Andrea Batilla

Andrea Batilla Mi occupo di strategie di brand per moda e lusso. E scrivo libri, articoli e un sacco di post.

PIZZA is a paper biannual magazine and an online daily magazine about italian culture and style edited in italian and english and distributed worldwide.

Voci insistenti danno Galliano fuori da Margiela e Glenn Martens al suo posto. La scelta non sarebbe sbagliata e Martens...
22/09/2024

Voci insistenti danno Galliano fuori da Margiela e Glenn Martens al suo posto. La scelta non sarebbe sbagliata e Martens continuerebbe a stare in OTB con un ruolo forse più prestigioso e una libertà creativa maggiore. Questo però potrebbe vanificare lo straordinario lavoro che il designer belga sta facendo da Diesel, marchio che da lui è stato letteralmente reinventato. Sono sempre meno i progetti di rebranding che funzionano. Basta vedere il disastro di Maximilian Davis da Ferragamo. In questo caso invece Martens non solo è un perfect match per Diesel ma è anche riuscito ad aggiungere un piano narrativo che il brand non ha mai avuto. In questa collezione in particolare, una delle sue migliori, il tema era la distruzione e la conseguente rigenerazione. In senso letterale Glenn Martens ha accelerato una prospettiva sostenibile all’interno della produzione di denim che di per sé è una delle meno sostenibili al mondo. Ma lo ha fatto questa volta anche su un piano metaforico. Gli intensi cicli di stress che i capi della collezione hanno subito, insieme alle inquietanti lenti colorate dei modelli, rimandavano più che a un futuro distopico a un presente molto, molto malato in cui l’erosione delle ricchezze della terra è qualcosa che spesso si tende a dimenticare. I delavaggi eccessivi fino allo sfaldamento delle fibre non sembravano più ricordare la gozzovigliante atmosfera da primi anni 2000 ma un 2024 in cui non è facile trovare il giusto mezzo tra sviluppo e sopravvivenza. Il quadro dipinto da Martens è cupo anche se ottimista e oggi questa è decisamente la sua straordinarietà. Il lusso ha abbandonato le strade, le classi medie, il reality check e si è nascosto dentro inquietanti torri di gesso che all’inizio sembravano belle ma che si stanno sfaldando velocemente. Da Diesel invece la realtà risuonava chiara e non era nè musicale nè idilliaca. Esprimeva la coscienza della sparizione del senso, dell’allontanamento della moda dalla vita. Dovunque Glenn Martens vada, è necessario fare in modo che la sua voce rimanga forte e chiara per molti motivi tra cui uno fondamentale: ne abbiamo bisogno.

Le collezioni di Matthieu Blazy per Bottega Veneta non sono sempre facili da decodificare perché il linguaggio è stratif...
22/09/2024

Le collezioni di Matthieu Blazy per Bottega Veneta non sono sempre facili da decodificare perché il linguaggio è stratificato, involuto, profondo, pieno. In questa sfilata invece il messaggio era cristallino. C’è stato un momento tra la fine degli anni 70 e i primi anni 80 in cui la moda italiana ha creato un ponte culturale e di mercato con gli Stati Uniti, rielaborando lo sportswear americano e dando una concretezza di prodotto al power suiting. Giorgio Armani in particolare era l’emblema dell’uniforme lavorativa, elegante ma confortevole, e del weekend look, rilassato e lussuoso. Tutto senza loghi, tutto piuttosto understated. Bottega Veneta in quel periodo era il marchio di riferimento per chi voleva borse morbide, di altissima qualità, silenziose ma potenti. Non è un caso che i due marchi si incontrino in American Gi**lo, film del 1980 di Paul Schrader. Blazy è tornato ad esplorare quel periodo così contraddittorio ma creativamente esplosivo con lo spirito di un bambino che trova nell’armadio i vestiti dei genitori e gioca a indossarli. Non c’è giudizio, nè tentativo di rilettura ma, in un modo quasi dadaista, gli abiti perdono il loro pesante significato culturale e tornano ad essere un terreno di scoperta e sperimentazione. Questo non è un lavoro sul passato di Bottega Veneta ma sul suo futuro, è un modo meravigliosamente intelligente per fuggire dalla riproposizione fine a sè stessa, dalla nostalgia ma soprattutto dalla mancanza di idee. Matthieu Blazy è interessato a raccontare l’oggi, conoscendo perfettamente gli accadimenti di ieri ma senza interrogarli cercando risposte confortanti che non possono dare.

