Andrea Batilla

Andrea Batilla Mi occupo di strategie di brand per moda e lusso. E scrivo libri, articoli e un sacco di post.

PIZZA is a paper biannual magazine and an online daily magazine about italian culture and style edited in italian and english and distributed worldwide.

The Substance, il film rivelazione dell’ultimo Festival di Cannes, contiene un sacco di indicazioni su come il linguaggi...
03/11/2024

The Substance, il film rivelazione dell’ultimo Festival di Cannes, contiene un sacco di indicazioni su come il linguaggio espressivo e il punto di vista di un autore possano raccontare il presente. Ma ha anche dentro di sé una libertà creativa e una capacità di provocazione che in altri ambiti, tipo la moda, non esistono più. Il film parla di corpi femminili e di come il loro invecchiamento sia diventato inaccettabile, impossibile da sostenere e causa di dolore profondo. La genialità della regista Coralie Fargeat e della protagonista Demi Moore è però di parlare di un argomento cosi serio usando la nostalgia, il passato, la citazione, con un linguaggio spietatamente ironico in cui La Morte Ti Fa Bella viene triturato insieme a Shining, a Carrie, al cinema di Cronenberg, di Zulawski o di Jonathan Glazer. The Substance è un film in cui la narrazione è una traccia lontana mentre quello che conta è la forma debordante e grottesca delle riprese, della fotografia e della recitazione. Guardare al passato in un modo così distaccato, divertito e freddo per parlare degli orrori del presente e nello specifico del corpo delle donne è qualcosa a cui la moda dovrebbe aspirare perché si occupa, nello stesso modo, di corpi femminili. Ma anche il super successo di Barbie, che in una maniera molto più comprensibile usa un linguaggio simile, non ha spinto nessuno a fare a pezzi le romanticherie nostalgiche trasformandole in armi di rivoluzione. La quiete del lusso è una forma di distacco dal reale, di abdicazione a dire qualcosa di sensato sul presente, di rifugio impenetrabile in un limbo che non esiste, un tutto amorfo ormai irricevibile. Mi sono sempre chiesto, per esempio, se qualcuno da Gucci ha mai pensato al fatto che nella loro storia c’è un omicidio e una lunga serie di tragedie familiari. Magari esiste un modo per riflettere su quel momento che, si voglia o no, fa parte del brand tanto quanto Jackie Onassis a Capri. Anche morte e separazione possono rendere una storia credibile. E magari più interessante.

Dietro il mega trend del quiet luxury o, come lo chiamano su TikTok, old money, non c’è solo il tentativo di vendere cos...
18/10/2024

Dietro il mega trend del quiet luxury o, come lo chiamano su TikTok, old money, non c’è solo il tentativo di vendere cose costosissime ai super ricchi della terra ma c’è, soprattutto, un grande abbaglio. Il pre requisito per vendere cachemire beige e cappotti blu è un’idea di gusto borghese understated che risale all’ottocento, un momento storico in cui la scelta di non apparire rappresentava l’accesso al potere. L’uniformità estetica della classe dominante era facile da nutrire e gestire perché i ricchi erano pochi, si conoscevano, leggevano e vedevano tutti le stesse cose. Oggi i milionari sono sparsi in tutto il mondo, provengono da culture diversissime e si nutrono fondamentalmente della melma dei social media perché, al contrario dell’Ottocento, sono spesso analfabeti. Pensare che comprino Chanel o Hermès perché sono maestri di gusto è, oltre che utopico, oggettivamente falso. Per loro il quiet luxury è solo un altro trend passeggero che sarà presto sostituito da qualcos’altro. La moda ha pensato in blocco di aver superato il problema del continuo cambiamento del gusto globale non riflettendo sul fatto che il mondo è in frantumi, il caos regna sovrano e le persone, anche se analfabete, non credono che vestirsi come Nicole Kidman in The Perfect Couple possa portarli alla gioia terrena. E non è neanche vero che, sempre i soliti proprietari di mega yacht, abbiano improvvisamente bisogno di oggetti duraturi, simbolicamente riconoscibili e tali da essere passati alle generazioni successive. Questi se ne fregano di figli e nipoti, tanto quanto figli e nipoti se ne fregano di loro. Sarebbe bello, lo so, che il mondo avesse compreso la differenza tra bello e brutto ma non è così. Il problema dell’umanità è, anche, fortemente estetico e i parametri per articolare un discorso sensato sull’argomento sono talmente tanto complessi che nessuno ci prova più. Voi per caso mi volete dire che nell’era del Calippo tour i nuovi ricchi hanno la stessa capacità di analisi di Maggie Smith in Downton Abbey? Ecco. Io non penso.

