28/09/2024
Mechane, n. 5 (2023), "Tecnica e guerra"
https://mimesisjournals.com/ojs/index.php/mechane/article/view/3262/2594
La storia della guerra e del sapere tecnico è chiaramente legata da un doppio nodo. Dalle opere di ingegneria antica di fortificazione e di assalto ai droni muniti di testate esplosive, passando per gli studi di balistica galileiani e il lancio di satelliti artificiali durante la Guerra Fredda, le esigenze belliche hanno stimolato e diretto in maniera decisiva gli sviluppi tecnologici, dai quali è derivato lungo i secoli una constante riformulazione dei mezzi e delle strategie introdotti dalle forze in contesa. Notoriamente, un’intensificazione essenziale del rapporto tra tecnica e guerra avviene con la Prima guerra mondiale, quando esplode il primo conflitto industriale della storia (per questo in fondo la Grande guerra è grande: l’arsenale militare è organizzato su scala industriale). La guerra dei materiali, probabilmente, rimane nostra contemporanea: l’infinita crisi in cui saremmo attualmente immersi, in questo senso, non sarebbe altro che l’irradiazione di quella esplosione avvenuta poco più di cento anni fa nel cuore dell’Europa civilizzata. L’intero arsenale di categorie analitiche contemporanee, allora, potrebbe rintracciare la propria filigrana genealogica essenziale nella terra di nessuno della Prima guerra mondiale. Ma naturalmente c’è di più: oggi la logica dei conflitti contemporanei, determinati da una forma di iper-tecnologizzazione, assapora proprio per questa ragione una tendenziale smaterializzazione e informatizzazione che permette alla guerra di essere agilmente integrata nelle vicende della vita contemporanea. Per intenderci: in un frammento di un più vasto lavoro di Harun Farocki, Ernste Spiele I: Watson ist in (2010), dedicato al legame tra l’impiego a distanza delle cosiddette armi intelligenti e la galassia della produzione d’immagini digitali, l’artista tedesco di origine indiana nel 2009 è ammesso in una classe di Marine Corps in California dove quattro allievi gestiscono carri armati impegnati, mediante una simulazione in Afghanistan, in una situazione di guerra. L’istallazione video di Farocki rende co-presenti, da un lato, soldati americani alle prese con una consolle e, dall’altra, vediamo quello che loro vedono: un ambiente desertico oppure un tipico scenario stilizzato di una città medio-orientale. I soldati si allenano alla guerra; si preparano al momento in cui dovranno azionare le armi “intelligenti”. Si esercitano in attesa di pilotare droni sul campo per disinnescare la minaccia nemica. I Marine ripresi da Farocki sono ancora dei soldati? La loro è ancora una guerra? Combattono? Chiusi in una locale a migliaia di chilometri di distanza dal campo di battaglia, si trovano alle prese con le difficoltà tipiche di un videogioco. Il loro lavoro si consuma, materialmente, in una formula dell’iper-visibilità che mette da parte l’esperienza della guerra eludendo la presenza del nemico. I soldati americani sono comodamente seduti e giocano alla guerra; il nemico, quando si farà sul serio, è altrove, del tutto dematerializzato. Farocki, in altre parole, ci mette sotto gli occhi una condizione che dovrebbe essere persino inconcepibile quando si ha a che fare con la guerra: la cancellazione del corpo; l’assenza della morte come vero e proprio fantasma delle battaglie. Dunque, è in ambito propriamente estetico che si impone con estrema chiarezza il dilemma di come rappresentare la catastrofe; o meglio: come rappresentare il disastro di un’assenza. Allora, quando Farocki ci lascia vedere una visione eterotopica del campo di battaglia "senza nemici", ritorniamo probabilmente al Primo conflitto mondiale: l’assenza del corpo mentre i corpi sono devastati si concretizza sul fronte occidentale della prima carneficina del XX secolo, quando, durante la guerra di posizione, il nemico è irreperibile e il soldato prende confidenza con un’assenza che lo minaccia senza tregua proprio perché incorporea come il nulla da cui piovono le granate. Se è vero che le guerre contemporanee presentano uno spessore che non autorizza a compararle ai conflitti inter-statuali del XX secolo, non è scontato che attualmente si realizzi, ad esempio con l’impiego dei droni, un’effettiva svolta ontologica della fisionomia dei conflitti rispetto al passato. Oggi, in effetti, chiamiamo guerra ciò che da tempo non è più tale; la guerra, infatti, non ha più generalmente a che fare con il suo tradizionale statuto giuridico definito, innanzitutto, a livello costituzionale e internazionale: un gesto di un’entità sovrana che dichiara, secondo determinate procedure, la propria ostilità nei confronti di un altro soggetto sovrano giuridicamente riconosciuto. La guerra non è più la guerra: emergono piuttosto conflitti la cui legittimazione è basata su un terreno sostanzialmente extra-giuridico e post-nazionale. Ciò implica che lo scontro si diffonde potenzialmente dappertutto: non ha confini, limiti normativi, una forma, un senso. Nell’ultimo secolo, l’universo industriale muta il carattere della visione dei conflitti armati: non soltanto, per essere chiari, il nemico è distante, ma in molti casi non lo si vede proprio più. A questo punto, forse non è esagerato pensare che la guerra diventa un fenomeno essenzialmente estetico. Vale a dire, legato alla riproduzione d’immagini e alla loro manipolazione, diffusione, archiviazione. Naturalmente non mancano esperienze arcaiche, persino il corpo a corpo di altri tempi, ma si tratta di rimarcare una tendenza prominente a cui siamo, nell’ultimo quarto di secolo, consegnati: la guerra è ciò con cui si può convivere agilmente perché diventa un avvenimento incapace d’interrompere il corso normale delle (nostre) cose. La caratura delle guerre contemporanee, legata alla loro potenziale iper-visibilità, implica un processo la cui evidenza è sotto i nostri occhi ma la cui pensabilità rimane ancora parziale: la parabola che conduce dal testimone – la figura archetipica della dicibilità dell’orrore nel XX secolo – allo spettatore. Ci domandiamo: di che esperienza si tratta quando per una guerra non ci sono praticamente più testimoni, i testimoni chiamati a dire l’indicibile dell’orrore, ma soltanto una massa, amorfa, enorme, destinata a vedere uno spettacolo dove potenzialmente possiamo vedere tutto e per questo motivo siamo sotto la tutela di una censura ipertrofica?