Un'ala per volare

Un'ala per volare Un raccoglitore di scritti, racconti, poesie, saggi degli autori di A.L.A., Associazione Liberi Autori
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25/04/2024

Bottiglie di vetro. Sottotitolo: il vetro delle bottiglie. (Vuote, s’intende).

Come quel Valpolicella del ‘19. Una cosa da non dire: una bottiglia che, purtroppo, non facemmo a tempo a stappare che già era vuota.
Allegria, allegria! Quella stessa allegria necessaria poi per portare la bottiglia vuota alla cosiddetta “campana” che sta in piazza per il cosiddetto recupero del vetro o riciclaggio che dir si voglia.
Perché non è mica così facile portare la bottiglia (ahimè) vuota del suo Valpolicella alla campana che sta nella piazza. E, più che altro, mica è un lavoro per tutti.
Ci mancherebbe altro. Ma non hai mai visto le istruzioni alla televisione? Informati, per Dio!
Prima di tutto, non ci puoi andare da solo. Bisogna essere almeno una dozzina, ciascuno con la sua bottiglia vuota (non importa che sia ex Valpolicella; va bene anche ex passata di pomodoro, per dire) tanti abbastanza da poter organizzare un ballo di gruppo. Perché è ballando che ti devi avvicinare alla campana. Ballando, cantando e ridendo felice: di quella felicità così diffusa nella nostra società di riciclatori di vetro e affini. E allora, capisci, se non sei giovane e felice come fai a raggiungere la campana in mezzo alla piazza ballando e ridendo.
Come uno scemo, dici? Ma no, come un giovane!
Io, per esempio, non ci vado in piazza a portare la bottiglia alla campana. A me, ormai, non mi va né di ballare né di ridere. Faccio male, lo so. Ma non lo vedi che sono tutti felici? Basta un niente: un detersivo, un biscotto, un’auto più o meno elettrica o, appunto, le bottiglie di vetro.
Ma ormai sono un vecchio superato, io. Ho quasi cinquant’anni e non mi vuole più nessuno. No: io alla campana in piazza ci mando una ragazzina vicina di casa che balla come una dea, ha una bella voce squillante e un meraviglioso sorriso. Mi fa anche fare una bella figura.
Infine, hai visto come si fa a introdurre la bottiglia nel buco della campana? Pensi che sia facile per uno come noi che, oltre a non essere abbastanza giovane, è anche stanco perché ha lavorato tutto il giorno e, magari la lascerebbe cadere dentro e basta.
Si tratta, invece, di saltare a piè pari sopra la campana a tempo di musica e, senza smettere di ridere, da lì, un braccio verso il cielo in segno di trionfo, far cadere la bottiglia nel buco. Un’apoteosi: roba da Wanda Osiris che scende la scala circondata dai boys.

Da quel momento la musica cessa, i giovani felici, dopo un ultimo sorriso immobile, escono di scena e inizia, senza clamore, nel completo disinteresse dei ragazzini danzanti e felici e dei loro mandanti, il viaggio virtuoso della bottiglia ormai rotta e del vetro di cui è fatta. Da non dimenticare l’etichetta, i colori dell’etichetta, la colla dell’etichetta e quant’altro che correda la normale bottiglia.
Ad ogni modo, qualcuno addetto allo scopo, qualcuno che non balla, non ride, ma che, porco qui e porco là, lavora, solleva la campana con apposito mezzo meccanico e ne riversa il contenuto sul vicino camion con grande strepito e ulteriore frantumazione del vetro. Ormai del Valpolicella si è persa ogni traccia.
Via il camion, via l’apposito mezzo meccanico con larga combustione di gasolio chiaramente avvertibile dall’odore che lascia. (I ragazzini felici non lo avvertono, impegnati come sono a ballare e ridere davanti a un’altra campana).
Dove vadano a finire camion, mezzo meccanico, bottiglie rotte, etichette colorate e vetro, non è molto evidente; anzi, non è evidente per nulla. Forse perché là dove vanno non c’è nessuno che balla e che ride, essendo quindi socialmente e televisivamente insignificante. Allora niente musica e niente telecamera.
Comunque, dando credito alle voci che ci raccontano di un processo di recupero del vetro (“il vetro rinascerà” dice la canzoncina della giovane danzante che è saltata sulla campana), si dovrebbe trattare, prima di tutto, di macinare le bottiglie in modo da poter passare alla successiva lavorazione. Solo che il vetro, così fragile, è maledettamente duro. Tanto che c’è il rischio, invece di macinare il vetro mediante una macchina, di macinare la macchina mediante il vetro.
Va bene: acciai speciali, elevate potenze in gioco, forte consumo di energia, spese a non finire e il nostro vetro è ridotto in polvere.
E le etichette? Mica si possono lasciare con la polvere di vetro! Carbonizzate nel forno, rovinerebbero tutto. Vanno separate, è ovvio. Come? Forse, tirando a indovinare, con un processo che si chiama flottazione e che sfrutta il diverso peso del vetro e della carta, tale per cui, messi in acqua e detersivo, uno va a fondo, l’altra galleggia con l’inchiostro e la colla.
Altra macchina, altro lavoro, altra energia, altra spesa. Ma ora il nostro vetro è pulito e può entrare nel forno per essere fuso. (Altra energia, tanta; altra spesa, tanta).
Già, e la carta? La carta macinata, zuppa d’acqua lurida, una pasta oscena e maleodorante, quella (chiamiamola ancora, in mancanza di meglio, carta) dove la mettiamo? La consegniamo a quei giovani danzanti e felici? No, poveretti: magari non riderebbero più. La dimentichiamo, così sparisce.
In ogni modo, dopo tanto lavoro, tanta energia spesa, tanto capitale investito, finalmente abbiamo di nuovo il nostro vetro.
E che cosa ne facciamo? Bottiglie! Del tutto uguali a quelle introdotte gioiosamente nella campana. Senza etichetta, per giunta. E senza Valpolicella.

