09/09/2024
𝐄𝐜𝐜𝐨 𝐩𝐞𝐫𝐜𝐡𝐞́ 𝐥𝐚 𝐦𝐮𝐬𝐢𝐜𝐚 𝐩𝐨𝐩 𝐢𝐭𝐚𝐥𝐢𝐚𝐧𝐚 𝐞̀ 𝐭𝐮𝐭𝐭𝐚 𝐮𝐠𝐮𝐚𝐥𝐞, 𝐨 𝐪𝐮𝐚𝐬𝐢.
𝑪'𝒆𝒏𝒕𝒓𝒂𝒏𝒐 𝒈𝒍𝒊 𝒂𝒖𝒕𝒐𝒓𝒊 𝒆 𝒊 𝒑𝒓𝒐𝒅𝒖𝒕𝒕𝒐𝒓𝒊 (𝒔𝒆𝒎𝒑𝒓𝒆 𝒈𝒍𝒊 𝒔𝒕𝒆𝒔𝒔𝒊), 𝒎𝒂 𝒂𝒏𝒄𝒉𝒆 𝒍'𝒊𝒏𝒅𝒖𝒔𝒕𝒓𝒊𝒂 𝒆 𝒍𝒂 𝒏𝒆𝒄𝒆𝒔𝒔𝒊𝒕𝒂̀ 𝒅𝒊 𝒐𝒎𝒐𝒍𝒐𝒈𝒂𝒓𝒔𝒊. 𝑼𝒏'𝒊𝒏𝒅𝒂𝒈𝒊𝒏𝒆.
𝐷𝑖 𝑃𝑎𝑡𝑟𝑖𝑧𝑖𝑜 𝑅𝑢𝑣𝑖𝑔𝑙𝑖𝑜𝑛𝑖
Se non siete voi a chiedervelo, vi sarà capitato di sentire qualcuno sollevare il dubbio: perché le canzoni italiane si somigliano tutte?
Ok, è vero che veniamo da una stagione tremenda in questo senso – i tormentoni estivi uno standard, un genere a sé in cui tutti i pezzi cercano di percorrere la stessa strada: tropicalismo tanto al chilo, urban, cassa dritta – e che è facile perdersi in discorsi di questo tipo, della serie “signora mia, una volta il pop era un’altra cosa”.
Ma ci sono i numeri: anche se non fosse davvero così (spoiler: in gran parte lo è), la maggioranza dei pezzi che sentiamo in radio sono in mano a pochissimi autori, per scrittura e per produzione; nonostante, insomma, la mole di musica in uscita ogni settimana, le hit portano sempre le stesse firme, anche se cantate da artisti distanti tra loro – di solito collaborano con gli autori, altre volte ci si affidano in toto.
Le canzoni italiane sono tutte uguali?
Per ca**tà, non è niente di nuovo: fin dagli anni sessanta esiste un cerchio magico di addetti, che si rinnova di generazione in generazione; un mostro sacro come Mogol, per dire, ha scritto testi per chiunque, ed è ovvio che questi spesso si somigliassero.
Allo stesso modo, poco tempo fa sembrava non si potesse fare pop senza i suoni di Michele Canova Iorfida, i cui ingredienti segreti, in termini di produzione, sono dietro ai vari Jovanotti, Tiziano Ferro, Eros Ramazzotti. La discografia italiana è un serpente che si morde la coda: più certi autori sono una garanzia e più ci si affida a loro, più ci si mette in fila per lavorarci; e ben venga se i risultati sono – giocoforza, perché poi gli autori in sé sono bravissimi nel loro lavoro – ripetitivi, perché così il successo è in cassaforte (più o meno).
E fin qui, tutto regolare. Cos’è cambiato negli ultimi dieci anni?
È cambiato l’approccio culturale, il fatto che molti nomi che provengono da ambienti storicamente più disinteressati al mainstream – l’indie, ma anche il rap – abbiano adesso tra le prerogative quella di diventare, certo a modo loro, “pop”.
Prima, in parte, l’approccio era diverso.
