22/10/2024
LA TESTIMONIANZA| Giorgio Frasca Polara, decano dei cronisti parlamentari e all’epoca dei fatti inviati dell’Unita’ ha rievocato dal suo angolo di osservazione i momenti immediatamente successivi alla frana di Agrigento. Ringraziamo il giornalista Filippo Veltri per aver messo a disposizione della FGM questo testo che qui pubblichiamo integralmente.
Da Palermo (ancora lavoravo alla redazione siciliana del nostro giornale) avverto a Roma la carissima Lilli Bonucci: “Corro ad Agrigento”, mentre verso la città del “terremoto” si muovevano colonne di soccorso: esercito, pompieri, Croce Rossa, volontari… La Protezione civile era ancora di là da ve**re. Ma per me, prima di partire con la mia scassatissima 600, si pose un problema serio, serissimo: che fare? Come raggiungere Agrigento in tempo per scrivere il pezzo, e per giunta nelle dimensioni che la gravità della vicenda avrebbe certamente richiesto?
Esitai un poco, poi presi una decisione paradossale e rischiosa: scrissi e dettai il pezzo da Palermo basandomi non solo sulle ancora scarne notizie d’agenzia e radiofoniche, ma anche e soprattutto su quel che sapevo e avevo scritto già tante volte. Ciò che, anzitutto, anche a lume di naso, smentiva la tesi grottesca del terremoto. Sapevo che il rischio paventato dal decreto del ’45 si era paurosamente moltiplicato per l’edificazione dei tolli su terreni argillosi che favorivano il fenomeno del scivolamento a valle di interi quartieri. Ancora, sapevo che il sistema dell’informazione (tranne la stampa di sinistra, ma senza sufficiente vigore) aveva fatto di tutto, appena quattr’anni prima, per tacere, sopire, troncare la drammatica denuncia non di un potenziale terremoto ma delle conseguenze del sacco urbanistico e del degrado della città: una denuncia sottoscritta da urbanisti e storici dell’arte del calibro di Carlo Giulio Argan, di Cesare Brandi, di Antonio Cederna. E sapevo che qualche volta (solo qualche volta, purtroppo) l’opposizione aveva alzato la voce, in comune e in regione, di fronte alle più spudorate operazioni speculative e all’insabbiamento dei risultati pesanti di una prima inchiesta amministrativa rivelatrice di quasi tutti gli elementi del bubbone poi esploso con la frana e che chiamava apertamente in causa il blocco di potere Dc dominante ad Agrigento come a Palermo e a Roma.
Feci tesoro di tutto questo, e tutto utilizzai in fretta, ma nella più totale incertezza: un bluff da poker. Mandai dunque il pezzo “da inviato”, ma ben preoccupato del mio osare, un poco irresponsabile ma, ritenevo, necessitato. Poi presi l’auto e, non essendoci ancora superstrade, mi misi a superare autobotti e cucine da campo, gru e ambulanze, urlando “stampa!” per farmi largo nei frequenti ingorghi. Alla fine, nel pomeriggio avanzato, ecco Agrigento. La situazione era ben più grave di quanto avessi immaginato e scritto al buio. Insomma non dovevo rivoltare il servizio, semmai aggiungere, aggravare, accusare di più.
Del resto, rispetto al mattino, quel bugiardo del sindaco Ginex ora si era ammutolito: il suo “grave movimento tellurico” non era più che un pallido, ridicolo sipario ridotto a brandelli da una condotta – scriverà l’ingegner Michele Martuscelli nella relazione della commissione d’indagine spedita ad Agrigento dal ministro socialista dei Lavori pubblici, Giacomo Mancini – “intessuta di colpe scientemente volute, di atti di prevaricazione compiuti e subiti, di arrogante esercizio del potere discrezionale, di spregio della condotta democratica”.
Solo a notte, mettendomi in fila, riuscii ad ottenere per qualche minuto una telefonata (anche la teleselezione era di là da ve**re) con il giornale: feci qualche inserto sulle migliaia di senzatetto e senzatutto, sui bambini e le loro madri che piangevano, un poco di “colore”, e soprattutto chiamai più esplicitamente in causa non solo gli amministratori locali, ma anche il gruppo di potere doroteo-fanfaniano che amministrava la regione e, d’accordo con la segreteria nazionale della Dc, aveva coperto tutte le magagne dei compari agrigentini. Poi m’istallai all’albergo Jolly: niente acqua corrente, bidet con l’acqua minerale, vitto subito razionato nell’incertezza del domani.