Allora, uno che non ha tanta voglia di ridere e di ballare potrebbe chiedersi: “Ma che siamo scemi? Ce l’avevamo già la bottiglia. Chi ce l’ha fatto fare tutto quel trambusto, tutto quel lavoro, per ritornare al punto di partenza?”.
Forse per far ballare alla televisione quei giovani felici, e incoscienti, come (quasi) tutti i giovani felici?
Forse per prendere per il …, per ingannare la gente convincendola della nostra (della loro) capacità tecnica di far fronte al problema dei rifiuti?
Forse perché frantumare bottiglie per fare bottiglie è un business mica da poco e, figuriamoci, crea anche posti di lavoro dove si ride poco?
Forse per nascondere che il solo modo di ridurre l’inquinamento è ridurre la produzione? E se ridurre la produzione è economicamente impossibile, non saranno loro i veri pazzi: gli economisti?
Forse …

Falaschi Arturo Tutti i diritti sono riservati

22/04/2024

Il muro.
E’ sabato pomeriggio.
Tre parti di sabbia, una di cemento e acqua. Giovanni impasta nella carriola con movimenti fluidi; anni di cantiere gli hanno insegnato a economizzare le energie. La manica gli copre la mano e la mestola sembra inserita direttamente nel braccio che muove con leggerezza, come farebbe un direttore d’orchestra con la sua bacchetta. Con la punta della mestola traccia un otto sulla superficie morbida dell’impasto, in pochi secondi viene assorbito e scompare, è della giustizia consistenza, è pronta.
Da poco la sua ditta si è aggiudicata l’appalto presso il piccolo comune dove abita. Sono diventati un ricordo le imprecazioni all’alba per il vecchio camioncino che non partiva, i tanti chilometri percorsi, le gettate delle fondamenta da terminare anche sotto la pioggia. In questi anni i suoi figli sono cresciuti quasi senza di lui; si sente in colpa per il tempo che non ha potuto dedicare loro. La sera la stanchezza gli toglieva la voglia di parlare, di chiedere, ma non l’orgoglio di guardarli: com’erano cresciuti, com’erano diventati belli. Erano i suoi figli.
I mattoni rosso scuro vicino alla carriola, uno sull’altro, sono in due file ben ordinate. Giovanni si inginocchia, stende il braccio, prende un mattone, spalma sopra la superficie ruvida una mestola di cemento e inizia in silenzio a disporli in fila. Inserisce un mattone, poi un altro, ancora un altro e un altro; l’ultimo non entra. Senza girarsi prende la martellina con il becco a taglio, ne riconosce il legno levigato del ma**co, misura a occhio, con un colpo preciso e secco accorcia il mattone.
Si pulisce il palmo della mano sulla coscia dei pantaloni per togliere le briciole taglienti, immerge la mestola nella carriola, impasta velocemente e stende un cordone di cemento sopra la fila di mattoni appena posati. Continua formando un’altra fila sopra quelli appena posati. L’ultimo non entra, l’accorcia con un colpo secco di martellina e continua con un’altra fila, altro cemento, altri mattoni.
I colpi secchi e regolari della martellina sono l’unico rumore che si sente. Gli ricordano il campanello della sua Olivetti Lettera 32 quando lo avvisa che deve portare indietro il carrello per andare a capo e iniziare un’altra riga.
L’aveva trovata abbandonata in un solaio da vuotare e l’aveva riparata. Lo affascinava quel ticchettio che si mutava in parole senza bisogno di elettricità e toner. Con tre dita la domenica mattina scriveva i fatti accaduti durante la settimana; scriveva di lui, della moglie, dei figli, come un diario di bordo, ma di famiglia: la loro storia fatta di incontri, cene, litigi, cose tristi e allegre. Centinaia di pagine numerate e datate riempivano una scatola di scarpe. Sul coperchio una foto di lui e la moglie di tanti anni prima, quando erano giovani e magri. Chissà, un giorno le avrebbero lette i figli e forse capito qualcosa di lui, di quel padre sempre stanco e silenzioso.

