03/01/2025
Mechane, n. 7 (2024), "Tecnica e scrittura"
https://mimesisjournals.com/ojs/index.php/mechane/article/view/4637/3598
La filosofia coincide, sin dalla sua origine, con il suo insegnamento. Un insegnamento che si avvale notoriamente di una precondizione: l’impiego di una tecnica di cui la filosofia fa un uso diffuso e che, forse proprio per questa ragione, come testimonia Platone, viene guardata con sospetto: la scrittura alfabetica. Duttile, sintetica, concisa: senza scrittura alfabetica, logos e linguaggio difficilmente avrebbero potuto colonizzare il mondo. Non è esagerato pensare, allora, che non c’è produzione di un mondo propriamente umano, sia materiale sia spirituale, senza la grafia, senza adoperarsi per la scrittura. La filosofia nasce quando inizia a impiegare tracce esteriorizzate di pensiero; tracce scritte in cui il logos, tradito rispetto alla sua condizione originaria, viene fatalmente diluito, quasi disperso; anche se è proprio grazie alla forma grafica che esso – il logos – diventa capace di sapere qualcosa della sua originarietà, che precede ed eccede l’espressione scritta. Allora forse la scrittura non è un semplice strumento, un corollario del pensiero, un veicolo per la sua manifestazione, ma, al contrario, ciò che rende pensabile per il pensiero un pensiero radicale ed essenziale. La scrittura è probabilmente il luogo di un gesto che assomiglia a una auto-calunnia, una presa di congedo da sé che tuttavia non può fare a meno di dirsi scrivendo. Se la diffusione epistemica della scrittura ai danni dell’oralità determina una certa modalità più recente del processo di ominizzazione, favorendo archiviazione e memoria, alimentando le tracce di un mondo che non può mai essere veramente perduto, perché qualcosa di scritto resta immancabilmente con cui fare i conti, allora l’ipotesi che guida questo numero di Mechane, che ne alimenta le varie traiettorie, pure quando esse assumono inclinazioni differenti, è che il vero processo ontogenetico dell’umano è scrivere senza sosta non tanto per comunicare, quanto piuttosto, come Maurizio Ferraris non manca di notare, per registrare. Ma registrare cosa? Nientemeno che una traccia “dell’essere stati-qui”. Più semplicemente – sulla scia delle memorabili opere di decostruzione di Derrida – possiamo dire non c’è bios senza che affiori, per quanto malamente abbozzata e prontamente dimenticata, da qualche parte, una bio-grafia. Per l’essere umano dell’ultimo atto (fino a oggi) dell’ominazione, prima della parola, del logos, vi è dunque la scrittura, il tornante propriamente tecnico che coincide con ogni bio-grafia. Poiché la scrittura fornisce un supporto alla necessità (umana) di comunicare, scompagnando la fisionomia della temporalità, sovvertendo la linearità del tempo, grazie alla sua persistenza, è possibile pensare che proprio grazie alla scrittura le forme della comunicazione umana si spingono oltre la comunicazione e diventano segni, impronte, in grado di scatenare un processo evolutivo la cui pregnanza non è calcolabile senza tenere presente questo assetto ontologico della scrittura: l’auto-riconoscimento di sé come specie. Ma che cosa accade quando, come oggi, anche le macchine scrivono? Spesso anche meglio di noi, facendo affidamento su una corrente algoritmica, il cui assemblaggio e decantazione solleva una serie di interrogativi di grande valore filosofico per la contemporaneità. La scrittura, ci potremmo chiedere, che continua ad essere una traccia, resta anche la testimonianza di un’alterità umana, dell’abilità dell’umano di essere immancabilmente in uno stato di agitazione, d’interrogazione? Oppure, qualcosa di noi si va smarrendo nella scrittura “intelligente” delle macchine? Nella scrittura, l’essere umano scrive sé stesso nel mondo, e nel farlo, diventa oggetto e testimone della propria esistenza. Da qui nasce una forma di coscienza, che supera la finitezza del momento vissuto e diventa paradossalmente, quando la scrittura in particolare prende una forma letteraria, poetica, anche l’occasione in cui la coscienza si smarrisce, eccede la propria canonica fisionomia, prendendo congedo dalla consapevolezza di sé. In fondo, si potrebbe ipotizzare, alterando la lezione di Lacan, che prima ancora di essere linguaggio, l’inconscio è forse scrittura. La scrittura, dunque, si rivela la tecnica fondamentale della bio-grafia non solo perché, attraverso la creazione di tracce, rende questa dimensione possibile, ma anche e soprattutto perché la articola; la scrittura, infatti, non si limita a dare informazioni e registrare il bios, bensì fonda un nuovo spazio di intervento, di orientamento possibile per la condotta, di riscrittura di ciò che è stato registrato.