28/12/2021
IL 28 DICEMBRE 1943,
78 ANNI FA, L’ASSASSINIO
DEI SETTE FRATELLI CERVI
MARTIRI COMUNISTI
DELLA FEROCIA FASCISTA.
RIPORTIAMO IL RACCONTO
DI RUBENS TEDESCHI SULL’UNITA’
SCRITTO A 20 ANNI DELL’ECCIDIO
DEI PATRIOTI REGGIANI
Rubens Tedeschi è stato un grande giornalista e raffinato critico musicale dell’Unità. Straordinari furono i suoi servizi dal Belgio per il disastro di Marcinelle, seguì in Israele il processo Eichmann. Fu per tutti il principe della critica musicale, successe al compositore Giacomo Manzoni in questo ruolo sul giornale fondato da Gramsci. E’ scomparso a Parma nel 2015. Ecco il suo racconto a vent’anni dall’eccidio dei fratelli Cervi.
di Rubens Tedeschi
Vent'anni or sono, alle prime luci dell'alba, al poligono di tiro di Reggio Emilia, una compagnia della Guardia Nazionale Repubblicana, in camicia nera, fucilava i sette fratelli Cervi e, con loro, il giovane «disertore » Quarto Camurri, reo di aver gettato la divisa del tradimento. Al padre, al vecchio Alcide, non era stato permesso di seguire i figli: «Tu sei vecchio » gli dissero respingendolo nella cella del carcere di San Tommaso e si portarono via i giovani, perché erano i giovani che dovevano morire ed essi, i carnefici, non potevano saper quanta forza e quanto coraggio rimanesse ancora in quell'antico ceppo. Ora, a ottantotto anni, il vecchio Alcide se ne sta ancora secco e diritto nella casa ricostruita, tra le nuore e un nugolo di nipoti e pronipoti, e mi dice: «Così doveva essere. I miei figli erano avviati su una strada di cui conoscevano la fine. Qualcuno deve essere il primo a morire e forse sarò io, mi diceva Aldo. Per questo non bisogna piangere. Molti vengono qui e mi parlano sui miei e sui loro morti. Ma io ripeto sempre: le lagrime li uccidono ancora una volta, gli prendono lo spirito. E' all'avvenire che bisogna guardare perché è nell’avvenire che i morti continuano a vivere».
PAPA' CERVI. Dell'avvenire il vecchio Cervi parla con la calma distaccata di un testimonio. Come se egli ci vivesse già. Non che pensi di vivere in eterno. Sa che un giorno uscirà da questo mondo, cosi come sa che il sole sorge all’alba e scompare al tramonto. Anche questo è nella natura. Non bisogna essere impazienti né timorosi. Le generazioni si susseguono e compiono ciò che gli altri hanno cominciato. E’ l’antica saggezza del contadino abituato a trarre la vita dalla terra. I Cervi furono sempre contadini, e non guardavano alla terra, ma al frutto. Quando si studia la loro vita, quando si cerca di estrarne la storia dalla leggenda in cui sono entrati con la morte, è questo l’elemento che colpisce: la straordinaria lucidità con cui essi vedevano il domani nell’oggi, l’ostinazione (i Cervi sono matti, diceva la gente) con cui essi camminarono sempre un passo avanti sui propri tempi.
IL VOLANTINO. C’è, nel piccolo museo allestito in una stanza della casa di Campegine, un volantino che probabilmente e stato scritto da Aldo, il terzo dei fratelli, poco prima del luglio del '43; uno di quei volantini che venivano battuti a macchina e affissi sui muri del paese: “Gettiamo la maschera della paura — esso afferma — perché soltanto la nostra paura che fa forte il fascismo. II fascismo non è che un ca****re che va in cerca di sepoltura e non aspetta che un popolo compatto e senza paura che gli dia sepoltura. Come tutti i cadaveri stando sopra la terra emanano puzza ed infezione nell’aria, cosi fa il ca****re del fascismo sul bene dell'umanità”.
Mussolini annunciava impossibili vittorie dal balcone di palazzo Venezia, la milizia arrestava gli scontenti, il re decorava i generali, ma i Cervi - nella loro cascina isolata - sentivano già la puzza del regime morto e invitavano i contadini e gli operai a unirsi, a formare “comitati per la difesa dei comuni interessi” e a seppellire il ca****re. Essi rifiutavano il grano all'ammasso e lo tenevano per il giorno in cui lo avrebbero distribuito ai combattenti dell’antifascismo, ascoltavano radio Mosca, leggevano l'Unità clandestina e si preparavano alle lotte del domani. Per questo l’8 settembre sono già pronti. Non perdono un'ora. La loro battaglia si svolge tutta nel breve arco di due mesi e mezzo, mentre la Resistenza nel resto del Paese va lentamente e faticosamente organizzandosi, essi pubblicano già le direttive del Partito comunista clandestino, mentre il comitato militare del PCI forma le prime squadre gappiste in pianura e in montagna non c’è ancora nulla, essi sono il primo GAP.