L’unica vera grande sorpresa di questa fashion week è stata la collezione di Bally, disegnata da Simone Bellotti. I moti...
22/09/2024

L’unica vera grande sorpresa di questa fashion week è stata la collezione di Bally, disegnata da Simone Bellotti. I motivi sono tanti. Il primo è che Simone è uno del mestiere. A 47 anni ha una lunga esperienza che va da Ferrè a Dolce & Gabbana a Gucci con Alessandro Michele ma che comincia, non troppo stranamente, con AF Vandervost ad Anversa. Esperienza è una parola che ogni tanto andrebbe pronunciata, oltre che usata. Il secondo motivo è che lavora su un marchio nato nel 1851 ma che in realtà non ha una storia, nel senso che nessuno ne ha mai decodificato e raccontato i confini culturali. Anche storia è una parola che andrebbe indagata più spesso. Infine Simone ha una visione, personale, poetica, precisa. Ama indagare un lasso di tempo tra gli anni 80 e 90 in cui si esprime una sorta di radicalismo nichilista in aperta critica all’ottimismo mainstream. I nomi da citare sono per primo Romeo Gigli, poi Helmut Lang, Jil Sander e di seguito tutti i giapponesi. Simone recupera lo spirito freddo, distaccato ma poetico di quei nomi e ci aggiunge un personale tratto di stranezza. C’è qualcosa di giocoso ma anche di terribile, di bambinesco ma anche horror. Un bambino in un film di Dario Argento. L’ultima parola infatti è visione personale, qualcosa che dirige tutti gli strumenti verso un comune ritmo sinfonico. Bellotti non è solo bravo è la ricetta contro il buio che ci circonda. Prendetene tutti nota.

Fra tutti i minimalismi del mondo quello di Matteo Tamburini per Tod’s sembra essere uno dei più credibili. Venuto su al...
21/09/2024

Fra tutti i minimalismi del mondo quello di Matteo Tamburini per Tod’s sembra essere uno dei più credibili. Venuto su alla corte di Bottega Veneta e chiamato a riempire il vuoto lasciato da Walter Chiapponi, Matteo sta giustamente lavorando sull’elevazione di un brand che fino a qualche anno fa non era un brand. Tod’s è nata da Filippo della Valle agli inizi del Novecento e negli anni ‘70, come molti brand italiani intelligenti, si è costruita una credibilità internazionale prima attraverso la qualità del prodotto e poi con i mitici mocassini morbidi con i gommini. Non ho trovato notizie sul perché si chiami Tod’s e questo la dice lunga su come certe esperienze italiane non avessero bisogno di farsi domande sulla propria storia e di come seguissero una direzione standard per arrivare al successo. Oggi queste domande bisogna farsele per forza e giustamente Diego della Valle ha iniziato un percorso fortemente identitario che sta posizionando il marchio tra i marchi. Matteo Tamburini arriva in un momento in cui Tod’s ha la credibilità per formulare contenuti nuovi e con questa collezione, che ha un’idea di design molto forte, ha acceso i motori. Rispetto ai minimalismi fine a sè stessi, qui c’è una cosa che si chiama autorialità. Magari in una forma non ancora completamente percepibile, ma c’è. Tod’s è un progetto solido. Forse è venuto il momento di applicare lo stesso modello agli altri marchi della casa, Hogan e Fay, che invece navigano ancora in acque oscure.

