alzati, prendi il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché io non te lo dica; perché Erode sta per cercare il bambino per farlo morire” (Mt 2,13). Il potere è sempre “menzognero e padre della menzogna” (Gv 8,44). Erode aveva espresso il desiderio di adorare il re dei Giudei. In realtà voleva ucciderlo.
Erode è il re che era stato capace di uccidere i propri figli per paura che gli togliessero il potere e, giocando sull’assonanza, nella lingua greca, tra la parola porco (hys) e figlio (hyós), circolava il detto che era “meglio essere un porco che figlio di Erode” (Saturnalia, II, IV, 11).
Il re, per dimostrare al popolo che rispettava la Legge ebraica, non mangiava il maiale (Lv 11,7), ma per mantenere il trono uccideva i propri figli.
Prontamente Giuseppe, preso il bambino e sua madre, scappa con loro in Egitto. Si ripete, ma al contrario, la storia del popolo d’Israele. Questo era fuggito dall’Egitto, “dalla casa di schiavitù” (Dt 5,6), e aveva trovato rifugio nella terra promessa. Ma ora la terra della libertà si è trasformata in una terra di morte, dalla quale occorre fuggire e trovare rifugio proprio in Egitto.
Si corre meno pericolo in Egitto, tra i pagani idolatri, che a Betlemme, nelle vicinanze di Gerusalemme, la città santa che pullula di sacerdoti e persone devote.
Sinagoga e Tempio, religiosi e persone pie, saranno per il Figlio di Dio un pericolo mortale dal quale dovrà costantemente fuggire. In terra pagana, tra peccatori e miscredenti, troverà sempre rifugio, accoglienza e fede.
“Erode, vedendosi beffato dai maghi, si adirò moltissimo e mandò ad uccidere tutti i bambini che stavano a Betlemme e in tutto il suo territorio dall’età di due anni in giù” (Mt 2,16).
Questa strage è un duro colpo alle certezze di Maria e di Giuseppe.
Essi credono nel Dio d’Israele, in Colui che per liberare il suo popolo dalla schiavitù egiziana non esitò a sterminare “ogni primogenito nel paese d’Egitto” (Es 12,29), e nella preghiera benedicono “Colui che percosse gli Egiziani nei loro primogeniti, perché la sua bontà dura in eterno” (Sal 136,10). Ora, al contrario, è Erode a sterminare i bambini di Betlemme per cercare di uccidere il Figlio di Dio.
Perché questa volta il Dio, a cui tutto è possibile, non agisce, perché non colpisce Erode, così come ha percosso il faraone?
Maria e Giuseppe avranno tempo per riflettere, per scoprire che il Dio che si manifesterà nel loro figliolo è diverso da quello che essi hanno conosciuto: non ucciderà i nemici, ma darà anche a loro la sua vita (Mt 9,23-25).
Per ora, una volta morto il re, c’è da pensare di tornare in patria. Scartata Betlemme, perché troppo vicina a Gerusalemme ma soprattutto perché governata da Archelao, crudele come suo padre Erode, Maria e Giuseppe pensano di essere più sicuri allontanandosi dalla Giudea, e salgono a Nazaret, in Galilea, regione sotto la giurisdizione dell’altro figlio del re, Erode Antipa. Non possono sapere che ciò che non era riuscito a Erode il Grande, riuscirà al figlio, sotto il quale Gesù sarà assassinato.

05/01/2025
05/01/2025

Incontro/scontro tra l'onorevole Borrelli e James Senese

04/01/2025

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“Un giorno che non va”
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Si parte 🚀 2025
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01/01/2025

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01/01/2025

Spettacolari immagini del nostro Raffaele Amendola dalla stazione della funivia del Faito. Lo spettacolo dei fuochi d'artificio per festeggiare l' arrivo del nuovo anno.🎆
Buon 2025 a tutti ♥️

31/12/2024

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30/12/2024

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ESSERE AUGURI di Alberto MaggiÈ ben strano il destino che attende il nuovo anno, da sempre tanto atteso, tanto desiderat...
30/12/2024