Mentre in molti si domandano chi prenderà la direzione creativa una volta che re Giorgio decide di ritirarsi, tirando in...
11/10/2024

Mentre in molti si domandano chi prenderà la direzione creativa una volta che re Giorgio decide di ritirarsi, tirando in ballo nomi come Hedi Slimane, Maria Grazia Chiuri o Stefano Pilati, non ci si accorge che la questione da porsi è un’altra, ben più profonda. Giorgio Armani è uno dei creatori di quello che comunemente viene chiamato Made in Italy. Il suo brand, nato nel 1975, ha contribuito fortemente a stabilire un modello creativo e produttivo che ha, tra le altre cose, rilanciato l’immagine dell’Italia nel mondo. In un momento in cui il Bel Paese era devastato da crisi economiche, terrorismi rossi e neri e un’ondata di rapimenti, la moda è diventata un simbolo di resurrezione, riportando l’attenzione su capacità imprenditoriali e di design che il mondo aveva dimenticato più o meno dai tempi del Rinascimento. Questo meraviglioso ma delicato momento non solo è stato poco indagato ma ha subito una falsa mitizzazione che ha portato ad avere un’immagine distorta di una storia che è molto complessa e che comincia nel 1946. Personaggi come Armani, Versace, Krizia, Trussardi ma anche Albini, Missoni, Caumont o Silvano Malta non sono stati studiati, non sono mai stati analizzati con una prospettiva se non quella dell’elogio acritico. Giorgio Armani non è solo un brand ma un pezzo importante di storia italiana e come tale andrebbe studiato e il suo patrimonio conservato. Mentre il design è stato storicizzato e valutato criticamente la moda non ha ancora attraversato questa fase lasciando molte domande sospese. Perché Armani dopo solo 5 anni dalla nascita del brand veste Gere in America Gi**lo e due anni dopo conquista la copertina di Time? Perché in brevissimo diventa un esplosivo successo commerciale negli Stati Uniti? Qual è il ruolo del GFT, l’azienda produttrice dei Rivetti, in questa parabola? E qual è il ruolo dei department store che tra poco a New York lo celebreranno? È venuto il momento di cercare risposte a queste domande che, immagino, a volte saranno frustranti, a volte sorprendenti, a volte semplicemente nuove.

Siamo in un momento in cui chi sbaglia, sbaglia pesantemente. Come chi guida un’auto, non troppo veloce né troppo lento,...
02/10/2024

Siamo in un momento in cui chi sbaglia, sbaglia pesantemente. Come chi guida un’auto, non troppo veloce né troppo lento, tenendo gli occhi sulla strada, lucido e attento ma non si rende conto che sta andando contro mano e che quel tir che arriva non farà in tempo a frenare. McQueen è un marchio che ha una storia di genialità e incontinenza creativa, seguita poi da un lungo periodo di adattamento a un mercato rigido e assolutista come quello degli abiti eleganti o da sera. Un mercato dove stanno Elie Saab, Gianbattista Valli e quasi tutti i designer inglesi da Simone Rocha a Erdem. Riattivare il senso e la clientela di una brand così complesso ma anche così monodimensionale è difficile, difficilissimo. Per uscire dal vicolo cieco dei cocktail e dei matrimoni milionari è stato deciso di prendere un giovane direttore creativo, Seán McGirr, proveniente da Loewe, e di affidargli l’ardito compito. Dopo una prima collezione caotica ma quantomeno personale, ora McGirr è rientrato nei canoni cari a McQueen del dressing up, con un grande sfoggio di pizzi, paillettes e chiffon. Saranno contenti i soliti del commerciale e del merchandising e immagino anche molti clienti ma forse non avranno pensato che se volevano questo tipo di prodotto potevano tenersi Sarah Burton. Questo gigantesco errore strategico, in un momento in cui di errori non se ne possono fare, mi sa di pressioni dall’alto, di estenuanti riunioni di controllo sul prodotto e di redifinizione della collezione fino allo sfinimento. In una parola mi sa di paura. La paura è un’emozione animale e da un punto di vista evolutivo serve a scatenare reazioni di fuga o di difesa davanti ad un aggressore. Il problema è che i miei gatti quando vedono una biscia fuggono, quando vedono una lucertola la intrappolano. Non si sognano di aspettare, rimuginare, riflettere e rotolarsi a terra. Agiscono.