Il piccolo muro è terminato. Con movimenti precisi del polso lancia mestolate di cemento che ricoprono i mattoni. Con la spatola rasa quello in eccesso. Bagna il frattazzo e ne spiana perfettamente la superficie. Posati gli attrezzi, in ordine e ben allineati, carezza il cemento con il dorso della mano una, due volte, come per eliminare una invisibile sbavatura.
Sceglie a terra una lunga scheggia di mattone appuntita, si alza in piedi e si gira. Lo fa lentamente, molto lentamente. Avrebbe voluto ritardare ancora questo momento, anzi, non avrebbe voluto nemmeno affrontarlo, ma ormai il piccolo muro è terminato e non resta altro da fare che scriverci sopra: ma prima deve chiedere.
Una folla silenziosa lo sta fissando: ne sentiva gli occhi sulla schiena seguire ogni suo movimento mentre murava i mattoni.
La donna più vicina a lui è la madre.
Giovanni non ce la fa a parlare, non ce la fa a chiedere il nome, alza la scheggia del mattone e indica il piccolo muro con cui ha chiuso il loculo.
La mamma con un sussurro gli dice il nome del figlio.
Giovanni incide con la punta aguzza il nome sul cemento fresco. Non è bravo a scrivere ma ci mette tutto il suo impegno: quando ha terminato, quelle lettere sembrano incise da una mano esperta: la T, la L e la M hanno i gambi dritti, e la O e la A sono perfettamente tonde.
Si gira di nuovo, questa volta riesce a chiedere la data di nascita.
Un altro sussurro; altri segni incisi sul cemento.
Giovanni mette la scheggia di mattone in tasca, poi ripone gli attrezzi ed il materiale avanzato nella carriola; lo sguardo delle persone si sposta sulla scritta incisa nel cemento. Nessuno può più andare oltre quelle lettere e quei numeri appena incisi sul cemento che copre i mattoni.
Il cigolio della ruota della carriola e la ghiaia calpestata dai suoi piedi, gli unici rumori nel piccolo cimitero e i cipressi, con le loro chiome dritte, sono un picchetto di soldati sull’attenti che gli rendono gli onori.
Prima di uscire dal cimitero guarda ancora quel piccolo muro di cemento fresco, il nome, la data. Fra qualche giorno, quando sarà asciutto, ci applicherà il marmo bianco con il nome in bronzo e la foto. Poi il marmo non si vedrà più, sarà coperto da decine di peluches.
È domenica mattina, è presto.
Sono già trenta minuti che Giovanni ha le dita sui tasti della sua Lettera 32; oltre la data non ha scritto niente.
La camera dei figli è chiusa. Apre la porta e una lama di luce entra dal corridoio.
Dentro tutto è perfettamente immobile. Solo le coperte si muovono al ritmo lento dei loro respiri. Quando dormono gli sembra che siano ancora più belli.
Torna alla sua macchina da scrivere, estrae il foglio bianco dal carrello, con il nastro adesivo ci fissa la scheggia di mattone rosso con la punta grigia di cemento, lo ripone nella scatola sopra le altre pagine e la chiude. Sul coperchio la foto di un ragazzo e una ragazza gli sorridono.

Stefano Gelormini Tutti i diritti sono

20/04/2024

L’allarme ha suonato.

