VIVA VERDI

VIVA VERDI VIVA VERDI è un settimanale di appuntamenti e ascolti musicali, in onda il lunedì dalle 23.45 all'una su Radio Nettuno (97.00 fm - www.radionettuno.it)

16/07/2024

L'OPPOSIZIONE A MADURO PERDE UN ALTRO PEZZO. ACCUSE DI COMPLOTTO E CORRUZIONE
L'ex leader dell'opposizione del partito di Azione Democratica, Carlos Prosperi, si è dichiarato oggi indipendente e ha annunciato il suo sostegno al candidato Nicolás Maduro, che considera l'unico in grado di mantenere la pace e unificare tutto il Venezuela.

Il politico precandidato alla presidenza nelle elezioni primarie di destra dello scorso anno, nelle dichiarazioni alla stampa presso l'Hotel Meliá di Caracas, ha denunciato un complotto di corruzione dei suoi correligionari volto ad arricchire un piccolo gruppo.

Prosperi ha definito questo atto illegale come un “semplice e volgare furto” e lo ha esemplificato con la presentazione di documenti sui trasferimenti a lui effettuati, che ha detto di aver respinto, non appena sono cessate le sue funzioni ed è stato rimosso dagli incarichi presso l'Assemblea Nazionale (parlamento) a seguito della scadenza del suo mandato.

Ha parlato di pagamenti fino a un milione di dollari e ha chiesto al procuratore generale Tarek William Saab, alle autorità e al governo degli Stati Uniti, compreso il Federal Bureau of Investigation, di “avviare un’indagine sull’appropriazione indebita effettuata, sui gravi danni arrecati al Venezuela e sull’arricchimento illecito di un piccolo gruppo".

Il politico 46enne ha assicurato che l’unico che può mantenere la pace in Venezuela, garantire la crescita economica e il dialogo con tutti i partiti, è il presidente Nicolás Maduro.

Ha sottolineato di aver preso “la ferma decisione categorica” di sostenere il candidato ufficiale affinché “possa continuare a garantire pace e tranquillità ai nostri fratelli venezuelani”.

In questo senso, ha dichiarato di appoggiare il capo dello Stato con la proposta di indire un grande dialogo nazionale subito dopo la sua elezione, cosa che considera una
“riconciliazione definitiva” con tutti i connazionali.

Prosperi ha invitato Maduro a formare un governo di unità nazionale, in cui tutti i venezuelani "possano contribuire con un granello di sabbia a restituire il futuro, la prosperità, la libertà una volta per tutte a ciascuno dei fratelli venezuelani".

Il progetto di alcuni "piccoli uomini" è quello di generare violenza che, ha affermato, “non possiamo accettare perché tutti vogliamo vivere in pace e tranquillità.

28/12/2021

IL 28 DICEMBRE 1943,
78 ANNI FA, L’ASSASSINIO
DEI SETTE FRATELLI CERVI
MARTIRI COMUNISTI
DELLA FEROCIA FASCISTA.
RIPORTIAMO IL RACCONTO
DI RUBENS TEDESCHI SULL’UNITA’
SCRITTO A 20 ANNI DELL’ECCIDIO
DEI PATRIOTI REGGIANI

Rubens Tedeschi è stato un grande giornalista e raffinato critico musicale dell’Unità. Straordinari furono i suoi servizi dal Belgio per il disastro di Marcinelle, seguì in Israele il processo Eichmann. Fu per tutti il principe della critica musicale, successe al compositore Giacomo Manzoni in questo ruolo sul giornale fondato da Gramsci. E’ scomparso a Parma nel 2015. Ecco il suo racconto a vent’anni dall’eccidio dei fratelli Cervi.