Stella McCartney è da tempo una sincera alfiera della sostenibilità nella moda. La sua profondità di ricerca a tutti i l...
02/10/2024

Stella McCartney è da tempo una sincera alfiera della sostenibilità nella moda. La sua profondità di ricerca a tutti i livelli della catena produttiva è probabilmente l’esempio più fulgido di come la moda dovrebbe essere concepita e prodotta. Ma Stella ha presentato la sua prima collezione nel 1995 e degli anni ‘90 rimane una discendente diretta. In quel momento storico, a lato di tutti i Margiela e Galliano, si sviluppa nella moda il concetto di copia d’autore. Le immagini delle sfilate circolano sempre di più e chiunque nel mondo può usarle come meglio crede, ritagliandole, mescolandole, sezionandole. Quando nel 2010 nasce Pinterest l’abitudine alla copia è già per tutti una pratica quotidiana senza che più nessuno si domandi se abbia un senso. Zara e H&M ne sono una triste conseguenza. Nascono anche account come Diet Prada che mettono inizialmente in luce queste imbarazzanti distonie ma presto la copia riesce a suscitare al massimo un sorrisetto mentre diventa un indicatore di contenuti moda ad un prezzo più basso. Stella McCartney non ha prezzi bassi ma di certo è stata una delle iniziatrici di un trend che ha portato oggi marchi come Coperni, Toteme, Gauchere, Gabriela Hearst, Isabelle Marant, Carven, Patou e molti altri, a definirsi marchi, non essendolo in realtà neanche un pó. Questa abitudine ha di certo inondato il mondo di bei vestiti, portabili e con prezzi più contenuti ma ha anche cancellato il muro divisorio tra autorialità e spirito derivativo. A nessuno pare interessare più che la ricerca creativa è una cosa costosa, lunga e faticosa, mentre si moltiplicano i profili TikTok che urlano allo scandalo per i prezzi troppo alto dei brand del lusso. Essere sostenibili, oltre ad usare tessuti vegani, dovrebbe comprendere anche il concetto di rispetto del lavoro altrui e se nel caso di Stella non si può mai parlare di vera copia, il suo lavoro continua ad appoggiarsi sui trend del momento, su idee pre digerite che hanno già affrontato il test del mercato. Tracciare una linea chiara tra innovazione e derivazione dovrebbe essere un tema centrale per chi critica e per chi compra.

Secondo la Treccani il dissenso è una “Critica vivace e serrata, operata dall’interno (ma che può talora risolversi in d...
01/10/2024

Secondo la Treccani il dissenso è una “Critica vivace e serrata, operata dall’interno (ma che può talora risolversi in decisa opposizione) alle strutture di partiti, di organizzazioni sociali, politiche o religiose, per profonde divergenze circa le posizioni teoriche e ideologiche, le direttive, le linee d’azione sia in generale sia riguardo a problemi particolari”. Basterebbe questo a definire il lavoro di Demna da Balenciaga che si fa sempre più complesso, stratificato, interessante. In una stagione dominata dalla paura di cambiamento ma anche dalla necessità, intrinseca alla moda, di sgomberare il campo e riscrivere tutto, Balenciaga ha di nuovo dimostrato come avere una voce non allineata, dissonante e non consolatoria sia, appunto, quello che ci si aspetta dalla moda. L’equivalenza, scritta su due giacconi, tra fashion designer e esseri umani è un manifesto non solo alla libertà creativa ma al senso di fare questo mestiere, alla responsabilità di dire cose che hanno a che fare con la vita. E la vita per Demna è un affare caotico in cui sesso, strada, caos e atelier si scontrano in un’amalgama pre-razionale e invece di dissolversi a vicenda si nutrono, come tutti ci dovremmo nutrire di quello che viene dal basso, da dentro i nostri corpi, dal basso dei nostri corpi. Qui è tutto splendidamente dionisiaco, bollente come la lava, gelido come un iceberg, libero come la naturale tendenza degli esseri umani a rotolarsi nel fango nudi, ridere e succhiarsi a vicenda le lingue impastate di fragole. Demna non ha paura del buio, del giudizio, del passato, degli altri. Gli altri sono il suo territorio di espansione, la sua esperienza creativa. Sono/siamo quelli a cui parla, chiede, prega, incita a non rimanere fermi, a non lavarsi troppo, a non vestirsi troppo, a non pensare troppo perché è impossibile, in fondo, liberarsi completamente dalla polvere sottile e minacciosa della vita.