Non avrei mai pensato che rimanere bloccata dentro la cabina di quell’ascensore avrebbe scatenato in me tutto quel putiferio.
Adesso ero davvero intrappolata, un sudore convulso mi assaliva, mi sentivo come quei poveri uccelli la cui aspirazione è di volare liberi nell’aria, ma non possono perché sono rinchiusi in piccole gabbie nelle quali é stato facile entrare, ma difficile uscirne.
Rannicchiata in un angolo tra le pareti dell’angusto abitacolo e il muro che delimita l’intercalare dei piani, dopo aver premuto per diverse volte il pulsante dell’allarme, rimasi in attesa, speranzosa di una possibile risposta di aiuto. Continuavo a illudermi che sarebbe stata una questione di poco tempo; al più presto qualcuno sarebbe intervenuto.
Ma niente. Il palazzo dove abitavo doveva essere proprio deserto, considerata la stagione. Pensai con invidia ai vicini di casa che erano partiti per le vacanze e ad altri inquilini che immaginavo al mare; cercai di convincermi che qualcuno avrebbe potuto pur esserci, magari proprio come me rimasto a casa.
Già, anch’io avevo preso i miei quindici giorni di ferie ma, prima di partire con la famiglia, avevo deciso di utilizzare alcuni di quei giorni per potermi meglio dedicare alle cure domestiche e ai preparativi necessari per tutta la famiglia.
Presa dallo sconforto, nei miei pensieri si faceva sempre più pressante l’ipotesi che la via di uscita non sarebbe stata poi così rapida come avevo immaginato.
Imprigionata nello spazio ristretto di quella cabina, che a seconda dei movimenti sentivo oscillare sotto i miei piedi, o per lo meno questa era la mia sensazione, iniziai a gridare come una forsennata e a ba***re forte i pugni contro le pareti.
Alla fine mi adagiai sedendomi per terra, proprio dove avevo appoggiato le borse della spesa, cosa che in un’altra situazione non avrei mai fatto.
Mi martellavano nella mente le antiche regole inculcatemi dai miei genitori del tipo: non ti appoggiare, non ti sporcare, stai composta, non gridare, questo si fa, quest’altro no, e così via.
In barba alle buone regole, per placare la mia ansia e allentare un po’ quella morsa opprimente che sentivo forte sul petto, presi a morsi una di quelle deliziose pesche che poco prima avevo acquistato dal fruttivendolo sotto casa.
Un sapore amaro dalla gola mi arrivò fino alla mente: piangente inveivo contro tutti, soprattutto contro me stessa per essermi ritrovata lì. Mi rammaricai fortemente, cominciai a chiedermi che fine avessero fatto tutti quei miei sogni, desideri e progetti mai realizzati. Non sapevo come fosse accaduto ma, senza che me ne fossi resa conto a poco, a poco a poco avevo rinunciato a tutto. Si, era stato proprio così!
Mi alzai, iniziai a piangere e a urlare più forte di prima, a prendere a pugni e calci le pareti di quella cabina che mi aveva intrappolata non so da quanto, perché avevo completamente perso la cognizione del tempo, ma alla fine qualcuno sentì le mie grida accompagnate dallo squillo del campanello di allarme che premevo incessantemente.
Finalmente sentii arrivare una risposta alla mia accorata richiesta di aiuto. Non mi meravigliai di vederlo, ultimamente lo incontravo spesso, ero contenta di sentire la sua presenza, era proprio lui, Massimo, il mio vicino di casa, come sempre pieno di attenzioni.
Mi apparve sulla porta, le sue guance un po’ rotondeggianti, colorate di un sorriso rassicurante, mi trasmisero la stessa piacevole sensazione che provavo ogni volta che lo incontravo. In lui c’era qualcosa di gradevolmente dolce che mi attraeva mentre lo vidi ve**re incontro con le braccia tese verso di me.
In quel momento la sua presenza era quello di cui avevo bisogno. Quella volta senza esitazione mi strinsi tra quelle braccia piene di calore che mi dettero la forza di ritrovare me stessa.
Non ricordo per quanto tempo rimasi stretta a lui.

Giovanna Russo Tutti i diritti riservati

15/04/2024

Volare..

… poi d’improvviso venivo dal vento rapito / e incominciavo a volare nel cielo infinito ...