di Rubens Tedeschi

Vent'anni or sono, alle prime luci dell'alba, al poligono di tiro di Reggio Emilia, una compagnia della Guardia Nazionale Repubblicana, in camicia nera, fucilava i sette fratelli Cervi e, con loro, il giovane «disertore » Quarto Camurri, reo di aver gettato la divisa del tradimento. Al padre, al vecchio Alcide, non era stato permesso di seguire i figli: «Tu sei vecchio » gli dissero respingendolo nella cella del carcere di San Tommaso e si portarono via i giovani, perché erano i giovani che dovevano morire ed essi, i carnefici, non potevano saper quanta forza e quanto coraggio rimanesse ancora in quell'antico ceppo. Ora, a ottantotto anni, il vecchio Alcide se ne sta ancora secco e diritto nella casa ricostruita, tra le nuore e un nugolo di nipoti e pronipoti, e mi dice: «Così doveva essere. I miei figli erano avviati su una strada di cui conoscevano la fine. Qualcuno deve essere il primo a morire e forse sarò io, mi diceva Aldo. Per questo non bisogna piangere. Molti vengono qui e mi parlano sui miei e sui loro morti. Ma io ripeto sempre: le lagrime li uccidono ancora una volta, gli prendono lo spirito. E' all'avvenire che bisogna guardare perché è nell’avvenire che i morti continuano a vivere».

PAPA' CERVI. Dell'avvenire il vecchio Cervi parla con la calma distaccata di un testimonio. Come se egli ci vivesse già. Non che pensi di vivere in eterno. Sa che un giorno uscirà da questo mondo, cosi come sa che il sole sorge all’alba e scompare al tramonto. Anche questo è nella natura. Non bisogna essere impazienti né timorosi. Le generazioni si susseguono e compiono ciò che gli altri hanno cominciato. E’ l’antica saggezza del contadino abituato a trarre la vita dalla terra. I Cervi furono sempre contadini, e non guardavano alla terra, ma al frutto. Quando si studia la loro vita, quando si cerca di estrarne la storia dalla leggenda in cui sono entrati con la morte, è questo l’elemento che colpisce: la straordinaria lucidità con cui essi vedevano il domani nell’oggi, l’ostinazione (i Cervi sono matti, diceva la gente) con cui essi camminarono sempre un passo avanti sui propri tempi.

IL VOLANTINO. C’è, nel piccolo museo allestito in una stanza della casa di Campegine, un volantino che probabilmente e stato scritto da Aldo, il terzo dei fratelli, poco prima del luglio del '43; uno di quei volantini che venivano battuti a macchina e affissi sui muri del paese: “Gettiamo la maschera della paura — esso afferma — perché soltanto la nostra paura che fa forte il fascismo. II fascismo non è che un ca****re che va in cerca di sepoltura e non aspetta che un popolo compatto e senza paura che gli dia sepoltura. Come tutti i cadaveri stando sopra la terra emanano puzza ed infezione nell’aria, cosi fa il ca****re del fascismo sul bene dell'umanità”.
Mussolini annunciava impossibili vittorie dal balcone di palazzo Venezia, la milizia arrestava gli scontenti, il re decorava i generali, ma i Cervi - nella loro cascina isolata - sentivano già la puzza del regime morto e invitavano i contadini e gli operai a unirsi, a formare “comitati per la difesa dei comuni interessi” e a seppellire il ca****re. Essi rifiutavano il grano all'ammasso e lo tenevano per il giorno in cui lo avrebbero distribuito ai combattenti dell’antifascismo, ascoltavano radio Mosca, leggevano l'Unità clandestina e si preparavano alle lotte del domani. Per questo l’8 settembre sono già pronti. Non perdono un'ora. La loro battaglia si svolge tutta nel breve arco di due mesi e mezzo, mentre la Resistenza nel resto del Paese va lentamente e faticosamente organizzandosi, essi pubblicano già le direttive del Partito comunista clandestino, mentre il comitato militare del PCI forma le prime squadre gappiste in pianura e in montagna non c’è ancora nulla, essi sono il primo GAP.

CASA CERVI. La loro casa diventa immediatamente un centro d'azione. Qui vengono indirizzati i prigionieri inglesi, francesi, americani, russi evasi dai campi. I Cervi li vestono, li nutrono, li invitano a restare con loro per combattere la guerra partigiana o li indirizzano verso le linee alleate. Aiutare i prigionieri alleati è importante e nella loro casa ne passano almeno ottanta ma i Cervi non vogliono istituire una stazione di smistamento, ma un'unità combattente. Occorrono armi, occorre battersi affinché tutta la gente si faccia coraggio e «getti la maschera della paura ».

