18/01/2025
Prima ci sono stati i calciatori, poi per quasi un decennio è deflagrato il mito delle super modelle di inarrivabile bellezza, mentre tuttora a essere deificati sono gli chef, ovvero la variante mediatica e sacralizzata dell’oscuro cuoco di un tempo.
Ho sempre patito queste celebrazioni sugli altari di un paganesimo di stampo meramente economico, semplicemente perché tutto ciò che diventa esagerazione è funzionale solo a chi muove le marionette. Sta di fatto che anche questo quasi ventennio di vacche grasse per gli chef sembra fare la fine dei precedenti, forse per la noiosa esile ripetitività dei suoi contenuti attuali, forse, di più, perchè fatica a reggere se stesso.
L’ebbrezza creativa dei troppi epigoni di Bottura sta infatti evidenziando tutte le fragilità di un sistema che ha fatto dell’iper-innovazione una norma, spesso a discapito dell’autenticità gastronomica che ha radici profonde nella nostra cultura.
Il fine-dining, finora baluardo dell’eccellenza culinaria, affronta dunque una crisi senza precedenti.
Il Sole 24 Ore sottolinea come i cambiamenti degli ultimi anni abbiano messo in luce la profondità di questo empasse, generato non solo dall’inasprimento dei costi, ma anche da un cambiamento nei desideri e nelle aspettative dei clienti.
Questi ultimi, pur se benestanti e culturalmente raffinati, cercano anche esperienze che rompano i cliché del gourmet fanatico degli “stellati”, preferendo sempre di più cuochi, ambienti e cucine meno formali e più accessibili, ma altrettanto soddisfacenti a livello di benessere.
La verità è che il modello economico su cui si basa il fine-dining sta mostrando più di una crepa.
Le chiusure di molti ristoranti “d’autore” sono la dimostrazione palpabile di un sistema operativo sicuramente non più sostenibile come una volta. Di fronte a questo scenario, alcuni hanno trovato la propria strada allontanandosi dal perseguimento delle stelle Michelin, orientandosi verso proposte più intelleggibili, come quelle dei locali a forte identità di prodotto, che rispondono con maggiore agilità alle richieste di un pubblico in cerca di autenticità senza fronzoli autoreferenziali.
Certi ristoranti cult di Milano incentrati su prodotti alimentari specifici, per esempio, (non serve fare nomi, ormai stranoti) stanno dimostrando che è possibile offrire un’esperienza gastronomica eccellente, ma più rilassata e inclusiva, senza necessariamente inseguire riconoscimenti ufficiali, se non quelli tributati largamente dal proprio pubblico. Il loro palese successo evidenzia la tendenza verso una “democratizzazione” del fine-dining, dove la qualità resta alta ma l’ambiente si fa più accogliente e meno intimidatorio.
In sintesi, mentre il fine-dining come lo conosciamo potrebbe essere parzialmente in declino, ad esclusione di alcuni nomi meritoriamente intoccabili, ciò non segna, secondo me, la fine della gastronomia di alta qualità ma piuttosto una sua evoluzione.
È tempo di ripensare il modello, di abbracciare nuove idee e di adattarsi a un mondo che cambia, sempre con uno sguardo attento alle esigenze di chi si siede alle nostre tavole, cercando di esplicitare un’offerta più di sostanza e meno di apparenza.
E in questo panorama in trasformazione troveremo di certo una nuova definizione di cosa significhi realmente “fine-dining” oggi.
Editoriale tratto dal n.371 de La Madia Travelfood:
Il modello economico su cui si basa il fine-dining sta mostrando più di una crepa.