Non voglio mica la luna oltre ad essere il titolo di una canzone di Fiordaliso è anche una filosofia di vita. Nel testo ...
21/09/2024

Non voglio mica la luna oltre ad essere il titolo di una canzone di Fiordaliso è anche una filosofia di vita. Nel testo di Zucchero Fornaciari si parla di una donna che vuole starsene in disparte a sognare, in una baracca sul fiume perché con gli occhi pieni di vento non ci si accorge dov’è il sentimento. Quello è esattamente il posto che tutti stanno cercando in questo momento. Nel 1984, anno in cui Fiordaliso presenta la canzone a Sanremo, probabilmente il senso era di sottrarsi alla ricerca spasmodica della felicità, dell’amore assoluto, dei riflettori. Oggi, in una maniera allargata, potrebbe essere interpretato come la ricerca di un luogo in cui non ci sono pressioni, obiettivi, giudizi, scansioni continue del proprio lavoro attraverso una mediaticità esasperata. Sarò romantico ma per la prima volta in questa fashion week ho sentito l’urgenza di un messaggio, un monito verso l’implacabile sete di performance che hanno tutti, che abbiamo tutti. Sabato de Sarno sta velocemente diventando un glitch nel sistema semplicemente continuando a fare quello che vuole, nonostante il mondo gli dica che sarebbe meglio fare altro. La sua collezione per Gucci, la migliore da quando è alla guida del marchio, è l’espressione di una maturazione tranquilla e non affrettata verso qualcosa che forse non è ancora del tutto manifesto ma che ogni volta diventa sempre più interessante. Sono abiti sinceri e mettibili che non si sognano di dare lezioni di vita, di rileggere heritage complicati o semplicemente di aderire alle aspettative. Gucci è diventato un luogo in cui il cuore non batte perché si riposa, in cui gli occhi non vengono accecati e le orecchie non sanguinano per il frastuono inutile. È qualcosa di sorprendente potente pensare alla singolarità dell’oggetto invece che alle sovrastrutture che lo significano. È meravigliosamente anti narrativo e oggi questo è un pregio perché mi sembra chiaro che raggiungere sintesi del mondo non sia possibile. Quello che invece è possibile è trovare un momento per riscaldarsi la pelle, guardare le stelle e avere più tempo per sè. Semplicemente.

Raf Simons e Miuccia Prada hanno mescolato le carte in tavola producendo una collezione volutamente senza tema per confo...
20/09/2024

Raf Simons e Miuccia Prada hanno mescolato le carte in tavola producendo una collezione volutamente senza tema per confondere gli algoritmi dei social e impedire loro di farci finire in un imbuto di repliche visive. Nice try, direbbe Natasha Lyonne di Orange is The New Black. L’idea di non produrre senso in maniera cosciente in un momento storico in cui nessuno produce senso è interessante. È l’esatta fotografia della realtà, spaesata, senza direzione, affogata nei social. La questione però è che la realtà sta reagendo, si inventa modi neanche tanto sotterranei di sopravvivere, di trasformarsi senza adeguarsi. E lo fa non solo sui social ma anche al di fuori, in luoghi in cui esistono molte zone temporaneamente autonome, come le avrebbe definite Hakim Bey, che si rifiutano di accettare il falso, l’edulcorato, l’accondiscendente. In una parola, il mercato. Prada è stato per parecchio tempo una delle bandiere che, dall’interno del sistema, distribuiva dissenso in una forma neanche particolarmente piacevole, a volte addirittura nichilista. Ora invece segue il mercato, mette loghi ovunque e, come in questo caso, fa solo un lavoro di re-editing di cose di archivio. Lascerei la chiusa a Luigi Tenco. “Ragazzo mio, un giorno ti diranno che tuo padre/Aveva per la testa grandi idee/
Ma in fondo, poi non ha concluso niente/
Non devi credere, no, vogliono far di te/
Un uomo piccolo, una barca senza vela/
Ma tu non credere, no, perché appena s’alza il mare/Gli uomini senza idee, per primi vanno a fondo. “

Il problema di tradurre l’eredità monolitica di Franco Moschino in un linguaggio comprensibile a chi non lo ha vissuto e...
20/09/2024