LE ARMI. Come procurarsi le armi? Prendendole al nemico, facendosele dare dai «disertori» delle formazioni repubblichine, spingendo gli altri contadini a rubarle e a consegnarle loro in cambio di grano, di carne, di b***o. Si sa che i Cervi aiutano chiunque ha bisogno, ma si sa anche che essi si fanno pagare non in danaro, ma in azioni di resistenza. ”Se vuoi la farina, va a tagliare i fili della corrente elettrica, portami un fucile, aiuta un prigioniero evaso”. Tutti devono imparare a combattere. A fine settembre Aldo Cervi si reca sulle montagne del Reggiano con la speranza di organizzare i contadini. Vanno con lui Otello Sarzi, il compagno di tutte le imprese arrischiate, cinque russi, due inglesi, un sudafricano e altri due partigiani italiani. Viaggiano di notte, sono male armati e le difficolta sono grandi. La montagna non è ancora matura per la sollevazione. Tuttavia riescono a disarmare vari fascisti, a impedire una requisizione di grano. Un certo Arturo Pedroni li informa che, nella caserma dei carabinieri di Villa Minozzo, sono accatastati i fucili da caccia tolti ai paesani. Con lui organizzano un colpo per rubarli, ma quando arrivano i tedeschi hanno già trasferito le armi. Decidono allora di disarmare il presidio dei carabinieri di Teano e, nella caserma conquistata, trovano cinque moschetti e quattro pistole. Ora bisogna ritirarsi e il gruppo trova un primo rifugio nella canonica di Don Pasquino Borghi, il coraggioso parroco di Tapignola che, nel gennaio del '44, cadrà anch'egli sotto il piombo fascista. La spedizione non ha dato tutti i risultati sperati. Le popolazioni sono ancora incerte e l’organizzazione della montagna appare prematura, ma I'effetto non è trascurabile: l’esempio è contagioso. La voce dell'esistenza di una banda partigiana che ha battuto i fascisti si diffonde e si moltiplica. I giornali fascisti parlano di centinaia di partigiani e le autorità repubblichine credono di aver di fronte una forza soverchiante. Se ne ha una prova dopo il fallito attentato contro il federate fascista, avvocato Giuseppe Scolari, organizzato in collaborazione con il comitato militare del partito comunista. La strada per cui deve passare I'auto del gerarca viene sbarrata, ma l’autista si getta abilmente nei prati e sfugge all'agguato. II giorno seguente un manifesto del capo della provincia annuncia: «Ai già numerosi episodi di violenza e di proditorietà che si sono verificati in provincia in questo ultimo periodo, si è aggiunta la vile imboscata contro il Commissario della Federazione fascista repubblicana». Per eliminare «queste forme di vigliacco brigantaggio sono stati arrestati trenta elementi che, per il loro recente e remoto passato, possono ritenersi animatori, mandatari o mandanti dei movimenti antifascisti». Tra questi trenta, avverte il bando, il primo, il decimo, il ventesimo e il trentesimo verranno deportati in Polonia in caso di attentati «non cruenti», o passati per le armi qualora venga ucciso o ferito un fascista. Così i repubblichini, spaventati da una resistenza che la loro paura rende più grande della realtà, inaugurano il sistema degli ostaggi di cui i Cervi dovevano essere, di lì a breve, le prime vittime. Non per questo i sette fratelli e il padre rinunciano all'azione: la paura si combatte col coraggio; occorre osare affinché il popolo si desti e la battaglia si estenda a tutto il paese. «Si dovranno vedere i morti per le strade — dicono , — Nemmeno noi sette ci troveremo tutti alla fine, ma il mondo sarà cambiato».