Ma non è facile volare. Certo, molto dipende da cosa si intenda per volare. Il volo di un aereo, per esempio, non è un vero e proprio volare perché, con le ali, l’aereo si appoggia all’aria allo stesso modo in cui si appoggiava alla terra quando non volava.
Meglio la mongolfiera allora. Si, meglio la mongolfiera: per lo meno sta quasi ferma e quasi in silenzio, cosicché si può guardare intorno e rendersi conto di essere sospesi in aria.
Ma sempre sostenuti dall’aria siamo: abbiamo solo sostituito il mezzo di appoggio, ecco. Sempre sottoposti alla gravità siamo, al peso della materia, della materialità che necessita di un punto di sostegno per non cadere.
Cadere senza sostegno sarebbe proprio il contrario di volare. Il negativo del volare.
No, volare è un’altra cosa.
Il volo è liberarsi dal vincolo, dalla gravità del peso per esempio e quindi dalla materialità che non può non essere di peso; è, si potrebbe dire, spostarsi nella libertà, allontanarsi dalla legge, anche dalla legge naturale, dalla necessità; salire in alto, sempre più in alto perché, simbolicamente, è lassù che collochiamo leggerezza e assenza di vincoli.
Certo che, anche per volare è necessaria una qualche tecnica. Non è che uno dica: ora volo, e allora vola. Ci vuole esercizio, predisposizione, lungo allenamento. Ma, infine, è l’esperienza personale e il desiderio di volare che ti fa volare.
Io faccio così perché l’ho imparato in sogno che, si sa, è la migliore scuola possibile. Specialmente riguardo al volo.
Dunque, si tratta prima di tutto di sollevarsi sulla punta dei piedi, che è già uno staccarsi dal terreno e tendere verso l’alto. Perché, si sa, è il calcagno l’organo che, appunto, “calca” il terreno, il terrestre. Poi si inarca al massimo la colonna vertebrale (inarcare che non significa piegare ad arco, anzi, significa raddrizzare, distendere, creare una tensione che punti decisamente in alto: una freccia che partecipi della tensione dell’arco, pronta a liberarsene ma senza scatto, dolcemente, quasi inavvertitamente. Il volto anche lui rivolto in alto, a mostrare il desiderio di volare e la direzione del volo. Perché quando volerai sarà lo sguardo a indirizzare il volo: andrai proprio là dove lo sguardo è rivolto e tende. Le braccia aperte, le mani allargate con i palmi rivolti in alto quasi a cogliere quella luce verso cui andare. Il petto gonfio di muscoli e di orgoglio, ostentando una, sebbene problematica, sicurezza di sé.
Una vaga sicurezza che proviene dall’avere acquisito, con lunga pazienza, una qualche presunta conoscenza di quello che, volando, percepirai: una conoscenza non proprio conforme al consueto, una conoscenza che sia già, in qualche modo, uno staccarsi da quel suolo che tutti “calcano”.
Allora, quando sarai pronto e convinto, allora, senza strappi ti solleverai da terra. Basta un niente: una nota musicale, un’immagine dipinta, il verso di una poesia, lo sguardo di una donna innamorata, di un bambino, di un animale.
Dapprima il tuo volare sarà molto incerto, precario e alquanto timoroso; poi, prendendo confidenza, ti innalzerai deciso nello spazio libero.
Libero come il tuo pensiero, come il tuo intuire senza regole, senza appoggio su solide, terrestri, basi.
Sempre più perso nel blu dilagante, le mani, la faccia, tutto ciò che resta del corpo, partecipe di quel blu: dipinto di blu.
Gioia ma anche paura, certo. Solitudine sempre più vasta, soffocante quasi; vertigine, smarrimento; paura di perdere la via, la direzione, il ritorno.
Allora mi sono legato alla caviglia una corda e, all’altro capo l’ho affidata alle mani robuste di mio fratello che ha le scarpe, tacchi compresi, ben ancorati a terra. Talmente ancorati da sospettare che, ormai, sotto i tacchi si siano sviluppate radici che affondano nel terreno.
Così, basta che volga con insistenza lo sguardo verso di lui e il fratello tira la corda e mi riporta a terra. E io, un po’ deluso, un po’ sollevato, devo sorbirmi la solita ramanzina sul “chi te lo fa fare, non serve a niente, pensa alle cose concrete”, e via discorrendo.
Però, tutto sommato, il fratello è anche curioso e vorrebbe che gli raccontassi cosa ho visto lassù. E io non so che dire perché, in fondo, c’è poco da dire. Perché le parole, ma lui non lo capisce, le parole sono la fibra di cui è fatta la corda che mi trattiene, il legame che si allaccia alla caviglia e mi impedisce di salire oltre, anche se mi serve a vincere la paura.
Le parole sono la manifestazione della gravità, del terrestre, sebbene qualche volta si sforzino di indicare il blu del cielo in cui, verso cui, volare. In fondo, se per volare occorresse davvero tingersi le mani e la faccia di blu, quella vernice coprirebbe proprio loro: le parole.
Oppure posso raccontare, al fratello scettico ma curioso, quello che ho visto della terra, guardandola da lassù, mentre lui mi tirava: ho visto quel mare infinito di problemi, di delitti, di ingiustizie che si vedono anche senza volare, ma io le ho viste nella loro interezza, nel loro perché e nella loro fondamentale interconnessione. Ho visto che se si cerca la soluzione di questo o quel problema, che la si trovi o meno, il problema tornerà, come torna la mala erba, se la sua estinzione non è completa. E ho visto che la completa estinzione non potrà avve**re se non ci si ponga, almeno un po’, in alto, nella condizione del volo. Almeno per vedere e capire che cosa, infine, debba essere colpito ed estinto.
Chi è convinto della necessità di tenere i calcagni saldamente ancorati a terra, non può risolvere il problema perché è lui stesso il problema. Lui stesso è il nemico perché, rifiutando il volo e la visione allargata, è fatto così come il nemico lo vuole: miope e ostile a chi vede un po’ più in là.
Ma mio fratello non capisce e, bontà sua, mi tollera e non mi rinchiude in ma**comio proprio perché è mio fratello e mi vuole bene. Sono un po’ bizzarro, ecco, un sognatore, un perdi giorno. Molto intelligente, naturalmente; ma, sulle sue labbra, l’aggettivo “intelligente” suona come un’accusa.
Comunque sia, io, caparbio, ricomincio a volare pensando che sia il meglio che possa fare e magari, un giorno che non so, avrò il coraggio di sciogliere quel nodo alla caviglia, unico legame che mi unisce al terreno, e sparire “lontano, più in alto del sole e ancora più su”, non so dove, forse proprio“nel blu dipinto di blu”.
Oppure il nodo si scioglierà da sé, per logorio di quelle parole che ne sono la fibra.
Così, come “il mondo pian piano scompare laggiù”, io scomparirò definitivamente alla vista del mondo e di tutti quelli che hanno solide radici sotto i tacchi; perso in un bel sogno, più vero e concreto della realtà, pur nella sua astrazione. Là finirò per sciogliermi e, se non mi incontrerete più e penserete alla mia fine, sarete in errore.
Imparate a volare e ci rivedremo.

Arturo Falaschi Tutti i diritti riservati

12/04/2024

Abbi cura di te.