CASA CERVI. La loro casa diventa immediatamente un centro d'azione. Qui vengono indirizzati i prigionieri inglesi, francesi, americani, russi evasi dai campi. I Cervi li vestono, li nutrono, li invitano a restare con loro per combattere la guerra partigiana o li indirizzano verso le linee alleate. Aiutare i prigionieri alleati è importante e nella loro casa ne passano almeno ottanta ma i Cervi non vogliono istituire una stazione di smistamento, ma un'unità combattente. Occorrono armi, occorre battersi affinché tutta la gente si faccia coraggio e «getti la maschera della paura ».
LE ARMI. Come procurarsi le armi? Prendendole al nemico, facendosele dare dai «disertori» delle formazioni repubblichine, spingendo gli altri contadini a rubarle e a consegnarle loro in cambio di grano, di carne, di b***o. Si sa che i Cervi aiutano chiunque ha bisogno, ma si sa anche che essi si fanno pagare non in danaro, ma in azioni di resistenza. ”Se vuoi la farina, va a tagliare i fili della corrente elettrica, portami un fucile, aiuta un prigioniero evaso”. Tutti devono imparare a combattere. A fine settembre Aldo Cervi si reca sulle montagne del Reggiano con la speranza di organizzare i contadini. Vanno con lui Otello Sarzi, il compagno di tutte le imprese arrischiate, cinque russi, due inglesi, un sudafricano e altri due partigiani italiani. Viaggiano di notte, sono male armati e le difficolta sono grandi. La montagna non è ancora matura per la sollevazione. Tuttavia riescono a disarmare vari fascisti, a impedire una requisizione di grano. Un certo Arturo Pedroni li informa che, nella caserma dei carabinieri di Villa Minozzo, sono accatastati i fucili da caccia tolti ai paesani. Con lui organizzano un colpo per rubarli, ma quando arrivano i tedeschi hanno già trasferito le armi. Decidono allora di disarmare il presidio dei carabinieri di Teano e, nella caserma conquistata, trovano cinque moschetti e quattro pistole. Ora bisogna ritirarsi e il gruppo trova un primo rifugio nella canonica di Don Pasquino Borghi, il coraggioso parroco di Tapignola che, nel gennaio del '44, cadrà anch'egli sotto il piombo fascista. La spedizione non ha dato tutti i risultati sperati. Le popolazioni sono ancora incerte e l’organizzazione della montagna appare prematura, ma I'effetto non è trascurabile: l’esempio è contagioso. La voce dell'esistenza di una banda partigiana che ha battuto i fascisti si diffonde e si moltiplica. I giornali fascisti parlano di centinaia di partigiani e le autorità repubblichine credono di aver di fronte una forza soverchiante. Se ne ha una prova dopo il fallito attentato contro il federate fascista, avvocato Giuseppe Scolari, organizzato in collaborazione con il comitato militare del partito comunista. La strada per cui deve passare I'auto del gerarca viene sbarrata, ma l’autista si getta abilmente nei prati e sfugge all'agguato. II giorno seguente un manifesto del capo della provincia annuncia: «Ai già numerosi episodi di violenza e di proditorietà che si sono verificati in provincia in questo ultimo periodo, si è aggiunta la vile imboscata contro il Commissario della Federazione fascista repubblicana». Per eliminare «queste forme di vigliacco brigantaggio sono stati arrestati trenta elementi che, per il loro recente e remoto passato, possono ritenersi animatori, mandatari o mandanti dei movimenti antifascisti». Tra questi trenta, avverte il bando, il primo, il decimo, il ventesimo e il trentesimo verranno deportati in Polonia in caso di attentati «non cruenti», o passati per le armi qualora venga ucciso o ferito un fascista. Così i repubblichini, spaventati da una resistenza che la loro paura rende più grande della realtà, inaugurano il sistema degli ostaggi di cui i Cervi dovevano essere, di lì a breve, le prime vittime. Non per questo i sette fratelli e il padre rinunciano all'azione: la paura si combatte col coraggio; occorre osare affinché il popolo si desti e la battaglia si estenda a tutto il paese. «Si dovranno vedere i morti per le strade — dicono , — Nemmeno noi sette ci troveremo tutti alla fine, ma il mondo sarà cambiato».