Il problema di tradurre l’eredità monolitica di Franco Moschino in un linguaggio comprensibile a chi non lo ha vissuto e non lo conosce è gigantesco. Il lavoro di Franco era una critica aperta al consumismo degli anni ‘80 e la sua morte prematura nel 1994 non gli ha permesso di rivolgere lo sguardo verso un decennio che aveva istanze molto diverse. Forse piu complesse. Oggi siamo nuovamente in un momento in cui sarebbe interessante formulare un pensiero critico verso un mondo, quello della moda, completamente ripiegato su sè stesso e incapace di ascoltare gli stimoli sociali. Il lavoro che Adrian Appiolaza sta facendo per Moschino non va però in quella direzione. Il mondo simbolico del fondatore del brand c’è tutto ma non viene riattivato con lo sguardo ferocemente ironico che gli era proprio. I segni distintivi vengono ripresentati, editati, semplificati e nuovamente circolati. In questo modo nessuno capirà mai che TUBINO OR NOT TUBINO non era solo uno slogan divertente ma una critica alla milanesità corrotta e obsoleta, al suo sistema di potere soffocante, ai suoi valori senescenti e in stato di putrefazione già negli anni ‘80. Oggi ci sono contraddizioni altrettanto forti nella società ma farne una critica sembra irrealistico, difficile, probabile causa di mega sh*tstorm sui social. Quindi anche Appiolaza ha scelto di fare bei vestiti, di presentare una collezione coerente ma che non aggiunge niente a quello che già sappiamo e che, come del resto tutto quello che abbiamo visto fino ad ora, ci tiene a debita distanza da sentimenti che evidentemente non siamo in grado di gestire: rabbia, dolore, frustrazione. Fashion is dead diceva Franco. E forse aveva ragione.

Chi non lavora a stretto contatto con il mercato non si può rendere conto come questo periodo sia devastante, fuori e de...
19/09/2024

Chi non lavora a stretto contatto con il mercato non si può rendere conto come questo periodo sia devastante, fuori e dentro la moda. Gli ordini sono scesi, le vendite drasticamente diminuite, il clima generale è di terrore, il futuro non è mai stato così incerto. Gli ex mercati di riferimento asiatici sono, appunto, ex mercati di riferimento. Poi ci sono due guerre in corso, come se il resto non bastasse. Ogni giorno un progetto viene ridotto, un brand chiude, persone vengono licenziate e altre non trovano lavoro. Personalmente è uno dei momenti più sconfortanti che io ricordi. La lotta più dura la sostengono i marchi indipendenti, quelli che non hanno alle spalle investitori, amiche celebrity, che cercano di dire cose intelligenti nonostante il mondo abbia voglia di chiudersi in un armadio con le orecchie tappate. Marco Rambaldi è uno di questi. Sta attaccato alla sua voglia di raccontare una vita diversa, fatta di accoglienza, amore, famiglie allargate e buone cose, senza deviare un centimetro. Non ascolta le sirene e tira dritto, rendendo il suo linguaggio più sicuro e sofisticato e la sua maglieria sempre più bella. Il perché Marco non abbia una direzione creativa importante è un mistero che non so se ho voglia di approfondire. Quello che voglio dire invece è che in Italia esistono dei tesori che raccontano cose di noi, italiani, difficili da ascoltare. Magari più dolorose o solo più profonde ma di certo interessanti. Questi tesori vanno iniettati nel sistema, come si fa con un vaccino. Da dentro potranno sanare, rinnovare, ricostruire, migliorare. In una parola, rigenerare.

Non è una notizia il fatto che da Alessandro dell’Acqua aka N21 ci si senta a casa. Non è una notizia che non si respiri...
19/09/2024

Non è una notizia il fatto che da Alessandro dell’Acqua aka N21 ci si senta a casa. Non è una notizia che non si respiri ansia, concitazione, attesa spasmodica. Non è neanche una notizia il fatto che dopo tantissimo tempo lo stile di Alessandro rimanga fermo e solido e non cambi a seconda del vento. La notizia è che questa volta, dopo aver percepito durante la prima giornata di sfilate un netto distacco tra la moda e la realtà, qui c’era della verità. L’idea di dell’Acqua è sempre stata quella di non problematizzare troppo il suo lavoro, di stare vicino al prodotto, di essere riconoscente verso chi lo compra. In un momento storico come non se ne sono mai visti, N21 risuona come qualcosa di autentico, con radici profonde in un’estetica anni 90 che sono rassicuranti ma mai noiose. Il Made in Italy è nato negli anni ‘70 come una risposta concreta alla moda parigina che pensava solo a party e yacht mentre nelle strade si sparava, si manifestava, si moriva. Da queste parti quello spirito c’è ancora, ancorato a una riva sicura, senza correre il rischio di sparire in un gorgo in 6 minuti. Sono vestiti che rispondo al quesito di essere indossati, non di essere pensati e questo, oggi, è rivoluzionario. Ogni oggetto ha uno scopo, un fine, un’occasione d’uso, come si diceva una volta. La tempesta che c’è fuori, in parte vera, in parte immaginata, non ce l’ha fatta a irrompere dentro l’ex garage di N21. È rimasta fuori, portandosi via i detriti di chi pensa che per affrontare i marosi ci vogliano imbarcazioni miliardarie. A volte, invece, basta una barchetta di carta, di quelle fatte con ingenuità dai bambini, leggere, poetiche, romantiche. Belle.