La mattina dopo andai anzitutto alla ricerca dei dirigenti locali del partito. Il segretario della federazione? “È in viaggio di nozze, credo a Venezia – mi rispose un disorientato compagno –. No, non si è fatto ancora vivo”. Tornerà due settimane dopo: mentre la sua città franava lui offriva il granturco ai piccioni in piazza San Marco. Dal comitato regionale nessuno si era fatto vivo anche l’indomani: sapevo che il segretario era in Unione sovietica; quanto al vicesegretario non ritenne che la vicenda fosse sufficiente motivo per interrompere un viaggio tra vini e castelli della Loira. Insomma, mio malgrado scoprivo di essere non solo il primo inviato sulla piazza, ma anche l’unico interlocutore, anche politico, del giornale.
Riuscii a telefonare con maggiore calma al direttore del giornale Mario Alicata. Gli feci un quadro onesto della situazione: i dati approssimativi sulle grandi dimensioni della catastrofe, la mole ingente e crescente di materiale documentario sui divoratori della città: ci sono di mezzo – gli raccontai – un nugolo di ex sindaci oltre al Ginex, un piccolo esercito di magistrati e un questore in persona. E infine un partito, il nostro, praticamente inesistente. Alicata ne trasse conferma di una certezza maturata già da molte ore grazie anche ad una telefonata con il fratello magistrato: la frana non era il frutto del solito destino cinico e baro; piuttosto era un delitto provocato dalla speculazione e dalle complicità, a tutti i livelli, di cui i responsabili materiali avevano goduto per anni e anni. Il ritratto icastico di un regime di malaffare e di malavita. “Bisogna farne una grande campagna!”, disse il direttore, e m’intimò: “Tu resta lì, non ti muovere, scrivi, non guardare in faccia a nessuno! Questa storia deve diventare un tormentooone!”
E sarà proprio lui, Mario Alicata, benché piuttosto isolato tra i dirigenti del partito, a trasformare la frana in un incubo per il segretario della Dc, Mariano Rumor (che non caccerà nessuno, che coprirà tutti), per i quattro sindaci che si erano alternati nel malaffare in comune, che verranno processati e riprocessati sino a quando i reati loro ascritti cadranno ovviamente in prescrizione. Ma per lungo tempo la frana fu un incubo per la catena di presidenti della regione, di assessori, di deputati, sottosegretari, ministri e loro fratelli e loro compari, di alti funzionari dello Stato: dai magistrati agrigentini ai dirigenti della polizia.
E se l’iniziativa di Alicata valse a svegliare il circuito della informazione, persino l’ingessatissima tv pubblica, costringendo tutti a chiamare in causa le evidentissime responsabilità politiche, valse anche a smuovere il partito, il sindacato, le organizzazioni di massa: scattò la solidarietà, centinaia di bambini furono ospitati nelle colonie dell’Adriatico, le Coop inviarono vagoni di generi alimentari, fu fatto tutto quel che non fecero lo Stato, la regione siciliana, l’amministrazione locale.
Del resto non passava giorno senza che Alicata incalzasse il notabilato Dc, il governo di centrosinistra, la magistratura, e lo facesse con editoriali, corsivi e persino mettendo di frequente le mani nei miei servizi per renderli ancora più pesanti anche sulla base di notizie e dati che fonti assolutamente insospettabili gli passavano. Tanto che un giorno espressi ad Alicata qualche timore: già fioccavano infatti le prime querele e poi le denunce penali piovvero a grappoli. “Non ti preoccupare – mi tranquillizzò lui –, ai processi andremo insieme, e vedrai come ci divertiremo”. Ma ai processi andai purtroppo solo come poi racconterò, e non mi divertii affatto anche se ne uscii sempre indenne, forte dell’assoluta verità di quel che avevo/avevamo raccontato.
Verità più tardi confermata da quel rapporto Martuscelli di cui abbiamo già parlato e che spiegava come “più l’iniziativa dei costruttori diventa sfrontata nel violare la legge e più aumentano le concessioni, le autorizzazioni in deroga, le sanatorie, più il comune consente e legittima le violazioni, più cresce l’audacia dei costruttori, così che si realizza una concorde azione di erosione delle norme e di distruzione della città”.