OSARE. Osano senza tener conto di alcuna regola di prudenza, agiscono alla luce del sole, disprezzando le regole della clandestinità. Sono imprudenti? Certo, e sovente giungono loro ammonimenti dai dirigenti del Comitato di Liberazione e del Partito comunista cui aderiscono. Ma essi non ne tengono conto: disprezzano i fascisti, sono orgogliosi della propria incrollabile unità e soprattutto sono convinti che soltanto con l’esempio aperto si possono spezzare le esitazioni che ancora frenano la nascita di un vero e proprio esercito ribelle. Alla prudenza di coloro che vorrebbero per prima cosa creare l’organizzazione, essi obiettano che senza azione non nasce nessuna organizzazione.
Renato Nicolai che, dopo aver raccolto i ricordi di Alcide Cervi, sta ora preparando altro materiale per un film, mi racconta un episodio inedito estremamente illuminante. Un giorno, Aldo doveva consegnare un pacco di proiettili e munizioni al compagno Lambruschi con cui aveva appuntamento sulla piazza del paese, dove ora sorge la cooperativa. Quando giunge, con le armi in un cestello penzolante dal manubrio della bicicletta, trova una compagnia di tedeschi e di carabinieri schierati sui posto. Aldo non si preoccupa: impugna il cestello e lo consegna a Lambruschi sotto gli occhi dei militi, annunciando a gran voce: «Prendi, sono prugne. A casa ne abbiamo delle altre, ma a mangiarle fanno male alla pancia». Più tardi il compagno gli rimprovera la avventatezza. Aldo scuote le sp***e. «Per chi ha paura — ribatte — c'è un posto in coda». Il che é ingiusto, forse, ma é il suo stile.

EROICA IMPRUDENZA. Con la medesima eroica imprudenza i fratelli, travestiti da nazisti, disarmano i carabinieri della caserma di San Martino in Rio. E’ la loro ultima azione di guerra. La loro casa e piena di prigionieri evasi e il C.L.N, ordina che vengano sfollati. A gruppi li fanno partite verso il Sud, ma il 25 novembre, quando un centinaio di fascisti armati sino ai denti circonda la casa, ne restano ancora quattro: due russi, un inglese, un sudafricano, oltre al disertore Camurri e al compagno Castellucci che, parlando francese, si fece passare per gollista e riuscì poi a scappare.
«Cervi arrendetevi! » grida il capitano Pilati che comanda la compagnia repubblichina. I Cervi rispondono con le armi ed escono soltanto quando nella cascina incendiata dal nemico le munizioni sono esaurite. Così i sette vengono presi col vecchio padre. Li legano con un filo di ferro ai polsi, ma Gelindo, il maggiore, tenta ancora, con una gomitata al guidatore di far deviare in un fosso l’autocarro su cui li hanno caricati.

L’EVASIONE. E’ il primo dei sette tentativi di fuga, tutti falliti. Avevano vinto sempre, ma ora sono destinati a perdere. I Cervi però non si rassegnano. Liberi o in carcere, la loro divisa resta sempre la medesima: osare e battersi. Nella prigione dei Servi scavano un buco nel muro e vengono trasferiti qualche ora prima di scappare. Nel carcere di San Tommaso si accordano con un secondino, certo Pedrini e, per mezzo suo, Aldo manda un biglietto a casa per preparate l'evasione.

