15/09/2024
ARTICOLO ASSOLUTAMENTE CONDIVISIBILE SULLO "SWOM" DEL MINISTRO SALVINI
Non dovremo dimenticare questo sabato 14 settembre in cui in un’aula di giustizia si è svelata con cristallina evidenza quale sia la posta in gioco in un processo che ha quale suo imputato un ministro e vicepremier della Repubblica. Perché quella posta in gioco interpella e definisce la qualità di una democrazia. Parliamo del principio di legalità, presidio ultimo dell’intangibilità dei diritti fondamentali della persona e dunque argine alla discrezionalità della politica. A maggior ragione quando declinata, come nel caso dei migranti sequestrati a bordo della nave Open Arms, con ottusa ferocia e sciagurata tracotanza.
Ecco perché l’importanza di questo processo e del suo esito (che resta evidentemente solo e soltanto nelle mani del collegio giudicante) prescinde persino dal suo imputato e dall’entità, pur assai significativa, della pena richiesta. Quel Matteo Salvini che ha tentato di trasformare un giudizio penale in un’ordalia a uso politico, di cui potersi dichiarare evidentemente martire in caso di condanna.
Ed ecco perché va dato atto alla Procura di Palermo, al suo procuratore capo Maurizio De Lucia, alla procuratrice aggiunta Marzia Sabella e ai due sostituti Geri Ferrara e Giorgia Righi di aver istruito e con coraggio portato a termine questo processo avendo un’unica bussola. Quella che durante la lunghissima requisitoria di ieri è risuonata nell’aula di Palermo con disarmante semplicità. «L’obbligo del soccorso in mare viene dall’Odissea, da tempi ancestrali. Persino in guerra c’è l’obbligo del salvataggio in mare a conferma dell’universalità dei beneficiari. In questo processo affrontiamo il tema dei diritti dell’uomo, la vita, la salute e la libertà personale che prevalgono sul diritto a difendere i confini».
Non siamo di fronte a principi negoziabili, evidentemente. E che non lo comprenda o finga di non comprenderlo Matteo Salvini è tutto sommato figlio del suo cinismo, del suo diritto di imputato di difendersi come meglio ritiene e della spregiudicata postura con cui, in questi anni, ha interpretato il suo ruolo di ministro dell’Interno prima e di ministro delle Infrastrutture e vicepremier oggi. Più grave è che la non negoziabilità dell’obbligo del soccorso in mare e della difesa di una vita umana in pericolo sia liquidata con argomenti da comizietto dalla Presidente del Consiglio che, ancora una volta, non solo dimostra di essere priva di qualsiasi cultura istituzionale ma persino digiuna di elementari nozioni di diritto. Sostenere, come ha fatto, che la Procura di Palermo «ha trasformato in un crimine il dovere di proteggere i confini italiani dall’immigrazione illegale» è un’enormità che dimostra a quale punto di manipolazione Giorgia Meloni è disposta a torcere il discorso democratico, prima ancora che politico. E chi sa cosa penserebbe Paolo Borsellino (le cui fotografie, per inciso, arredano il corridoio che porta agli uffici del Procuratore di Palermo) nell’ascoltare queste parole dalla donna che ha sostenuto di aver scelto giovanissima l’impegno politico proprio in nome del suo sacrificio.
La verità — qualunque dovesse essere l’esito di questo processo — è che per Giorgia Meloni, per la destra di cui lei e il suo governo sono espressione, è intollerabile che da un’aula di giustizia di Palermo, dei magistrati della Repubblica, in forza e nel nome della Costituzione cui anche Giorgia Meloni ha giurato fedeltà, abbiano ricordato che la politica non è legibus soluta. Che il populismo sovranista, in tutte le sue diverse declinazioni, e a qualunque latitudine (non è un caso che il trumpiano Musk abbia avvertito l’urgenza di dire volgarmente la sua sui magistrati di Palermo), non è immune dal controllo di legalità. A meno di non voler manomettere la natura, la forma e il sistema di controllo e bilanciamento di una democrazia, trasformandola in una democratura.
Naturalmente, che tutto questo avvenga sul terreno delle politiche migratorie è circostanza tutt’altro che neutra. E non solo perché in questo processo, nelle vicende che ha ricostruito, uno dei convitati di pietra è stato, sul piano della responsabilità politica, l’attuale ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. O perché il destino politico dell’imputato Matteo Salvini potrebbe uscirne definitivamente compromesso. Ma perché è emersa una semplice evidenza con cui qualsiasi politica migratoria, di qualunque segno politico, deve e dovrà fare i conti. Il rispetto dei diritti fondamentali della persona, della legge del mare, del diritto e delle convenzioni internazionali.
Questa destra di governo farebbe bene a tenerne conto. E con lei l’infernale macchina della propaganda che su una delle più grandi sfide globali del nostro tempo — le migrazioni dal Sud del mondo — ha contribuito a ingrassare la paura dell’opinione pubblica sequestrandone la discussione e l’intelligenza. Rendendola più feroce e insieme cinica. Come se il bollettino quotidiano dei morti nel Mediterraneo non ci interpellasse. E la soluzione si riducesse a rendere impossibile il lavoro delle navi soccorso delle Ong o costruire hotspot oltremare in cui parcheggiare un’umanità considerata di risulta. Ma naturalmente non lo farà. Sceglierà la strada più semplice. Che è facile indovinare, se il buongiorno si vede dal mattino. Aggredire il coraggio dei magistrati di Palermo, manipolarne le intenzioni e prepararsi a scrivere un altro capitolo della vendetta su ciò che resta dei presìdi del controllo di legalità nel nostro Paese.
Carlo Bonini, la Repubblica