Ho ancora tra gli appunti di quella stagione il regolamento edilizio comunale entrato in vigore nove anni prima della frana: era fatto su misura dei desideri dei costruttori. Esagerazione? Niente affatto. Si ebbe l’impudenza di dar valore di norma cogente ad espressioni pazzesche come questa: “Quando è possibile gli edifici devono poggiare sulla roccia viva”, ma naturalmente solo quando è possibile. O questa: “Quando non si possa raggiungere terreno compatto e si debba fabbricare su terreno di riporto o comunque sciolto, dovranno adottarsi i mezzi dell’arte di costruire” e s’era poi visto che razza di artisti s’erano lavorati la collina Atenea. O questa ancora: “Il limite massimo di altezza degli edifici è fissato in 25 metri, salvo deroghe”, e una deroga, ad Agrigento, non si negò a nessuno.
E infatti già un anno dopo l’entrata in vigore di questo regolamento l’ex assessore comunale e costruttore ing. Gaetano Vita aprì la serie del raddoppio in altezza delle dimensioni di un suo palazzo. E che dire di quell’ing. Vajana, costruttore del primo grattacielo andato in briciole, che con una mano rilasciava licenze in deroga come assessore ai lavori pubblici e con l’altra le utilizzava per far lavorare la propria impresa e quelle degli amici: amico era il titolare dell’impresa Sciacca (quattro piani in più di quanti ne consentisse la licenza), amica era l’impresa Giunta (tre piani in più), amica l’impresa Albano, tre piani in più e per soprammercato un bell’attico. In breve nell’ultimo anno antefrana ben 131 licenze su 190 erano state rilasciate in deroga o in sanatoria o addirittura contro i pareri ora dell’ufficio tecnico comunale e ora della sovrintendenza ai monumenti.
Ma la mia raccolta di informazioni per sempre nuovi, ma sempre quotidiani servizi (che sarebbero servite anche ad Alicata, alle viste di uno show down in Parlamento) avveniva anche nei modi più imprevedibili: la soffiata di un impiegato comunale, un pizzino (anonimo) lasciato al Jolly, la telefonata del collega palermitano che aveva letto la Gazzetta Ufficiale della regione: c’era scritto che la suocera del presidente della regione, Giuseppe La Loggia, era stata autorizzata ad alzare sino a 40 metri un palazzo in quella via Dante poi devastata dalla frana, e con strepitosa giustificazione: “Le più moderne tendenze urbanistiche mirano ad uno sfruttamento sempre più intensivo delle aree edificabili”.
Quanta tenacia ci mise Alicata in quei mesi dice da solo un piccolo episodio. Era quasi un mese che vivevo nel caos di Agrigento ed ero destinato a restarci chissà quanto ancora. Chiesi per Ferragosto una pausa di quattro-giorni-quattro per andare a trovare i miei figli. Su Agrigento si sarebbe potuto lavorare in redazione sulle agenzie, sulle telefonate (qualche compagno era tornato ad Agrigento). In mia assenza una notte il direttore tornò al giornale per controllare la prima edizione in cui, tra l’altro, usciva un suo furioso corsivo in replica ad un deputato fanfaniano, Raffaello Rubino detto Lello, che ergendosi a difensore degli speculatori (tra i quali c’era suo fratello, ingegnere e progettista di qualche tollo) aveva osato gridare alto e forte che “Agrigento è la nuova Danzica di una guerra del Pci per colpirci e umiliarci!”. Testuale.
Alicata trovò bell’e stampato in prima pagina il suo corsivo, ma poi sfogliò in fretta tutto il giornale e con stizza si rivolse di scatto ad Alberto Provantini, il nostro corrispondente dall’Umbria che faceva un cambio ferie a Roma (poi è stato parlamentare, quindi dirigente del Gramsci: ahinoi, ci ha lasciato anche lui) e sbottò: “Ma come? Su Agrigento c’è solo il mio corsivo? E non c’è un pezzo di notizie? Eppure bastava sfruttare almeno la dichiarazione di Ugo La Malfa, una volta tanto accettabile… La Sicilia non è l’Umbria, caro Provantini: volete capire che dobbiamo fare campagna ogni giorno, dare ogni momento il tormentooone a quei banditi? Forza, inventatevi un pezzo che accompagni il mio corsivo”, e se ne andò furioso, non prima di avermi telegrafato: “Torna subito al tuo posto”. Tramontato il Ferragosto sarei rimasto ad Agrigento sino al 4 dicembre.