Ma ora questo ha fatto sì che i Re Mida abbiano più potere, si moltiplichino e che in generale s’impongano come un passaggio irrinunciabile, per tanti.
I nomi li ascoltiamo quando a Sanremo annunciano la lista degli autori, anche se non compaiono in pubblico sono a loro modo delle star. È il momento d’oro della categoria.
Su tutti c’è Davide Petrella, che nel 2024 ha firmato le hit di Rose Villain, The Kolors e Geolier, mentre a Sanremo 2023 aveva co-scritto Due vite di Marco Mengoni e Cenere di Lazza. Lo stesso Lazza, in conferenza stampa, aveva ironizzato su quanto la fosse presente tra i pezzi in gara (per cui, s’intende, su quanto avrebbe guadagnato di lì a poco).
Tra gli altri, ci sono Davide Simonetta (con alle spalle tutti i successi recenti di Annalisa e Tananai, e ovviamente la joint-venture Storie brevi), Federica Abbate (quest’anno Melodrama di Angelina Mango e Sexy Shop di Fedez ed Emis Killa) e Jacopo Ettorre (Paprika di Ghali, Tuta gold di Mahmood). A volte collaborano, per esempio Ettorre e Abbate quest’estate condividono Malavita dei Coma_Cose e Black Nirvana di Elodie, per non farci mancare niente. E non è, neanche qui, che siano scarsi. È che giocoforza ci si ripete, non ci si può reinventare all’infinito, a maggior ragione perché artisti ed etichette discografiche si rivolgono a un certo autore proprio per avere quel tipo di suono.
Vale lo stesso per le produzioni, dove il gotha da anni è Dardust, che nel 2024 è dietro La noia, nel 2023 ha benedetto la stessa Cenere e poi ancora Elodie, la Madame di Voce, La Rappresentante di Lista a Sanremo, il Mahmood del 2021. Ora si è un po’ defilato, conscio del gioco a ribasso che si è scatenato, ed è indicativo. Restano richiestissimi Takagi & Ketra e Drillionaire (esploso con Lazza, poi dappertutto), mentre Zef, ancor più in ascesa, sta dietro ai pezzi di Marracash come a quelli che hanno appena segnato il rilancio dei Ricchi e Poveri, oltre che a Sesso e samba – che tra gli autori, indovinate un po’, conta Petrella. Perfino l’indie, a suo modo, è omologato alla regia di Federico Nardelli, al fianco di Tommaso Paradiso, Gazzelle, perfino di Ultimo e Colapesce e Dimartino. Questa trasversalità di generi – c’è chi viene dall’hip hop e passa al pop, chi fa il percorso inverso: vale per i producer, per i musicisti e per i parolieri – segue percorsi diversi, in base all’artista in questione, ma spesso ha un minimo comun denominatore: la scelta di giocarsela nel campo del pop, inteso non come genere ma come musica popolare in senso ampio; e qui, di nuovo, i paletti stilistici sono chiari, bisogna passare per i soliti nomi.
Succede per i grandi della musica leggera, certo, che siano in cerca della pietra filosofale (Annalisa e Tananai, di nuovo) o di un aggiornamento (Elisa), ma anche ai rapper, che spesso non hanno un background melodico e se vogliono passare in radio (leggi: devono azzeccare il ritornello) ed essere facilmente "catalogabili" per essere inseriti nelle playlist di grido hanno bisogno di una mano. Lazza e Geolier, di nuovo, per lo sbarco a Sanremo, quindi presso il grande pubblico, hanno scelto Petrella e Simonetta.
Perfino i Club Dogo, abituati da sempre a fare tutto da soli, nell’ultimo album si sono affidati a Petrella. Che, per numeri e risultati, è oggettivamente un fuoriclasse del settore, così come lo è tutta questa generazione di autori e produttori che si è presa uno spazio che prima, semplicemente, non era così ampio.
Colpa del braccio corto di discografici e artisti? Magari sì.
Però, ecco, intanto non stupiamoci se poi le canzoni non sono "troppo diverse, come sesso e samba".