Per i pochi che ancora non lo sanno, pare che Hedi Slimane sia stato candidato per la direzione creativa di Chanel ma al...
30/09/2024

Per i pochi che ancora non lo sanno, pare che Hedi Slimane sia stato candidato per la direzione creativa di Chanel ma alla fine la cosa non si sia conclusa. I motivi veri nessuno li conosce ma i ben informati dicono che Hedi avrebbe voluto il controllo totale su tutto, profumi compresi e che i fratelli Wertheimer abbiano rifiutato. La risultanza di questa sconfitta (molto più per Chanel che per Slimane) è una delle collezioni più riuscite che Hedi abbia mai fatto per Cèline. Perché è, in effetti, una collezione di Chanel. In un meraviglioso plot twist di cui la moda sta facendo finta di non accorgersi, Hedi Slimane ha riletto la seconda parte della carriera di Coco, quella dal 54 al 71, evitando di fare un’operazione nostalgia ma anzi riflettendo su quanto Madame abbia reinventato il vestire femminile alla tenera età di 71 anni. In netta opposizione agli imperanti artifici dello stile di Dior, Chanel pensa a un tailleur per le donne che lavorano, che magari non prendono l’autobus ma sicuramente hanno una vita propria e non dipendono da maschi ricchi. Sono le nuove borghesi che hanno certo bisogno di segni di riconoscimento ma anche di una praticità quotidiana che le renda libere dai condizionamenti di una società fortemente maschilista. Quale momento più adatto di questo per tornare a quel tempo e raccontare una storia di vestiti, di funzione d’uso, di chiarezza? Slimane, nel ridicolizzare la scelta dei vertici di Chanel, è riuscito a fare uno statement sulla moda di oggi, uscita dall’inutile tunnel del quiet luxury e dalla bolla dello streetwear, alla disperata ricerca di qualcosa da dire. E il finale del video di presentazione della collezione, in cui i lampadari settecenteschi fracassano al suolo, cosa può essere se non un monito non solo ai Wertheimer ma a tutto il mondo della moda? Un’allusione chiarissima al pericolo di digerire sè stessi a forza di guardarsi, di compiacersi, di rileggersi ma soprattutto di stare in un posto che non ha più niente a che vedere con il presente.

A chi si aspettava una rivoluzione Alessandro Michele non ha mandato a dire che secondo lui non è tempo di rivoluzioni. ...
29/09/2024

A chi si aspettava una rivoluzione Alessandro Michele non ha mandato a dire che secondo lui non è tempo di rivoluzioni. Nella sua prima sfilata per Valentino ha richiamato tutti i suoi segni di riconoscimento per ribadire innanzitutto la sua identità. Come ho già scritto in occasione della sua prima pre collezione, la sua identità, massimalista, decorativista e fortemente basata sul decennio degli anni 70, coincide quasi completamente con ciò per cui storicamente Valentino Garavani è diventato famoso. Da un punto di vista filologico Michele è stato quindi molto rispettoso. Il problema qui non è la prospettiva archeologica e nostalgica. La questione su cui farsi delle domande è il metodo. Le sfilate di Alessandro sono un caos di mescolanze estetiche che intossicano volutamente gli occhi e che rifiutano l’attenzione al singolo prodotto. Sono anti narrative. Nel senso che non c’è una storia, un’ispirazione o un tema ma anzi c’è la volontà di frantumare il messaggio in mille pezzi e lasciare a chi guarda il compito di ricostruirlo. Questo aveva sicuramente un senso nel 2015, quando ha iniziato da Gucci, ma nel frattempo il mondo è cambiato e in giro si sente bisogno di ordine, di recupero di punti fermi. Il potere taumaturgico e dionisiaco di Alessandro Michele temo funzioni un po’ meno e il suo spirito anarchico ha ormai riempito le vetrine dei fast fashion. In questo momento le narrazioni, anche al cinema, tornano ad essere solide, anche dolorose ma sicuramente vere. Ecco. Nella sfilata di Alessandro non c’era dolore. E si sentiva. Non per caso la versione originale della colonna sonora diceva “È un sogno la vita/che par sì gradita/ è breve gioire/bisogna morire”. Nessuno vuole morire. Ma nessuno vuole neanche vivere con l’idea che la morte non esista.