ESSERE AUGURI di Alberto Maggi

È ben strano il destino che attende il nuovo anno, da sempre tanto atteso, tanto desiderato, tanto festeggiato. Viene raffigurato come un bebè, portatore di cose buone, ed è accolto con tanta gioia, ma poi, per qualche misterioso maleficio, in poco più di trecento giorni il tenero pargoletto si trasforma in un decrepito vecchio, del quale non si vede l’ora di sbarazzarsene, cacciato via con risentimento, per non aver portato la felicità così attesa e sperata. Le frasi più ricorrenti nell’approssimarsi della fine dell’anno ben esprimono questo stato d’animo: “Tirasse via a passare quest’anno…”, oppure: “E speriamo che il nuovo anno sia migliore di questo…”.
E questo accade ogni fine d’anno. Non si vede l’ora che l’anno termini, proiettando nel nuovo arrivato tutti quei desideri frustrati che non si sono realizzati nell’anno vecchio, caricando il nuovo che viene con tante illusioni che non tarderanno a tramutarsi in cocenti delusioni. E gli auguri fatti e quelli ricevuti, vengono spazzati via, dimenticati, lasciando in bocca un amaro disincanto, in attesa di un nuovo anno nel quale riporre nuovamente le aspettative di sempre.
Forse per non restare ogni volta delusi, bisognerebbe cambiare la prospettiva, e anziché fare gli auguri, essere auguri, farsi augurio per gli altri, non chiedendo cosa l’anno nuovo possa donare, ma impegnandosi a portare qualcosa per renderlo più bello, più umano, come insegna il Nuovo Testamento, per il quale la felicità non è un’utopia, una chimera sempre rincorsa e mai raggiunta, ma una possibilità concreta alla portata di tutti. Infatti la felicità, per Gesù, non consiste in quel che si riceve, ma in quel che si è capaci di donare: “Si è più beati nel dare che nel ricevere” (At 20,35). Se la felicità dipende da quel che si riceve, si rischia di consumare l’esistenza sempre amareggiati, perché gli altri non hanno saputo rispondere ai bisogni, ai desideri per i quali si è atteso invano una risposta. Ma se la felicità consiste invece in quel che si dona, questa può essere possibile, immediata e piena; anzi, più si dà e più si è felici, perché il Padre non si lascia vincere in generosità, e regala vita a chi dona amore (“Con la misura con la quale misurate sarà misurato a voi; anzi, vi sarà dato di più”, Mc 4,24; Lc 12,31).
Essere un augurio per gli altri significa fare della generosità il distintivo che rende riconoscibili. Chi è capace di offrire che quel che è e ciò che ha, in maniera abituale, possiede la vita in pienezza, e per questo ne può fare dono. Come il Cristo risuscitato, che ogni volta che si manifesta ai suoi discepoli dice loro: “Pace a voi!” (Gv 20,19.21.26). Il suo non è un augurio (“La pace sia con voi”), ma un dono. La pace può essere un dono solo quando è espressione di tutta la vita della persona, altrimenti è solo un suono (“Ognuno parla di pace con il prossimo, ma nell’intimo gli ordisce un tranello”, Ger 9,8). Chi dona pace non solo comunica gioia, ma arricchisce la propria (“Perché la nostra gioia sia perfetta”, 1 Gv 1,4).
La pace, l’ebraico shalòm, nel mondo semitico ha un significato molto più ampio di quello conosciuto in Occidente, infatti include tutto quel che di buono e bello rende appagata la persona, dalla pienezza di salute all’amore, dal lavoro al benessere: la felicità. Per questo in quella cultura il saluto augurale, non era (e non è) mai espresso solo verbalmente, ma sempre accompagnato da un dono, che può essere un dolce, una bevanda, un frutto, per contribuire alla felicità e alla gioia di chi riceve il saluto. Per questo quando Gesù dona pace, regala felicità, e quel che aveva promesso non rimane un augurio, ma diventa realtà, affinché “la vostra gioia sia piena” (Gv 15,11; 16,24). I vangeli invitano a essere portatori di questa pace (“In qualunque casa entriate, prima di tutto dite: ‘Pace a questa casa!’”, Lc 10,5) affinché questa raggiunga tutti gli uomini: “E sulla terra pace agli uomini, che egli ama” (Lc 2,14).

30/12/2024

W la sincerita' --- James Senese

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