Era più forte di lei: prima di uscire, quando aveva già aperto la porta di casa, doveva tornare indietro, perlustrare l'appartamento. Le luci erano spente? I rubinetti in bagno erano ben chiusi? Non come quella volta quando, di notte, goccia dopo goccia, l'acqua aveva invaso tutto il pavimento di un’intera stanza.
Il gas? Tutto a posto? Meglio controllare.
Chiuse la porta, diede la prima mandata, ci ripensò, riaprì, rientrò; meglio ti**re giù gli avvolgibili, “e se poi piove?”.
Chiamò l'ascensore e intanto controllava in borsa le chiavi della macchina, il libretto di circolazione, la patente, il portafogli con il bancomat e i soldi, il cellulare, gli occhiali da sole, l'ombrello, gli occhiali da vicino, quelli economici, si dovessero rompere, gli occhiali da vicino, quelli buoni nell'astuccio rigido, si dovessero rompere.
Guardò l'orologio, iniziava ad essere in ritardo.
Raggiunse l’auto, fece manovra, sbucò nella strada.
Il traffico congelava ogni cosa. Guardò l'orologio: ora stava accumulando diversi minuti di ritardo.
Pensava ai ragazzi a scuola: uno avrebbe avuto il compito di matematica, l'altro il test di inglese.
“Speriamo bene”.
Qualcuno spazientito suonava il clacson, forse un tamponamento, forse un vigile in fondo alla strada, allungò il collo, ma nulla. Un grosso suv faceva sparire ogni cosa.
Il pensiero allora andò al marito.
“Sarà già al lavoro? Per cena cosa preparo? Non ci ho mica pensato, aspetta, sì, passerò a prendere qualcosa quando torno, tanto dovevo già passare al supermercato”.
Scrisse un messaggio alla collega:
«Sono un po' in ritardo, tu?».
Il traffico si sbloccò.
Lo sapeva, due tizi erano a discutere di brutto. “Ci mancava il tamponamento”, proprio lì, proprio all’ora di punta.
Ripartì.
Trafelata arrivò in ufficio, l'orario di lavoro era flessibile, sì, ma entrare a quell’ora significava uscire un po’ più tardi e c'era da fare la spesa e poi la cena, la biancheria da sti**re, i ragazzi da seguire, da controllare, avevano fatto i compiti?
«Signora! Signora mi sente? Ora la strigo un po'».
Delle cinghie si avvinghiavano alle sue gambe, un sussulto metallico la sollevava, era distesa su una barella, vedeva il cielo, divise arancioni, spesse, ruvide, voci sconosciute.
«Ha ripreso conoscenza, signora».
Il cielo scorreva veloce su di lei, le ruote metalliche inciampavano, le porte si richiusero con un tonfo, poi la sirena.
Si risvegliò tra lenzuola bianche e l’odore dolciastro dell’ospedale.
La luce fuori sembrava intensa, forse c’era il sole.
Sognava.
Sognava di camminare, nel parco, nel verde, indossava un vestito leggero, nuovo, colorato.
Dormiva.
«Abbi cura di te» le diceva sua madre.
Sua madre! Che non aveva mai amato se stessa, che era vissuta per loro, per i figli.
Ma loro, i figli, poi erano cresciuti, il marito se ne era andato e anche sul lavoro, una volta in là con gli anni, avevano trovato una più giovane per sostituirla.
Le sorrideva, su madre nel sogno, «ma tu, abbi cura di te», le diceva e così, quando fu in grado di ritornare a casa, lenta e fragile, tutto le sembrò più colorato, più vivo.
Si guardò allo specchio, niente sarebbe stato più come prima.
Da allora, all’uscita dal lavoro, l’aspettava ogni giorno l’aria dolce da respirare nel parco e i libri da leggere, seduta sull’erba che sapeva di selvatico.

Cinzia Capuano Tutti i diritti sono riservati

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11/04/2024

L’eskimo blu.