Si scrive Schiaparelli ma si legge disastro. Mentre eravamo distratti Daniel Roseberry ha creato un moodboard con immagi...
28/09/2024

Si scrive Schiaparelli ma si legge disastro. Mentre eravamo distratti Daniel Roseberry ha creato un moodboard con immagini di Mugler, Balmain e Saint Laurent e ha spostato il brand verso il sexy/glam/bodycon per motivi che non ci sono chiari. Al contrario di Elsa Schiaparelli che rivisitava l’abbigliamento borghese degli anni 30 con l’occhio disincantato e ossessivo di chi ne ha passate di tutti i colori, Roseberry ci racconta di una vita spensierata vissuta tra una festa e un club possibilmente in Costa Azzurra. La realtà non ha posto sul foglio bianco in cui Daniel fa le sue belle illustrazioni seduto su una panchina in Central Park. Rimane fuori ad aspettare che qualcuno si interessi a lei. La questione interessante però è il clamore e il successo di critica (ma non di pubblico) che questo progetto continua a destare anche quando fa sfilare Naomi (ops!) con la testa di un orso sulla spalla. È probabile che questo segmento della vita del brand rimanga nella storia come segno della decadenza in cui ci troviamo e dell’impossibilità di dire cose sensate. Oppure potrebbe essere ricordato per essere uno degli ultimi marchi che si sono dimenticati da dove vengono e per questo non sanno dove vanno. Siamo in un momento in cui il racconto e il rispetto per le origini è tornato ad essere centrale. Elsa si era inventata un modo per mettere in ridicolo le ricche signore francesi e per costruire un senso di appartenenza intellettuale a qualcosa di più alto. Miuccia Prada viene da lì. È difficile pensare che tutta questa gigantesca forza innovativa si possa perdere in un abitino di maglia stretch metallizzato. Quei tempi temo che siano finiti.

Mentre il mondo si interroga su cosa sarà del mondo senza riuscire a darsi risposte sensate, la moda, che del mondo è un...
28/09/2024

Mentre il mondo si interroga su cosa sarà del mondo senza riuscire a darsi risposte sensate, la moda, che del mondo è un riflesso, sta faticosamente uscendo da un lungo torpore. Lo abbiamo visto a New York con il punto di vista politico di W***y Chavarria, a Milano con l’autorialità di Simone Bellotti da Bally e con la riflessione sulla quotidianità del prodotto di Matthieu Blazy da Bottega Veneta e infine a Parigi con Anthony Vaccarello per Saint Laurent che ha esplorato il momento storico in cui la moda è arrivata alle masse. Sono tutte strade diverse che portano però ad uno stesso punto: riaffermare la centralità della moda come elemento di critica sociale e di costruzione culturale. In questo contesto l’intellettualismo minimalista di JW Anderson, come quello di Lucie e Luke Maier da Jil Sander, sembra vecchio. Le collezioni surrealiste fatte di sproporzioni ardite di Loewe sono diventate improvvisamente obsolete perché assomigliano a un giochetto autoriferito comprensibile solo a chi sta nella bolla della moda. Sono distanti dalla realtà e hanno un tasso di autocompiacimento che non è più interessante. In molti dicono che JW sarà il prossimo direttore creativo di Dior. Se fosse vero il brand più amato in casa LVMH riprenderebbe la strada della scissione tra realtà e fantasia dei tempi di Galliano e Raf Simons, abbandonando la coscienziosa vicinanza al prodotto di Chiuri. La mossa riporterebbe a Dior la coolness persa da tempo ma mancherebbe di centrare il nuovo obiettivo che la moda si è data: tornare a parlare in maniera sincera della vita reale. Una cosa che accadeva fino a prima che la gente smettesse di usare le mani per accarezzare un tessuto per spostarle nervosamente sulla liscia tastiera di vetro di un telefono.