OSARE. Osano senza tener conto di alcuna regola di prudenza, agiscono alla luce del sole, disprezzando le regole della clandestinità. Sono imprudenti? Certo, e sovente giungono loro ammonimenti dai dirigenti del Comitato di Liberazione e del Partito comunista cui aderiscono. Ma essi non ne tengono conto: disprezzano i fascisti, sono orgogliosi della propria incrollabile unità e soprattutto sono convinti che soltanto con l’esempio aperto si possono spezzare le esitazioni che ancora frenano la nascita di un vero e proprio esercito ribelle. Alla prudenza di coloro che vorrebbero per prima cosa creare l’organizzazione, essi obiettano che senza azione non nasce nessuna organizzazione.
Renato Nicolai che, dopo aver raccolto i ricordi di Alcide Cervi, sta ora preparando altro materiale per un film, mi racconta un episodio inedito estremamente illuminante. Un giorno, Aldo doveva consegnare un pacco di proiettili e munizioni al compagno Lambruschi con cui aveva appuntamento sulla piazza del paese, dove ora sorge la cooperativa. Quando giunge, con le armi in un cestello penzolante dal manubrio della bicicletta, trova una compagnia di tedeschi e di carabinieri schierati sui posto. Aldo non si preoccupa: impugna il cestello e lo consegna a Lambruschi sotto gli occhi dei militi, annunciando a gran voce: «Prendi, sono prugne. A casa ne abbiamo delle altre, ma a mangiarle fanno male alla pancia». Più tardi il compagno gli rimprovera la avventatezza. Aldo scuote le sp***e. «Per chi ha paura — ribatte — c'è un posto in coda». Il che é ingiusto, forse, ma é il suo stile.
EROICA IMPRUDENZA. Con la medesima eroica imprudenza i fratelli, travestiti da nazisti, disarmano i carabinieri della caserma di San Martino in Rio. E’ la loro ultima azione di guerra. La loro casa e piena di prigionieri evasi e il C.L.N, ordina che vengano sfollati. A gruppi li fanno partite verso il Sud, ma il 25 novembre, quando un centinaio di fascisti armati sino ai denti circonda la casa, ne restano ancora quattro: due russi, un inglese, un sudafricano, oltre al disertore Camurri e al compagno Castellucci che, parlando francese, si fece passare per gollista e riuscì poi a scappare.
«Cervi arrendetevi! » grida il capitano Pilati che comanda la compagnia repubblichina. I Cervi rispondono con le armi ed escono soltanto quando nella cascina incendiata dal nemico le munizioni sono esaurite. Così i sette vengono presi col vecchio padre. Li legano con un filo di ferro ai polsi, ma Gelindo, il maggiore, tenta ancora, con una gomitata al guidatore di far deviare in un fosso l’autocarro su cui li hanno caricati.
L’EVASIONE. E’ il primo dei sette tentativi di fuga, tutti falliti. Avevano vinto sempre, ma ora sono destinati a perdere. I Cervi però non si rassegnano. Liberi o in carcere, la loro divisa resta sempre la medesima: osare e battersi. Nella prigione dei Servi scavano un buco nel muro e vengono trasferiti qualche ora prima di scappare. Nel carcere di San Tommaso si accordano con un secondino, certo Pedrini e, per mezzo suo, Aldo manda un biglietto a casa per preparate l'evasione.
IL BIGLIETTO INEDITO. Non è mai stato pubblicato e vale la pena di riportarlo perché in esso vi é tutto il carattere dei Cervi. Esso è diretto a Bianca Boni, una compagna:
«Cara Bianca, accompagnerai il latore del presente biglietto dal cugino Massimo e darai il biglietto a mio cugino medesimo... Al signore che porta questo scritto darai qualche cosa da mangiare come lardo, b***o e farina a sua richiesta. Conosciuta la sua abitazione lo metterai in collegamento con i compagni di Parma per mezzo della Lucia o di Berto come meglio riuscirai. Se c'è la possibilità di ritentare il colpo di liberarci come si era progettato per gli altri, lui é in grado di dare spiegazioni perché fa servizio qui dentro, dunque se i compagni decidono di fare qualche cosa possono agire: l’operazione non é difficile. Di a Berto, Gigi e Didimo che stiano via di casa perché la milizia li cerca attivamente. Noi restiamo ancora in attesa per un po' di tempo. Dunque c'é tempo disponibile per fare tutto, se puoi col medesimo mezzo ci darai le notizie di casa e del movimento nostro. Noi qui siamo pieni di coraggio non disperiamo mai, sicuri di vincere, anche se dovessimo morire. In attesa degli eventi ti saluto anche a nome dei fratelli e del papà. Saluti a casa nostra e alla tua famiglia, ai compagni e alle compagne».