IL BIGLIETTO INEDITO. Non è mai stato pubblicato e vale la pena di riportarlo perché in esso vi é tutto il carattere dei Cervi. Esso è diretto a Bianca Boni, una compagna:
«Cara Bianca, accompagnerai il latore del presente biglietto dal cugino Massimo e darai il biglietto a mio cugino medesimo... Al signore che porta questo scritto darai qualche cosa da mangiare come lardo, b***o e farina a sua richiesta. Conosciuta la sua abitazione lo metterai in collegamento con i compagni di Parma per mezzo della Lucia o di Berto come meglio riuscirai. Se c'è la possibilità di ritentare il colpo di liberarci come si era progettato per gli altri, lui é in grado di dare spiegazioni perché fa servizio qui dentro, dunque se i compagni decidono di fare qualche cosa possono agire: l’operazione non é difficile. Di a Berto, Gigi e Didimo che stiano via di casa perché la milizia li cerca attivamente. Noi restiamo ancora in attesa per un po' di tempo. Dunque c'é tempo disponibile per fare tutto, se puoi col medesimo mezzo ci darai le notizie di casa e del movimento nostro. Noi qui siamo pieni di coraggio non disperiamo mai, sicuri di vincere, anche se dovessimo morire. In attesa degli eventi ti saluto anche a nome dei fratelli e del papà. Saluti a casa nostra e alla tua famiglia, ai compagni e alle compagne».
In questo modo, in prigione, i Cervi organizzano la fuga, mettono in guardia i compagni di cui hanno udito fare i nomi durante gli interrogatori, si preoccupano della famiglia, del movimento di liberazione e non disperano «sicuri di vincere anche se dovessimo morire». Non hanno nulla del martire rassegnato, lottano fino all’ultimo per salvarsi, ma comunque vadano le cose per loro sanno che il risultato finale e certo. II mazzetto di lettere inedite, amorosamente custodite nel museo ne costituisce la mirabile testimonianza. Alla famiglia mandano incoraggiamenti e consigli sensati. «Vendete tutte le bestie così il lavoro sarà meno, anche il cavallo, se dovete pagare il fieno, viene troppo caro»... Scrive Ovidio il 12 dicembre; quattro giorni dopo Gelindo consiglia anch'egli di vendere i maiali: «pensate di passare la vita nel miglior modo che sia possibile e con questo ci rassegneremo al destino che ci attende». Aldo che, assieme a Gelindo, si era attribuito tutte le responsabilità, spera ancora che lo stratagemma riuscirà e conforta la mamma: «Gli altri ritorneranno a casa al più tardi a fine guerra e così io, se ci sarò ancora; per me però non mi faccio illusioni ad ogni modo sto tranquillo e non mi dò pensiero qualunque siano gli eventi ». II 27, alia vigilia della morte, Ettore invia l’ultimo messaggio «Sempre coraggio e tutto sarà niente». La parabola dei sette fratelli è giunta alla fine. Mentre l’ideale di libertà trasforma i semplici contadini in eroi, la bestialità fascista trasforma le camicie nere in belve assetate di sangue. Pochi giorni prima una squadra di gappisti ha giustiziato il seniore della milizia Giovanni Fagiani e su “Diana Repubblicana" l’ufficiale della G.N.R. Armando Wender scrive un delirante articolo che è un preannuncio di morte per i prigionieri: «Non passerà molto tempo che la spada vindice del fascismo repubblicano cadrà inesorabilmente, senza misericordia, senza pietà sugli avversari. Per ognuno dei nostri che verrà colpito dovranno pagare dieci, cento, mille degli altri. Tutto il sangue imbastardito dei prezzolati sicari, dei cinici assassini, non basta a ripagare una sola goccia del purissimo, adamantino . sangue dei nostri martiri». II 27, un'altra squadra di gappisti fa giustizia del segretario fascista di Bagnolo, Vincenzo Onfiani. II prefetto Savorgnan, il federate Scolari e il Werner si radunano in municipio. «Basta! Questa è la goccia che fa traboccare il vaso» grida il Savorgnan e un altro suggerisce: «Fuciliamo i Cervi». La decisione e presa. I Cervi vengono uccisi e, con loro il giovane disertore Quarto Camurri. II “Sole Fascista” pubblica il seguente comunicato:

LA REAZIONE «Questa notte si è riunito di urgenza il Tribunale Straordinario il quale ha pronunciato la sentenza capitale a carico di otto elementi, rei confessi di violenze e aggressioni di carattere comune e politico, di connivenza e favoreggiamento con elementi antinazionali e comunisti, di sovvertimento dell'ordine nazionale condotto con la propaganda e con l’uso delle armi. La sentenza è stata eseguita all'alba di oggi 28 dicembre» . Tre giorni dopo i fratelli Cervi avrebbero dovuto fuggire. Le p***e del plotone di esecuzione li avevano preceduti. Gli assassini, come sottolinea "La Lotta", organo clandestino del Partito comunista reggiano, non avevano osato rivelare il nome delle loro vittime e avevano attribuito il delitto alla sentenza di un tribunale inesistente. L'enormità del crimine faceva ben prevedere la reazione popolare. E, infatti, a poco a poco, la voce si sparge nelle campagne. Allo stupore segue l’indignazione, all’indignazione il furore. I giovani accorrono nella Resistenza: le cinque squadre di GAP del dicembre diventano oltre cinquanta in primavera, i distaccamenti partigiani si ingrossano in montagna, i fascisti e i tedeschi vengono impegnati in sanguinose battaglie. La morte dei fratelli Cervi completa l’opera della loro vita. La gente, scossa dall’arditezza delle loro imprese, apprende dalla loro fine che l’unica strada è ormai quella della lotta, che il nemico spietato non darà né potrà ricevere più quartiere, che ormai per la salvezza di tutti c'è un'unica possibilità: la vittoria. E la Resistenza reggiana si estende come una fiamma eliminando ogni differenza tra esercito e popolazione: tutti combattono il fascismo.

IL VECCHIO ALCIDE. Per questo, come dice il vecchio Alcide, non bisogna piangere i caduti. Bisogna costruire quel mondo che essi avevano visto nel futuro, se non per sé, per gli altri: un mondo di pace, di concordia, di progresso; un mondo in cui la grande cascina dei Cervi, bruciata dai fascisti e ricostruita dal vecchio nonno, dai nipoti e dai pronipoti uniti nell'opera e nella fede, è un simbolo e un modello.

03/11/2021

OTTOBRE, IL FUOCO DELLE IDEE
DI EJZENSTEIN E LA CORALITA’
DELLA SINFONIA DI SHOSTAKOVICH:
SI UNIRONO IN UNA CELEBRAZIONE
UNIVERSALE OLTRE OGNI PROPAGANDA

Apriamo con le parole del poeta Aleksandr Iljc Bezymenskij che compongono il coro finale della seconda sinfonia di Shostakovic “Ottobre”

“Abbiamo marciato, abbiamo chiesto lavoro e pane.
I nostri cuori sono stati stretti in una morsa di angoscia.
Le ciminiere delle fabbriche si allungarono verso il cielo
come mani, incapaci di stringere un pugno.
Terribili erano i nomi dei nostri ceppi:
silenzio, sofferenza, oppressione.

Ma più forte di spari scoppiarono nel silenzio
le parole del nostro dolore, le parole della nostra sofferenza.
O Lenin! Tu hai plasmato la volontà della sofferenza,
Tu hai plasmato la libertà dalle nostre mani callose.
Sapevamo, o Lenin, che il nostro destino
Ha generato una parola: lotta.

Lotta! Ci ha portato alla battaglia finale.
Lotta! Ci ha dato la vittoria per mezzo del lavoro.
E questa vittoria sull'oppressione e l’oscurità
nessuno potrà mai togliercela!
Facciamo tutto nella lotta per essere giovani e audaci:
Il nome di questa vittoria è Ottobre!

Ottobre! Messaggero dell'inizio atteso.
Ottobre! Libertà dei secoli ribelli.
Ottobre! Lavoro, gioia e canto.
Ottobre! Felicità nei campi e nei banchi di lavoro,
Questo è lo slogan e questo è il nome delle generazioni viventi:
Ottobre, il Comunismo e Lenin”.