Ci sono delle sfilate che radono al suolo tutto quello che è successo prima e costruiscono, nell’arco di pochi minuti, t...
25/09/2024

Ci sono delle sfilate che radono al suolo tutto quello che è successo prima e costruiscono, nell’arco di pochi minuti, tutto quello che succederà poi. Anthony Vaccarello ha frantumato una volta per tutte l’orribile questione del quiet luxury, l’indigenza creativa perdurante, la mancanza di direzione diffusa e ha riportato al centro dell’attenzione una cosa che in molti si erano dimenticati: il senso. In questa collezione c’era tutto Yves, incarnato in maniera matematica e rispettosa, ma c’era anche un nuovo messaggio detto con grande assertività. Spaccando in due metà esatte la sfilata, Vaccarello ha recuperato una roba vecchia che si chiama occasione d’uso che quasi tutti gli esseri umani continuano a rispettare. Di giorno ci vestiamo da giorno, di sera ci vestiamo da sera. In queste sue fasi separate i codici della prima sono la comodità, il tailoring maschile e lo sportswear, mentre nella seconda stanno il lusso esibito, la decorazione e il colore. Questa diarchia è nata tra la fine dei 70 e l’inizio degli 80 e infatti è lì che Vaccarello è andato. Riabilitare le fondamenta del vestire quotidiano è fondamentale per cancellare il senso di dispersione in cui siamo. Non è controriformistico ma rigenerativo. Da Saint Laurent c’era decisamente la luce in fondo al tunnel. Forte e chiara. Ora basta seguirla.

Voci insistenti danno Galliano fuori da Margiela e Glenn Martens al suo posto. La scelta non sarebbe sbagliata e Martens...
22/09/2024

Voci insistenti danno Galliano fuori da Margiela e Glenn Martens al suo posto. La scelta non sarebbe sbagliata e Martens continuerebbe a stare in OTB con un ruolo forse più prestigioso e una libertà creativa maggiore. Questo però potrebbe vanificare lo straordinario lavoro che il designer belga sta facendo da Diesel, marchio che da lui è stato letteralmente reinventato. Sono sempre meno i progetti di rebranding che funzionano. Basta vedere il disastro di Maximilian Davis da Ferragamo. In questo caso invece Martens non solo è un perfect match per Diesel ma è anche riuscito ad aggiungere un piano narrativo che il brand non ha mai avuto. In questa collezione in particolare, una delle sue migliori, il tema era la distruzione e la conseguente rigenerazione. In senso letterale Glenn Martens ha accelerato una prospettiva sostenibile all’interno della produzione di denim che di per sé è una delle meno sostenibili al mondo. Ma lo ha fatto questa volta anche su un piano metaforico. Gli intensi cicli di stress che i capi della collezione hanno subito, insieme alle inquietanti lenti colorate dei modelli, rimandavano più che a un futuro distopico a un presente molto, molto malato in cui l’erosione delle ricchezze della terra è qualcosa che spesso si tende a dimenticare. I delavaggi eccessivi fino allo sfaldamento delle fibre non sembravano più ricordare la gozzovigliante atmosfera da primi anni 2000 ma un 2024 in cui non è facile trovare il giusto mezzo tra sviluppo e sopravvivenza. Il quadro dipinto da Martens è cupo anche se ottimista e oggi questa è decisamente la sua straordinarietà. Il lusso ha abbandonato le strade, le classi medie, il reality check e si è nascosto dentro inquietanti torri di gesso che all’inizio sembravano belle ma che si stanno sfaldando velocemente. Da Diesel invece la realtà risuonava chiara e non era nè musicale nè idilliaca. Esprimeva la coscienza della sparizione del senso, dell’allontanamento della moda dalla vita. Dovunque Glenn Martens vada, è necessario fare in modo che la sua voce rimanga forte e chiara per molti motivi tra cui uno fondamentale: ne abbiamo bisogno.

Le collezioni di Matthieu Blazy per Bottega Veneta non sono sempre facili da decodificare perché il linguaggio è stratif...
22/09/2024