Francesco Risso ha creato intorno a Marni una coolness di livello internazionale che rende le sue sfilate uno degli hot ...
18/09/2024

Francesco Risso ha creato intorno a Marni una coolness di livello internazionale che rende le sue sfilate uno degli hot ticket di Milano. Lo ha fatto costruendo un mondo in cui la creatività sembra respirare libera e in tempi come questi non è cosa da poco. Negli ultimi tempi però il prodotto, cioè gli abiti, si sono avvicinati sempre di più a un linguaggio convenzionale, con un forte impianto borghese, area culturale ed estetica da cui aveva sempre cercato di tenersi lontano. Il setting della sfilata era disarticolato, le sedie avevano un ordine sparso, alcune delle quali (compresa la mia) non favorivano la visione. Questo ha probabilmente portato i presenti, nell‘ora di attesa che iniziasse la sfilata, ad aspettarsi un contenuto altrettanto difforme dalle convenzioni. Nel guardare fisso la cabina di regia in cui i tecnici sono passati dalla noia alla sovreccitazione, pensavo che sarebbe successo qualcosa di sconvolgente. Sono arrivato anche a fare un’associazione con Cafè Muller di Pina Bausch. Invece la sfilata, tutta realizzata in popeline di cotone, sembrava un inno ai floral primaverili così amati da Anna Wintour e per quanto immagino che l’obiettivo fosse di raccontarli in maniera ossessiva e quindi critica, il risultato sono stati dei bei vestiti da pomeriggio in campagna o da sera in città. Che Risso cerchi una dimensione più commerciale e forse anche più vicina alle sue esperienze da Prada ha senso. Quello che sembra essere più difficile da capire è il percorso che da couture indie low_fi è arrivato a couture hi-fi in brevissimo tempo. Qui la questione è che c’è bisogno di chiarezza rispetto al punto di vista: abbiamo uno spirito indipendente che resiste al sistema o del sistema ci sentiamo parte e magari lo critichiamo da dentro? E anche, se decidiamo di percorrere la strada tracciata da Miuccia siamo certi di avere la sua carica distruttiva? Credo che Risso dovrà rispondere a queste domande nelle prossime sfilate che, peraltro, tutti noi speriamo inizino in orario.

Per un breve periodo Silvia Fendi è stata direttrice creativa del Womenswear di Fendi. Per la SS 21 ha disegnato una col...
18/09/2024

Per un breve periodo Silvia Fendi è stata direttrice creativa del Womenswear di Fendi. Per la SS 21 ha disegnato una collezione che parlava della sua infanzia, dei suoi ricordi tutti al femminile e anche della nonna Adele, fondatrice nel 1925 del marchio. In quest’ultima sfilata disegnata da Kim Jones la colonna sonora erano le voci di Silvia e di sua madre Anna che parlavano di Adele, una donna eccezionale, capostipite di un’altrettanto eccezionale forma di matriarcato. Ascoltarle tuffava dentro una dimensione fortemente emotiva, riconnetteva con un grado di sincerità profondo che forse la moda ha perso. Ma al contrario della splendida collezione di Silvia che teneva sotto controllo il lato emotivo e lo faceva riverberare, quella di Kim Jones era glaciale, forse la più glaciale di tutti. Si sentiva un senso di disconnessione così profondo da essere sconfortante, come se la storia profonda e femminile del marchio non fosse mai esistita. Fendi è un marchio romano, elegante, caldo, giocoso e, decisamente, emotivo. Il fatto che non ci fosse traccia di tutto questo, oltre alll’inadeguatezza di Kim Jones, ormai evidente a tutti, pone un problema di direzione che LVMH non sta riuscendo a risolvere. In questo caso la risposta sta nella storia del marchio la cui rifondazione deve passare per forza attraverso la sua riscoperta, il suo archivio, le donne che lo hanno reso potente, la loro unicità. Le voci che possono raccontarla ci sono. Le abbiamo sentite tutti durante la sfilata. Forse è il caso di fermarsi e darsi il tempo di ascoltarle.