Dmitri Shostakovich compone la sua sinfonia numero 2 dedicata all’Ottobre per i dieci anni della Grande Rivoluzione, la Prima, diretta da Nikolai Malko, venne eseguita a Leningrado il 5 novembre 1927. Uno dei primi capolavori del grande compositore comunista. Fu una delle grandi sperimentazione delle forme e della nuova estetica socialista, uno stile che, in un cammino travagliato, caratterizzò la storia della musica del Novecento e impose l’arte socialista in musica fra le grandi discipline destinate a cambiare dopo gli eventi del 1917. Shostakovich, maestro nell’arte di associare immagini e musica, successivamente utilizza gran parte del suo lavoro per il film monumento di Sergej Michajlovič Ėjzenštejn “Oktiabr”, Ottobre, liberamente ispirato al grande reportage giornalistico “I dieci giorni che sconvolsero il mondo” di John Reed. Un altro capolavoro della nascente estetica sovietica destinato a cambiare il mondo del cinema. La pellicola arrivò a compimento nel 1928 con centinaia di proletari che erano attori nei ruoli di operai, soldati, contadini e con l’attore proletario, Vasilij Nikandrov nei panni di Lenin. Un progetto che ebbe grandi roserse e assoluta libertà di realizzazione: nessuno disse a Ėjzenštejn come si sarebbe dovuto fare. E come giusto che sia il film creò dibattito e scontro a testimonianza che la realtà della nascente arrte sovietica era viva e, come accadde anche per Shostakovich, le critiche non contrastavano con la messa in produzione dei capolavori, ma tutti, anche e soprattutto il Partito aveva voce in capitolo. Di questo ci siamo ampiamente occupati a proposito di Shostakovich, ma torneremo ad occuparcene.
In questo post avremo il link del film nella traduzione italiana di “Ottobre” alla quale accompagniamo, uno scritto di Tonino De Pace, tratto da “Sentieri selvaggi” che ci sembra sufficientemente esplicativo, scritto nella settimana precedente il centenario della Rivoluzione d’Ottobre, quindi nel 2017.

https://www.youtube.com/watch?v=tX4aOQyVgLI

Ottobre, di Sergej M. Ėjzenštejn
La sperimentazione, sostituisce ogni altra forma drammaturgica. Nello svolgersi delle immagini si ritrova il senso rivoluzionario della visione del cinema.