Le collezioni di Matthieu Blazy per Bottega Veneta non sono sempre facili da decodificare perché il linguaggio è stratificato, involuto, profondo, pieno. In questa sfilata invece il messaggio era cristallino. C’è stato un momento tra la fine degli anni 70 e i primi anni 80 in cui la moda italiana ha creato un ponte culturale e di mercato con gli Stati Uniti, rielaborando lo sportswear americano e dando una concretezza di prodotto al power suiting. Giorgio Armani in particolare era l’emblema dell’uniforme lavorativa, elegante ma confortevole, e del weekend look, rilassato e lussuoso. Tutto senza loghi, tutto piuttosto understated. Bottega Veneta in quel periodo era il marchio di riferimento per chi voleva borse morbide, di altissima qualità, silenziose ma potenti. Non è un caso che i due marchi si incontrino in American Gi**lo, film del 1980 di Paul Schrader. Blazy è tornato ad esplorare quel periodo così contraddittorio ma creativamente esplosivo con lo spirito di un bambino che trova nell’armadio i vestiti dei genitori e gioca a indossarli. Non c’è giudizio, nè tentativo di rilettura ma, in un modo quasi dadaista, gli abiti perdono il loro pesante significato culturale e tornano ad essere un terreno di scoperta e sperimentazione. Questo non è un lavoro sul passato di Bottega Veneta ma sul suo futuro, è un modo meravigliosamente intelligente per fuggire dalla riproposizione fine a sè stessa, dalla nostalgia ma soprattutto dalla mancanza di idee. Matthieu Blazy è interessato a raccontare l’oggi, conoscendo perfettamente gli accadimenti di ieri ma senza interrogarli cercando risposte confortanti che non possono dare.

L’unica vera grande sorpresa di questa fashion week è stata la collezione di Bally, disegnata da Simone Bellotti. I moti...
22/09/2024

L’unica vera grande sorpresa di questa fashion week è stata la collezione di Bally, disegnata da Simone Bellotti. I motivi sono tanti. Il primo è che Simone è uno del mestiere. A 47 anni ha una lunga esperienza che va da Ferrè a Dolce & Gabbana a Gucci con Alessandro Michele ma che comincia, non troppo stranamente, con AF Vandervost ad Anversa. Esperienza è una parola che ogni tanto andrebbe pronunciata, oltre che usata. Il secondo motivo è che lavora su un marchio nato nel 1851 ma che in realtà non ha una storia, nel senso che nessuno ne ha mai decodificato e raccontato i confini culturali. Anche storia è una parola che andrebbe indagata più spesso. Infine Simone ha una visione, personale, poetica, precisa. Ama indagare un lasso di tempo tra gli anni 80 e 90 in cui si esprime una sorta di radicalismo nichilista in aperta critica all’ottimismo mainstream. I nomi da citare sono per primo Romeo Gigli, poi Helmut Lang, Jil Sander e di seguito tutti i giapponesi. Simone recupera lo spirito freddo, distaccato ma poetico di quei nomi e ci aggiunge un personale tratto di stranezza. C’è qualcosa di giocoso ma anche di terribile, di bambinesco ma anche horror. Un bambino in un film di Dario Argento. L’ultima parola infatti è visione personale, qualcosa che dirige tutti gli strumenti verso un comune ritmo sinfonico. Bellotti non è solo bravo è la ricetta contro il buio che ci circonda. Prendetene tutti nota.

Fra tutti i minimalismi del mondo quello di Matteo Tamburini per Tod’s sembra essere uno dei più credibili. Venuto su al...
21/09/2024

Fra tutti i minimalismi del mondo quello di Matteo Tamburini per Tod’s sembra essere uno dei più credibili. Venuto su alla corte di Bottega Veneta e chiamato a riempire il vuoto lasciato da Walter Chiapponi, Matteo sta giustamente lavorando sull’elevazione di un brand che fino a qualche anno fa non era un brand. Tod’s è nata da Filippo della Valle agli inizi del Novecento e negli anni ‘70, come molti brand italiani intelligenti, si è costruita una credibilità internazionale prima attraverso la qualità del prodotto e poi con i mitici mocassini morbidi con i gommini. Non ho trovato notizie sul perché si chiami Tod’s e questo la dice lunga su come certe esperienze italiane non avessero bisogno di farsi domande sulla propria storia e di come seguissero una direzione standard per arrivare al successo. Oggi queste domande bisogna farsele per forza e giustamente Diego della Valle ha iniziato un percorso fortemente identitario che sta posizionando il marchio tra i marchi. Matteo Tamburini arriva in un momento in cui Tod’s ha la credibilità per formulare contenuti nuovi e con questa collezione, che ha un’idea di design molto forte, ha acceso i motori. Rispetto ai minimalismi fine a sè stessi, qui c’è una cosa che si chiama autorialità. Magari in una forma non ancora completamente percepibile, ma c’è. Tod’s è un progetto solido. Forse è venuto il momento di applicare lo stesso modello agli altri marchi della casa, Hogan e Fay, che invece navigano ancora in acque oscure.