Intanto, a settembre, Alicata volle ve**re nella “sua” città della frana. Non l’avesse mai fatto. In buona sostanza lui, che pure era realista sino al cinismo, aveva creduto che gli agrigentini gli fossero grati, o dovessero essergli grati per la buriana creata, per i danni materiali sociali e morali denunciati, e per l’attenzione partecipe che in questo modo si era riversata su Agrigento non solo da tutta l’Italia, ma da mezzo mondo. Credeva che aleggiasse una sorta di riconoscenza per quel che aveva fatto l’Unità, e che i cittadini gliela avrebbero testimoniata accorrendo all’annunciato suo comizio nella grande piazza alberata che è un poco il centro della città. Comizio fissato ad ora acconcia del pomeriggio, passata la calura. E invece quando Alicata parlò si contarono trenta, forse quaranta persone.
Lui non batté ciglio, mascherò perfettamente la rabbia, parlò come se avesse dinnanzi migliaia di persone. Poi rientrò in federazione, ora più sgomento (inedito per lui) che furioso (non inedito). Si rendeva conto, sulla sua pelle, che lo scandalo, forse persino più che i danni materiali della frana, colpiva anche interessi minuti e diffusi. Metteva a repentaglio una ragnatela di reciproci vantaggi: quelli su cui la Dc e i suoi alleati avevano costruito un sistema di potere che altrove sarebbe andato in frantumi solo parecchi anni dopo (e non per una rivolta di popolo), e che in una Sicilia “irredimibile” (Mario Alicata stimava assai Leonardo Sciascia pur non condividendone certe punte di pessimismo), in quella Sicilia avrebbe invece assunto le solite forme gattopardesche. Ma in quel momento, successivo al fiasco del comizio, vomitò solo un distillato d’odio. C’era, in un corridoio della federazione, una grande carta dell’Italia. Lui coprì il triangolo dell’isola con la sua grande mano e mormorò: ”Come sarebbe largo questo Mediterraneo”.
Non ebbe tempo né voglia di rimetter piede in Sicilia. Il 4 novembre ci fu l’alluvione di Firenze. Alicata comprese subito il valore dei risvolti politici del nuovo disastro. Montò un’altra campagna di stampa anche a sostegno del primo, splendido fenomeno di volontariato giovanile di massa. Ma il tempo di Alicata stava purtroppo finendo: il 5 dicembre intervenne alla Camera su Agrigento. Per un verso apprezzando entusiasticamente il rapporto dell’ing. Martuscelli (“Se ella, signor presidente della Camera, presiedesse la Convenzione giacobina, io proporrei di decretare la corona civica per questo coraggioso e onesto funzionario”), e per un altro verso ammonendo Dc e governo: “Tocca a voi trarre le conseguenze politiche di questo scandalo. Fatelo, altrimenti più gravi guasti ne verranno non solo ad Agrigento ma alle istituzioni”.
Riferimento non casuale alle istituzioni: Alicata parlò del presidente del tribunale penale agrigentino, Aurelio Di Giovanni (proprietario di alloggio Incis, se ne era procurato un altro col fratello-prestanome in uno dei tolli costruiti senza licenza); e degli analoghi sconci affari edilizi del procuratore della repubblica Giovanni La Manna, del presidente della corte d’assise Guido Bellanca, del presidente della sezione civile del tribunale Raimondo Mormino e infine dell’ex questore della città… Risultato dell’ammonimento: nessuno, ma proprio nessuno pagò.
Nessuno pagò. Tranne Alicata. Distrutto dalla tensione accumulata nel gestire praticamente da solo la vicenda di Agrigento, e da ultimo stremato dalla vicenda di Firenze, non sapeva di avere le ore contate. Ero tornato da Agrigento apposta per assistere all’intervento di Alicata alla Camera e pronto, se fosse stato necessario, a fornirgli tutta la ulteriore documentazione necessaria. Alla fine lo avevo accompagnato al giornale: uno sguardo al resoconto, poi su un foglietto ne aveva vergato il titolo. Poi finalmente, dopo più di cinque mesi agrigentini, potei andare in ferie. Lui andò a cena con un’amica e andò a dormire da lei. L’indomani lei lo trovò morto, stroncato da un infarto. Risparmio anche a me stesso e su questa testimonianza il ricordo di come si evitò uno “scandalo” (Alicata era sposato con l’ex moglie del grande matematico Renato Caccioppoli) solo grazie alla prontezza di riflessi dei compagni della mitica Vigilanza di Botteghe oscure.