Ormai non è più raro vedere cadere un brand a pezzi, come sta succedendo con Burberry. Chi pensa che Daniel Lee sia l’un...
18/09/2024

Ormai non è più raro vedere cadere un brand a pezzi, come sta succedendo con Burberry. Chi pensa che Daniel Lee sia l’unico responsabile forse non si ricorda quello che ha fatto da Bottega Veneta, riportando il marchio al centro della moda. In questo caso deve trattarsi di un insieme di fattori talmente ingarbugliato che chi sta dentro probabilmente si sente in un labirinto senza uscita e senza luce. Come quello di Shining. Il problema di questo momento storico è che ha portato ad una fortissima contrazione della spesa e che sta creando caos, panico e confusione perché, come in tutte le crisi, le regole di prima non funzionano più. Soprattutto non funzionano più i progetti monolitici fondati su una simbologia rigida e stretta come Burberry che dalla sua fondazione nel 1856 non è mai riuscito a spaccare il marchio, aprendolo a nuovi significati. È probabile che oggi a nessuno interessi molto della vita campestre inglese e sempre meno di un check beige ma a molti potrebbe invece piacere una seria riflessione sullo sportswear tecnico che Burberry avrebbe il titolo di fare. Ma il monolitismo rifiuta la duttilità e così nel frattempo il marchio si sta sfaldando, per non dire sfasciando, come una vecchia carcassa di auto lasciata a morire al bordo di una strada periferica. Se questo fosse solo un problema di Burberry potremmo anche soprassedere ma in qualunque direzione ci giriamo incontriamo navi incagliate nella nebbia. Per fare risorgere un marchio non è necessario passare attraverso la morte. Basta farlo riposare, ascoltarlo e portarlo magari in posti dove non è mai stato.

W***y Chavarria è una delle poche cose che hanno senso di esistere della New York Fashion Week. 57 anni, senior vice pre...
15/09/2024

W***y Chavarria è una delle poche cose che hanno senso di esistere della New York Fashion Week. 57 anni, senior vice president of design di Calvin Klein, Menswear Designer of the Year nel 2023, Chavarria ha riportato streetwear e q***rness nel posto in cui dovrebbero stare: quello della critica politica. Di padre messicano e madre irlandese, W***y non viene da un ambiente disagiato ma lo conosce e ne parla nelle sue collezioni come se fosse per lui l’unica cosa possibile. In particolare si concentra sui conflitti che all’interno della società americana derivano dal gigantesco divario tra la classe operaia, quasi sempre formata da emigrati, e quella borghese. Questa continua tensione ha una sua realizzazione fisica esplosiva ai confini tra Stati Uniti e Messico, una frontiera sempre più violenta e politicizzata che costringe gli americani a un confronto quotidiano con verità tremende e di fatto irrisolvibili. Nell’estetica di Chavarria ci sono le uniformi di chi pulisce, spazza, costruisce, disinfetta, lima, avvita, incastra, intonaca. È una fotografia di ciò che è marginale, non bianco, non ricco, non potente. Ma include anche il mondo q***r che di questo quadro ha rovesciato le valenze, lo ha interpretato, risolto esteticamente in qualcosa di compiuto e di decisamente potente. È un’operazione che per un europeo risulta impensabile. L’elevazione culturale di una minoranza attraverso un’altra minoranza. Chavarria non racconta un rapporto di forza sbilanciato verso la sottomissione. La sua è una rivendicazione risolta, raccontata con un linguaggio tecnicamente ineccepibile, in un idioma che i conquistatori possono e devono capire. Qui è quando la moda riesce a fare politica in maniera attiva, senza usare slogan, ma mantenendosi all’interno dei confini estetici che sono gli unici che le competono.