Non voglio mica la luna oltre ad essere il titolo di una canzone di Fiordaliso è anche una filosofia di vita. Nel testo ...
21/09/2024

Non voglio mica la luna oltre ad essere il titolo di una canzone di Fiordaliso è anche una filosofia di vita. Nel testo di Zucchero Fornaciari si parla di una donna che vuole starsene in disparte a sognare, in una baracca sul fiume perché con gli occhi pieni di vento non ci si accorge dov’è il sentimento. Quello è esattamente il posto che tutti stanno cercando in questo momento. Nel 1984, anno in cui Fiordaliso presenta la canzone a Sanremo, probabilmente il senso era di sottrarsi alla ricerca spasmodica della felicità, dell’amore assoluto, dei riflettori. Oggi, in una maniera allargata, potrebbe essere interpretato come la ricerca di un luogo in cui non ci sono pressioni, obiettivi, giudizi, scansioni continue del proprio lavoro attraverso una mediaticità esasperata. Sarò romantico ma per la prima volta in questa fashion week ho sentito l’urgenza di un messaggio, un monito verso l’implacabile sete di performance che hanno tutti, che abbiamo tutti. Sabato de Sarno sta velocemente diventando un glitch nel sistema semplicemente continuando a fare quello che vuole, nonostante il mondo gli dica che sarebbe meglio fare altro. La sua collezione per Gucci, la migliore da quando è alla guida del marchio, è l’espressione di una maturazione tranquilla e non affrettata verso qualcosa che forse non è ancora del tutto manifesto ma che ogni volta diventa sempre più interessante. Sono abiti sinceri e mettibili che non si sognano di dare lezioni di vita, di rileggere heritage complicati o semplicemente di aderire alle aspettative. Gucci è diventato un luogo in cui il cuore non batte perché si riposa, in cui gli occhi non vengono accecati e le orecchie non sanguinano per il frastuono inutile. È qualcosa di sorprendente potente pensare alla singolarità dell’oggetto invece che alle sovrastrutture che lo significano. È meravigliosamente anti narrativo e oggi questo è un pregio perché mi sembra chiaro che raggiungere sintesi del mondo non sia possibile. Quello che invece è possibile è trovare un momento per riscaldarsi la pelle, guardare le stelle e avere più tempo per sè. Semplicemente.

Raf Simons e Miuccia Prada hanno mescolato le carte in tavola producendo una collezione volutamente senza tema per confo...
20/09/2024

Raf Simons e Miuccia Prada hanno mescolato le carte in tavola producendo una collezione volutamente senza tema per confondere gli algoritmi dei social e impedire loro di farci finire in un imbuto di repliche visive. Nice try, direbbe Natasha Lyonne di Orange is The New Black. L’idea di non produrre senso in maniera cosciente in un momento storico in cui nessuno produce senso è interessante. È l’esatta fotografia della realtà, spaesata, senza direzione, affogata nei social. La questione però è che la realtà sta reagendo, si inventa modi neanche tanto sotterranei di sopravvivere, di trasformarsi senza adeguarsi. E lo fa non solo sui social ma anche al di fuori, in luoghi in cui esistono molte zone temporaneamente autonome, come le avrebbe definite Hakim Bey, che si rifiutano di accettare il falso, l’edulcorato, l’accondiscendente. In una parola, il mercato. Prada è stato per parecchio tempo una delle bandiere che, dall’interno del sistema, distribuiva dissenso in una forma neanche particolarmente piacevole, a volte addirittura nichilista. Ora invece segue il mercato, mette loghi ovunque e, come in questo caso, fa solo un lavoro di re-editing di cose di archivio. Lascerei la chiusa a Luigi Tenco. “Ragazzo mio, un giorno ti diranno che tuo padre/Aveva per la testa grandi idee/
Ma in fondo, poi non ha concluso niente/
Non devi credere, no, vogliono far di te/
Un uomo piccolo, una barca senza vela/
Ma tu non credere, no, perché appena s’alza il mare/Gli uomini senza idee, per primi vanno a fondo. “

Indirizzo

Milan
20124

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“Make it simple, but significant.” — Don Draper

Sono un creative strategist cioè mi occupo di strategie di brand nella moda seguendo prodotto, comunicazione e marketing, fondendo la parte creativa con quella economica e commerciale. Mi interessa tutto quello che è nuovo, mi interessa capirne i meccanismi e farli conoscere agli altri.

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