In questo modo, in prigione, i Cervi organizzano la fuga, mettono in guardia i compagni di cui hanno udito fare i nomi durante gli interrogatori, si preoccupano della famiglia, del movimento di liberazione e non disperano «sicuri di vincere anche se dovessimo morire». Non hanno nulla del martire rassegnato, lottano fino all’ultimo per salvarsi, ma comunque vadano le cose per loro sanno che il risultato finale e certo. II mazzetto di lettere inedite, amorosamente custodite nel museo ne costituisce la mirabile testimonianza. Alla famiglia mandano incoraggiamenti e consigli sensati. «Vendete tutte le bestie così il lavoro sarà meno, anche il cavallo, se dovete pagare il fieno, viene troppo caro»... Scrive Ovidio il 12 dicembre; quattro giorni dopo Gelindo consiglia anch'egli di vendere i maiali: «pensate di passare la vita nel miglior modo che sia possibile e con questo ci rassegneremo al destino che ci attende». Aldo che, assieme a Gelindo, si era attribuito tutte le responsabilità, spera ancora che lo stratagemma riuscirà e conforta la mamma: «Gli altri ritorneranno a casa al più tardi a fine guerra e così io, se ci sarò ancora; per me però non mi faccio illusioni ad ogni modo sto tranquillo e non mi dò pensiero qualunque siano gli eventi ». II 27, alia vigilia della morte, Ettore invia l’ultimo messaggio «Sempre coraggio e tutto sarà niente». La parabola dei sette fratelli è giunta alla fine. Mentre l’ideale di libertà trasforma i semplici contadini in eroi, la bestialità fascista trasforma le camicie nere in belve assetate di sangue. Pochi giorni prima una squadra di gappisti ha giustiziato il seniore della milizia Giovanni Fagiani e su “Diana Repubblicana" l’ufficiale della G.N.R. Armando Wender scrive un delirante articolo che è un preannuncio di morte per i prigionieri: «Non passerà molto tempo che la spada vindice del fascismo repubblicano cadrà inesorabilmente, senza misericordia, senza pietà sugli avversari. Per ognuno dei nostri che verrà colpito dovranno pagare dieci, cento, mille degli altri. Tutto il sangue imbastardito dei prezzolati sicari, dei cinici assassini, non basta a ripagare una sola goccia del purissimo, adamantino . sangue dei nostri martiri». II 27, un'altra squadra di gappisti fa giustizia del segretario fascista di Bagnolo, Vincenzo Onfiani. II prefetto Savorgnan, il federate Scolari e il Werner si radunano in municipio. «Basta! Questa è la goccia che fa traboccare il vaso» grida il Savorgnan e un altro suggerisce: «Fuciliamo i Cervi». La decisione e presa. I Cervi vengono uccisi e, con loro il giovane disertore Quarto Camurri. II “Sole Fascista” pubblica il seguente comunicato:
LA REAZIONE «Questa notte si è riunito di urgenza il Tribunale Straordinario il quale ha pronunciato la sentenza capitale a carico di otto elementi, rei confessi di violenze e aggressioni di carattere comune e politico, di connivenza e favoreggiamento con elementi antinazionali e comunisti, di sovvertimento dell'ordine nazionale condotto con la propaganda e con l’uso delle armi. La sentenza è stata eseguita all'alba di oggi 28 dicembre» . Tre giorni dopo i fratelli Cervi avrebbero dovuto fuggire. Le p***e del plotone di esecuzione li avevano preceduti. Gli assassini, come sottolinea "La Lotta", organo clandestino del Partito comunista reggiano, non avevano osato rivelare il nome delle loro vittime e avevano attribuito il delitto alla sentenza di un tribunale inesistente. L'enormità del crimine faceva ben prevedere la reazione popolare. E, infatti, a poco a poco, la voce si sparge nelle campagne. Allo stupore segue l’indignazione, all’indignazione il furore. I giovani accorrono nella Resistenza: le cinque squadre di GAP del dicembre diventano oltre cinquanta in primavera, i distaccamenti partigiani si ingrossano in montagna, i fascisti e i tedeschi vengono impegnati in sanguinose battaglie. La morte dei fratelli Cervi completa l’opera della loro vita. La gente, scossa dall’arditezza delle loro imprese, apprende dalla loro fine che l’unica strada è ormai quella della lotta, che il nemico spietato non darà né potrà ricevere più quartiere, che ormai per la salvezza di tutti c'è un'unica possibilità: la vittoria. E la Resistenza reggiana si estende come una fiamma eliminando ogni differenza tra esercito e popolazione: tutti combattono il fascismo.
IL VECCHIO ALCIDE. Per questo, come dice il vecchio Alcide, non bisogna piangere i caduti. Bisogna costruire quel mondo che essi avevano visto nel futuro, se non per sé, per gli altri: un mondo di pace, di concordia, di progresso; un mondo in cui la grande cascina dei Cervi, bruciata dai fascisti e ricostruita dal vecchio nonno, dai nipoti e dai pronipoti uniti nell'opera e nella fede, è un simbolo e un modello.