Lo senti ogni tanto che sogna e si agita nell’armadio. E’ il mio eskimo blu. Si ricorda delle cariche della polizia nel Sessantotto, quando era una specie di divisa per noi. Gratta la porta e vuole uscire. Non ti dà pace fino a quando non lo tiri fuori. E’ come avere un cane che vuole andare a pi****re non non ti lascia alcuna possibilità.
- Prima o poi lo brucio! - Mi dice mia moglie mentre mi avvicino e apro l’anta.
- Prima brucio te se lo tocchi!
Lui lo sa che è intoccabile e mi deve accompagnare.
- Ti porto a fare un giretto! – dico mentre apro l’armadio e lo stacco dalla gruccia. Me lo metto addosso, mi sta ancora bene.- Io esco!
- Mi sembri proprio matto!
Con l’eskimo addosso esco per il viale. La gente che passa mi guarda come se fossi travestito. Di eskimo blu non se ne vedono più. E poi ricordano le camionette della polizia, le sirene accese, l’odore acre di lacrimogeni, le discussioni delle assemblee dell’Università occupata. E’ una vita che viviamo assieme. Lo metto come se mi mettessi un anello, un gioiello. Gli faccio fare un giretto, il minimo possibile perché si accontenti e rimanga calmo. Quando lascio la casa per giorni c’è gente che mi telefona e mi dice che ho i ladri in casa. Lui bussa all’armadio e vuole uscire. Per me è importante: vivere di nuovo i ricordi che sono rimasti appiccicati a lui, rientrare in quegli odori, in quelle fughe ansanti, in quelle facce arrossate.
Ogni volta vedo il celerotto che mi aveva dato una manganellata. Mi sono scansato e l’ho presa nella spalla. Ma non era forte. Avevo passato la fila dei celerini dietro gli scudi e lui dice: Adesso suona la carica e ti diranno di ve**re a picchiarmi. Ma io sono figlio di povera gente come te.
Mi ricordo il suo sguardo triste e di odio e di paura.
E l’altra occasione che in piazza Magenta, alla manifestazione contro Almirante, un candelotto di gas lacrimogeno sfiorò il mio eskimo all’altezza del pezzo e sbattè contro un albero della piazza. Ha continuato a buttare fumo sull’erba.
Il mio eskimo era la mia divisa, raccontava chi ero e come la pensavo.
Gli ho salvato la vita due volte: una volta era nel sacco della spazzatura. Perché mia moglie lo odiava, diceva che era inutile e vecchio e non serviva più a niente, che mi faceva vecchio quando lo indossavo, che erano tempi da non ricordare nemmeno.
Un’altra volta, che era tanto che l’avevo dimenticato, era entrato nel sacco della Caritas. Ma lui aveva cominciato a lamentarsi, a muoversi, ad agitarsi fino a che me ne sono accorto, l’ho tirato fuori e l’ho liberato. Da quella volta mia moglie non si è più arrischiata a distruggerloA me fa stare bene. Indossarlo è come incontrare una parte della tua vita. Riviverla completamente. E mi fa bene in questi tempi grigi.
Quando arrivavo con il Ciao al Vespucci, con l’eskimo e il passamontagna, i ragazzi mi dicevano: “Prof sembra proprio un brigatista!”.
Quando nevicava c’era solo il mio motorino davanti al Vespucci.
Dopo la passeggiatina, che senti che si distende e si guarda intorno sempre incuriosito, torno verso casa, salgo le scale, entro e mi avvicino all’armadio per riporlo.
- Tranquillo! Simo arrivati a casa!
- Tu non sei normale! - mi dice mia moglie!

Alessandro Marchiori Tutti i diritti sono riservati

09/04/2024

In vino veritas.