La notizia del giorno è che Sarah Burton, ex direttrice creativa di McQueen, è la nuova direttrice creativa di Givenchy....
09/09/2024

La notizia del giorno è che Sarah Burton, ex direttrice creativa di McQueen, è la nuova direttrice creativa di Givenchy. In una mossa piuttosto conservativa, il gruppo LVMH tenta l’apparentemente facile strada di trasformare Givenchy in un tranquillo marchio di vestiti da cocktail e da sposa. La notizia infatti di per sé non ha nessuna rilevanza: è molto facile immaginare quello che Sarah Burton farà. Il suo sarà un onesto lavoro rivolto a ricche signore di Manhattan con la solita villa negli Hamptons o al limite a ricche signore di Boston con la villa a Nuntacket (vedi Nicole Kidman in The Perfect Couple). La riflessione da fare è che Givenchy, dopo 12 anni di cura Tisci, è un marchio aperto cioè contiene in sé le origini couture della sua esistenza ma anche la capacità di attaccarsi fortemente al contemporaneo. Rompere un marchio è una cosa sana. Essere irrispettosi del suo passato, se fatto in maniera intelligente, è l’unico modo per farlo sopravvivere. Il risultato è un brand più malleabile, meno chiuso, più in dialogo con il presente. Anche se questo tipo di scelte comportano dei rischi (vedi l’incertezza di McGirr da McQueen), oggi sono l’unica via per riattivare l’interesse dei clienti finali che preferiscono farsi un viaggio piuttosto che comprarsi un paio di scarpe uguali a diecimila altre. Pensateci. Questo gioco delle musical chairs dei ricchi e famosi ha stufato. Rivogliamo chi stenta a sopravvivere ma ucciderebbe per dire qualcosa di sincero.

Abbandonare ogni paura e sentirsi liberi è una sensazione che ogni essere umano dovrebbe provare almeno una volta nella ...
07/09/2024

Abbandonare ogni paura e sentirsi liberi è una sensazione che ogni essere umano dovrebbe provare almeno una volta nella vita. Trovarsi di fronte a un gigante, a qualcosa di enormemente pericoloso e guardarlo fisso negli occhi senza il minimo timore, senza tremare, ascoltando i muscoli rilassati. È così che si è sentito Pieter Mulier, finalmente, non davanti all’immensità del Guggenheim di New York o ai riferimenti alla moda americana che ha scelto di usare ma di fronte al lascito di Azzedine Alaïa. Questa sfilata ha sfalciato via definitivamente ogni ansia da prestazione e tutte le paure generate da un’eredità così mastodontica. Mulier si è sentito leggero e ha alleggerito. Gli abiti si muovevano senza corpo, quasi senza forma, raggiungendo l’opposto dell’approccio scultoreo di Azedine, a volte quasi negandolo. Quello che è però rimasto centrale è il senso ossessivo della bellezza compiuta, della costruzione di un paesaggio senza errori, senza pericoli. Il desiderio e la seduzione con Mulier si sono rarefatti, adeguati ai tempi. Non sono più armi di attacco nè di difesa ma constatazioni di fatto, riconoscimento dello scorrere libero della consapevolezza di brillare. E infatti brillavano le donne che hanno sfilato per Alaïa, illuminando un luogo anch’esso costruito per non essere gelido e ieratico. Un luogo circolare, spiraliforme, che sale verso l’alto, l’infinito. Un posto in cui, ne sono certo, Pieter Mulier si è sentito a casa.

Su Spotify trovate un’intervista che Alexander Fury, critico di moda inglese che scrive per il Financial Times, ha fatto...
18/07/2024

