29/09/2022
Elezioni politiche - la parola ai Consiglieri
Il commento di Francesca Niro
Come ampiamente previsto, con la tornata elettorale appena conclusa gli elettori hanno scelto di dare fiducia alla coalizione di Destra, identificata soprattutto con Giorgia Meloni ed il suo partito, Fratelli d’Italia.
Questo risultato elettorale va ad inserirsi in un quadro politico continentale caratterizzato da un forte spostamento a Destra (vedi Svezia e Regno Unito), che trova le sue cause nel bisogno dei cittadini ad avere risposte immediate al disagio diffuso unito ad una tempesta perfetta per cui alla feroce inflazione e perdita del potere d’acquisto, legata alle conseguenze degli anni della pandemia, si è aggiunta la crisi energetica e quindi economica provocata dal conflitto russo-ucraino, una contingenza che alimenta fenomeni di microdelinquenza, particolarmente accentuati nei grandi centri urbani, e la insofferenza verso gli immigrati presenti sul territorio che sono avvertiti come una ulteriore esasperante minaccia.
In questo quadro nefasto gli elettori italiani hanno scelto di dare fiducia a chi ha offerto loro soluzioni chiare, indipendentemente se realizzabili o meno.
C’è da chiedersi perché gli italiani abbiano scelto di affidare le proprie istanze alla Destra, che oramai non è neanche più “centro - destra”.
Come sagacemente sosteneva l’altro giorno sul suo blog Enrico Sola, comunicatore ed ex attivista del PD, la domanda è interessante, perché la storia politica, dal Dopoguerra a oggi, ha un solo dato costante: quando governa la destra, aumenta l’ingiustizia sociale, i poveri diventano più poveri e i ricchi diventano più ricchi (vedi flat tax, rifiuto del salario minimo, abolizione del reddito di cittadinanza, etc...) e diminuiscono le possibilità per i poveri di progredire sul piano economico-sociale. Quindi, chi vota la destra italiana si aspetta che faccia il contrario di quello che ha sempre fatto (e che, per altro, non è nota per fare in generale, anche fuori dall’Italia)? Probabilmente sì. Non è credibile, d’altronde, che il voto alla Meloni e ai suoi alleati sia espressione solo dei ceti più abbienti che si potrebbero sentire più tutelati nei loro interessi né è pensabile che all’improvviso la maggioranza degli elettori recatisi alle urne domenica scorsa e che hanno scelto la destra lo abbiano fatto perché tutti ultraconservatori e contrari alle conquiste di diritti civili ormai consolidati e degni di un paese moderno e civile.
Se è vero che gli elettori italiani hanno premiato la Meloni per averne apprezzato la coerenza e fermezza nel rimanere, pur sola, all’opposizione della grande coalizione che ha sostenuto il governo Draghi, avvertito come un “governo dei migliori” ma distante dalle “persone normali”, il voto alla Meloni può sembrare un voto di protesta più che ideologico.
Gli elettori probabilmente rimarranno delusi dalle notizie di questi giorni che ci riportano la futura premier in costante contatto proprio con Mario Draghi per la stesura della prossima legge di bilancio che è il documento programmatico di un governo e questo deve farci riflettere sulla portata determinante che ha oramai la comunicazione in politica, di cui è – purtroppo – diventata l’essenza.
Meloni ha comunicato la propria alterità rispetto ad un Governo con il quale si appresta ad essere invece in continuità, perché – diciamoci la verità - le cose da fare, nel contesto drammatico in cui siamo, sono note e, direi, in gran parte obbligate.
Quindi la seconda domanda da farsi è perché la gente non vota più a sinistra. È una domanda che richiede di essere onesti e quasi spietati con se stessi.
Il centro-sinistra ha pagato in termini elettorali il convinto sostegno al governo Draghi e tutti i politologi s’interrogano sul motivo.
Ma non solo.
L’analisi dei voti ci dice che a votare la destra di Fratelli d’Italia ormai sono gli operai e gli insegnanti, il vecchio popolo di sinistra, che si tiene lontano dal maggior partito di centro-sinistra che è ormai avvertito come espressione della ricca borghesia (“i comunisti con il rolex”, come vengono spesso definiti dai loro avversari politici), scollato dalla realtà e dalle vere priorità dei cittadini.
Uno degli errori più recenti, a parere di molti e anche mio, commesso da un centro-sinistra in crisi d’identità e, in particolare dal PD, è aver voluto appiattirsi sui temi e sulle rivendicazioni, per molti versi populiste più che popolari, del Movimento 5 stelle, abbandonando quella strada delle riforme e dello sviluppo del mercato del lavoro che pure aveva intrapreso e di cui il Paese avrebbe tanto bisogno per dare risposte durature e strutturali ai bisogni della gente.
Invece di replicare alle ricette semplicistiche del Movimento 5 stelle, soprattutto a guida Giuseppe Conte, il PD ha lasciato che il Movimento intercettasse le esigenze di una vasta fetta dell’elettorato storico della sinistra, soprattutto nel Mezzogiorno, tanto da aver fatto parlare gli analisti politici di una sorta di Lega Sud.
Anche nel dopo voto stiamo assistendo ad uno stentato dibattito che non verte sui contenuti ma sui nomi di una nuova segreteria, rinnovamento di facciata offerto come soluzione per fronteggiare la crisi del PD.
Ma poiché la crisi del PD è crisi di identità, per avvicinare l’elettore e riconquistarne la fiducia non basterà cambiare un segretario nazionale o studiare le alleanze più convenienti per riuscire comunque in qualche modo a governare né basta fare più o meno tessere o qualunque altro superficiale maquillage con candidati di bell’aspetto sacrificati sull’altare di una legge elettorale che non li farà mai eleggere ma occorrerebbe che la sinistra ed il suo maggior partito si guardassero allo specchio e si chiedessero lealmente cosa vogliono essere e dove vogliono andare e soprattutto dove vogliono portare i tanti italiani che ancora si riconoscono nei suoi valori, come intendono affrontare le sfide di oggi e soprattutto di domani, come affrontare gli atavici problemi del Paese.
Infine, ma non ultimo per importanza, mi vorrei soffermare su quello che è stato chiamato il partito dell’astensione, che testimonia un’allarmante sfiducia di molti cittadini verso la politica e le istituzioni ed il segnale più preoccupante che i partiti dovrebbero cogliere è che tra quelli rimasti lontani dal voto una significativa percentuale è costituita da giovani tra i 18 e i 24 anni (su questo dato influisce forse anche il fatto che l’Italia è l’unico Paese europeo che non garantisce il diritto di voto a distanza ai fuori sede?).
Se una percentuale di astensione è fisiologica di una democrazia sana, quando le percentuali superano una certa soglia, occorre interrogarsi del perché i cittadini non si occupino di scegliere chi deve decidere della loro vita, del loro futuro.
È certamente una questione di identità, di credibilità ed è credibile solo chi ha le idee chiare, o almeno è capace di dare questa impressione, Meloni docet.