Turismo itinerante in Francia. Ho appena lasciato Digione e viaggio con calma per i panorami della Borgogna e i suoi mille boschi.
Ma vuoi lasciare la Borgogna senza del vino di quello bono? Se si venisse a sapere magari si offenderebbero. D'altra parte, dice la moglie, non puoi mica prosciugare definitivamente per questo il budget destinato al viaggio e ormai scarso? Ingaggio un brain storming con la moglie con scarse possibilità di raggiungere un qualche compromesso finchè, in uscita dal boschetto con tanto di gnomi incorporati, la fata del luogo mi viene in soccorso:
Vigneti, un edificio che potrebbe essere una masserizia e un cartello promettente. Nel mio francese meno che stentato potrei leggere qualcosa del tipo: vendita di vino direttamente dal produttore. Insomma, forse questo è il cercato equilibrio tra vino che viene e budget che va.
Lascio la statale e mi inoltro su un vialetto di ghiaia e polvere fino a un parcheggio di polvere e ghiaia.
Lì per lì sembra un deserto dato il silenzio che ci avvolge appena spento il motore, poi un tale che ha tutta l'aria di essere francese si affaccia da una porta, non so se attratto dal rumore o dal polverone. Sorride, invitante, la mano si alza in un abbozzo di saluto. Scendo dalla macchina e lascio la portiera aperta perché fa già un gran caldo. Mi prende la mano e la stringe con vigore fino a farmi quasi male.
Gli chiedo se ha del vino; una risata come dire: povero italiano scemo, ma non hai visto le vigne, non lo sai che sei in Borgogna? D'altra parte, io non so il francese e da qualche parte dovevo pure cominciare.
Mi fa cenno di seguirlo ed entra nell'edificio. È un punto vendita, con bancone e bottiglie su bottiglie. Ecco, siamo arrivati, penso. Invece no; continua a parlare mentre io non capisco un tubo, scompare un attimo in una porticina dietro il bancone, risbuca fuori un attimo dopo e, con il ditone, mi fa cenno di seguirlo. Si scende una scala ripida e stretta e nel buio che contrasta la luce accecante del parcheggio, vedo che siamo in cantina.
Non si può sbagliare: ci sono botti e tini di ogni dimensione e c'è l'odore, inconfondibile a qualsiasi latitudine. Di vino buono, si, ma anche di muffa, di freddo e non so di cos'altro che fa, di una cantina, una cantina, a tutte le latitidini. Se non ci fosse lui che parla un incomprensibile francese mentre indica l'una e l'altra botte, potrei essere in una qualsiasi cantina di un qualsiasi viticoltore italiano; dal piemonte alla sicilia, tutti uguali.
Prende una bottiglia e me la mostra. Non faccio a tempo a leggere niente ed è già sulla scala che risale. Cavatappi, una botta da esperto e via. Si sente già il profumo.
Prende due bicchieri mentre continua a parlare, forse chissà, a declamare la bontà del suo vino, poi li rempie; fino all'orlo malgrado la mia mano che dice basta così, mentre la sua testa si ostina a dire ouì e ouì e ouì. Poi si ferma, finalmente tace e aspetta che io beva. Timidamente afferro il bicchiere, cercando di non versare il contenuto, odoro il buquet, da intenditore, prendo un sorso, lo tengo qualche secondo e lo mando giù.
Sarà perché suggestionato dalla cantina e dal francese, la lingua voglio dire, che quando si tratta di mangiare e bere, anche se non capisci nulla sembra suggerire chissà quali delizie per il palato, sarà perchè con quel caldo che fa ho una gran sete, ma quel vino mi sembra un nettare, un assoluto equilibrio tra forza, fragranza, sapore e qualunque altra qualità che io conosca nel vino.
Lo vedo deluso. "Me no .." Questo lo capisco. Disapprova, scuote la testa, recita quella che ha tutta l'aria di essere una ramanzina, poi prende il suo bicchiere. Lo porta alla bocca così rapidamente da preve**re qualunque sversamento e, con un sorso solo, il bicchiere è meno della metà.
Mi guarda come si guarda un povero sottosviluppato e, con la mano aperta, accenna al mio bicchiere quasi pieno.
Ah, sì? Hai sbagliato indirizzo, vecchio mio. Te lo faccio vedere io come beve un livornese.
Prendo il bicchiere, lo sollevo a brindisi e giù. Scende che è un piacere; lo stomaco ringrazia, e non solo lo stomaco. Ora ride, soddisfatto. Dice qualcosa che sa di bonario, poi finisce il suo vino. Io faccio altrettanto con il poco che è rimasto.
Contrattiamo il prezzo di quattro bottiglie. Il prezzo è ragionevole così gli dico che va bene, affare fatto. Con la moglie me la vedo io. Prende le bottiglie, mi fa notare che hanno la stessa etichetta di quella che abbiamo bevuto, le introduce con cura in apposito contenitore, gli porgo il denaro, sorride compiaciuto, mi dà una pacca sulla spalla insieme al resto. È molto soddisfatto di sè.
Un'idea mi si presenta in testa. Forse nel bagagliaio ho ancora una bottiglia ... gli dico: "attendè" che è una delle poche parole francesi che conosco e che magari è sbagliata ma so che loro la capiscono; lascio lì le bottiglie e vado tra la polvere e la ghiaia del parcheggio. È proprio così: ce n'è rimasta una. L'afferro come un'arma, ignoro le proteste della moglie e rientro a passo di carica. Ma chi ti credi d'essere, contadino francese; te lo faccio sentire io il vino, te lo faccio sentire!
Poso con decisione la bottiglia sul bancone e gli dico, con voce e segni: aprila. Mi guarda, non capisce, ma io insisto: aprila.
È perplesso, ma ha capito. Prende due bicchieri puliti, più belli, più da assaggio e mi sembra un buon segno di rispetto e di stima, poi affonda la vite nel tappo.
Il colpo secco è di buon augurio e, quando riempie i bicchieri, già si sente il profumo forte, virile, del Bolgheri di casa nostra.
Ora sono io a invitarlo a bere, il palmo della mano aperta verso il bicchiere.
Alza il calice, lentamente, quasi il prete sull'altare. Guarda il vino in controluce, poi guarda me: un misto di sorpresa e di piacere. Odora, sorseggia, assapora. Poi un altro sorso, deciso e robusto. Gli brillano gli occhi.
Dice: vino italiano. Lo dice in italiano, poi, in inglese: Wonderfull.
Mi fa cenno di bere e riprende a parlare, riempie ancora i bicchieri, parla, beve a sorsi grandi e indica me col ditone, poi sé stesso con il pollice sullo stomaco, si fa sempre più vicino, fino a sfondarmi il torace a ditate. Il fiato sa di uva fermentata. Mi allarmo un po', ma il vinaio di Borgogna unisce le sue due mani e stringe forte. Un simbolo di unione, senza dubbio. Io e lui insieme, legati da bicchieri di vino tra loro stranieri.
Al terzo bicchiere capisco perfettamente il suo francese e, a quanto pare, lui il mio italiano. Parliamo di umantà, di fraternità, di uguaglianza. Ci diciamo amici, grandi amici, mi assicura che verrà a Bolgheri e verrà a trovarmi in Italia anche se dimentica di chiedermi indirizzo e numero di telefono.
Nemmeno il nome mi chiede, nè io chiedo il suo. Fratelli l'uno all'altro ignoti, ma fratelli, nella certezza indiscutibile scritta col sangue sul fondo di bicchieri di vino.
Mi insegue nel parcheggio per darmi le bottiglie che ho dimenticato sul bancone e, prima che la polvere lo inghiotta, alza la mano che stringe ciò che resta del Bolgheri e mi urla dietro: vive l'Italie.

Arturo Falaschi Tutti i diritti riservati

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