Su Spotify trovate un’intervista che Alexander Fury, critico di moda inglese che scrive per il Financial Times, ha fatto a Raf Simons qualche anno fa all’interno dei Flanders DC Talks. Pur sostenendo il valore fondamentale dell’indipendenza e le costrizioni in cui i mega gruppi spingono i direttori creativi, Raf non riesce a descrivere una possibile via di riappropriazione del pensiero autoriale nella moda. Nè lascia prevedere che, contrariamente a quello che dice, da lì a poco deciderà di chiudere il suo brand. Il problema dei problemi oggi è esattamente questo. Quanto vale l’indipendenza? È ancora un valore perseguibile e se sì, come? La base del pensiero indipendente non è qualcosa con cui si nasce ma un modo di agire che si impara. Per quanto esista una perdurante visione romantica fatta di atti di ribellione, di necessità di auto espressione o di una irrealizzabile voglia di cambiare il mondo, il contrario del pensiero unico è qualcosa che si apprende. A scuola, in famiglia, in viaggio, nei libri o nella musica il territorio della consapevolezza viene forgiato e rimane tale nel tempo solo se è passato attraverso modelli di riferimento solidi. Solo se si capisce che è possibile. I padri e le madri che dovrebbero assumersi questo compito difficile nella moda sono sempre meno. E chiudere un marchio che ha significato esattamente quello per decenni non aiuta di certo. I luoghi, gli eventi, gli oggetti che dovrebbero illuminare il cammino delle nuove generazioni cadono a pezzi di fronte a scuole sempre più care, a mentori sempre più muti e a investitori sempre più ciechi. Il terreno della resistenza, quando esiste, sta dentro i brand, invece che fuori. Per questo un mito vivente come Raf Simons ma con lui Margiela, Dries, Galliano, Helmut Lang e molti altri, invece di passare estati quiete in sperdute località turistiche di lusso dovrebbero rimettersi in gioco. Non per fare vestiti ma per insegnare a pensare. Per regalare il dono della possibilità. Come dovrebbero fare tutti i padri e le madri del mondo che devono ai figli molto più di un letto e una cena: hanno la responsabilità insegnare loro che sentire e vedere con i propri occhi non è un dono. È una lezione

C’è aria di sconfitta da Burberry, come in molti avevano previsto. Il duo Jonathan Akeroyd/Daniel Lee non funziona. Il C...
17/07/2024

C’è aria di sconfitta da Burberry, come in molti avevano previsto. Il duo Jonathan Akeroyd/Daniel Lee non funziona. Il CEO è già stato sostituito e la poltrona di Lee sembra traballante. Da fuori sembra uno dei tanti casi di progetti disastrosi in mano alle persone sbagliate. Anche Ferragamo sta in questo nutrito gruppo. La questione però è che entrambi singolarmente avevano fatto molto bene, uno da Versace e uno da Bottega Veneta mentre insieme non sono riusciti a portare Burberry verso il segmento del super lusso a cui tutti aspirano. Forse la responsabilità non è del tutto loro ma dell’idea che un marchio noto per sole due cose, trench coat e tartan, possa raccogliere la profondità necessaria per essere credibile nel segmento più competitivo del mercato. Durante la sua lunga storia nessuno da Burberry ha seriamente lavorato a espandere il linguaggio del marchio ma sono tutti più o meno caduti nella trappola della rivisitazione dei codici esistenti. Bisogna scrollare veramente tanto sul sito del brand per trovare oggetti che non abbiano il tartan da qualche parte. Questa da una parte è una facile via di successo commerciale ma dall’altra è una condanna alla ripetitività a cui si sono abituati non solo i clienti ma, temo, l’azienda stessa. Quando non hai nessuna tridimensionalità e sei solo una cosa, il tuo cammino è tracciato. I tuoi orizzonti sono ristretti. La tua vita è segnata. È impossibile sfuggire da una narrazione monotematica, molto di più che da un’assenza di narrazione. Per qualche strano motivo nessuno ha mai pensato che Burberry è un marchio di outerwear, non di abiti da sera e che il concetto stesso di outerwear è stato inventato dagli inglesi nell’800. Basterebbe questo per aprire immense praterie di riferimenti storici e culturali ma si è preferito lavorare su una vaga idea di lifestyle tranquillizzante che nessuno ha mai capito veramente. Quasi sempre la risposta su chi siamo sta nella domanda da dove veniamo. Siamo nati in un posto, in un tempo, da delle persone. Con questo tutti marchi dovrebbero fare pace invece di inventarsi inesistenti narrazioni famigliari per riempire il gigantesco territorio della paura dell’unicità.

Indirizzo

Milan
20124

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“Make it simple, but significant.” — Don Draper

Sono un creative strategist cioè mi occupo di strategie di brand nella moda seguendo prodotto, comunicazione e marketing, fondendo la parte creativa con quella economica e commerciale. Mi interessa tutto quello che è nuovo, mi interessa capirne i meccanismi e farli conoscere agli altri.

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