Il Maestro di Riga nato nel 1898 è scomparso nel 1948.
Il suo è stato un cinema seminale, al pari di quello dei fratelli Lumiere che hanno inventato il dispositivo, Ėjzenštejn lo ha raffinato, lo ha teorizzato, costruendo quelle forme visive che nel fuoco della rivoluzione russa, hanno dato le forme per il cinema moderno, reinventando questa straordinaria disciplina espressiva che da quelle radici e da quei semi ancora oggi continua a fruttificare.
Ottobre è un film del 1927 nel quale si racconta l’ascesa al potere del Partito comunista durante il fallimentare interregno del governo provvisorio guidato da Kerenskij dopo la deposizione dei Romanov, sotto la guida di Lenin tornato dall’esilio in Svizzera. Con la presa del Palazzo d’Inverno del 25 ottobre 1917, ma secondo il calendario gregoriano era il 7 novembre, si compie l’atto finale dell’insurrezione armata del proletariato e comincia la fase rivoluzionaria che avrebbe per sempre cambiato le sorti della Russia, ma anche del mondo intero. È proprio questa intuizione a dare forma al libro di John Reed – il giornalista comunista americano amico dei rivoluzionari ed esegeta storico di quella fase politica – il cui titolo emblematico I dieci giorni che sconvolsero il mondo, campeggia nei titoli di testa di Ottobre.
Ėjzenštejn lavora esclusivamente sul montaggio, il suo cinema è montaggio, iperrealista e antinomico, creazionista e metaforico, che gioca la sua partita nel caos dell’immagine e come l’immagine futurista decostruisce il reale per darne forma differente. Ottobre è forse il film in cui la sperimentazione assoluta del grande autore russo, sostituisce ogni altra forma drammaturgica ed è in quello svolgersi inquieto delle immagini che è necessario ritrovare il senso rivoluzionario che ha impresso, a sua volta, alla visione del cinema. Ėjzenštejn ha raccontato con le sue immagini dense e con le sue inquadrature non replicabili (tutti pezzi unici), il senso profondo della rivoluzione russa e lo ha fatto, a sua volta, rivoluzionando il concetto di narrazione con la sua teoria del “montaggio delle attrazioni” che aveva lo scopo di scuotere da ogni torpore lo spettatore. Nel film esempi sono Kerenskij e il pavone o lo stesso Kerenskij accoppiato alla statua di Napoleone. Nelle sue mani il cinema diventa, dunque, argilla malleabile che acquista le forme di una realtà assolutamente invisibile, ma ricreata, poiché assolutamente inesistente. Dal canto suo il montaggio costituisce il terreno fertile delle emozioni, ciò che provoca il sussulto dello spettatore e nel quale prendono corpo le sue teorie che costituiscono la spina dorsale del suo cinema. Teorie che tendono ad intervenire proprio sull’intelletto dello spettatore. Ottobre, quindi, come gran parte della sua opera, vive di questa enfasi storica che non diventa mai retorica, ma antinaturalismo strutturale che si manifesta negli illogici raccordi di montaggio. Molti anni dopo anche Welles avrebbe messo in pratica un montaggio in opposizione ad ogni raccordo narrativo nei suoi famosi campo/controcampo apparentemente privi di ogni razionale naturalismo e di ogni connessione narrativa. L’antinaturalismo portava Ėjzenštejn a rifiutare il concetto di inquadratura come elemento fondante del montaggio. L’inquadratura – diceva – non è affatto un elemento di montaggio. L’inquadratura è una cellula di montaggio. Esattamente come le cellule danno origine dividendosi a un fenomeno d’un altro ordine, l’organismo o embrione, così all’altra estremità del balzo dialettico dall’inquadratura, troviamo il montaggio. Ma che cosa dunque caratterizza il montaggio e quindi la sua cellula, o inquadratura? Lo scontro. Il conflitto di due pezzi opposti l’uno all’altro. Il conflitto. Lo scontro. Da qui il suo cinema e Ottobre costituisce un laboratorio essenziale, diventa ricerca per l’utilizzo del sintagma cinematografico da adattare all’esigenza storica, all’espressività narrativa, al senso profondo dell’unità concettuale che l’opera deve esprimere.
In questa prospettiva il cinema di Ėjzenštejn si attesta come iniziatore di una modernità non solo enunciata, ma sotto il profilo narrativo, assolutamente coeva ai suoi contemporanei e non è un caso che tra i suoi interessi letterari spiccasse quello per James Joyce, che come lui aveva teorizzato, nel campo della parola e del romanzo, la frammentazione del tempo e contestualmente l’esaltazione narrativa di ogni istante attraverso il filtro della coscienza e l’invenzione della tecnica espressiva.
Il cinema di Ėjzenštejn si attesta, quindi, non soltanto come uno straordinario meccanismo generatore di energia (cine)ma(t)ograf(ica), ma anche un insuperabile propulsore di teorie applicabili alle discipline artistiche e non solo abitabili dal cinema.
Ottobre e tutto il restante archivio ejzenštejniano sembra abbiano fatto piazza pulita di ogni altra possibilità espressiva, tale è la potenza dell’incedere, tale la forza originaria che scaturisce, visibile, da ogni immagine che davvero sembra infiammare lo schermo nel quale ogni fotogramma diventa incontenibile. Nel ritmo di quelle immagini che vogliono negare il naturalismo narrativo, Ėjzenštejn sperimenta attraverso il montaggio il materialismo dialettico. Ottobre, film fatto su commissione, con larghi mezzi produttivi, ma girato in pochi mesi, per celebrare i dieci anni della presa del Palazzo d’Inverno, venne maltrattato alla sua uscita e accusato di eccessivo sperimentalismo. Ma Ėjzenštejn non abiurò mai il suo cinema intellettuale che costituiva un punto di forza della sua elaborazione teorica. Il film – diceva Ėjzenštejn – non è nato solo per celebrare il decimo anniversario; in questo senso non è un film giubilare. È stato creato per mostrarci, tutti i giorni, il vitale e permanente giubileo della vittoria di Ottobre!. È questo ponte teso verso il futuro a costituire la vera essenza di questo film che non sa di propaganda, ma di esaltazione epica degli eventi, guardati nel chiaroscuro che si fa spessore tattile e nel quale si ritrova la frenetica inquietudine della rivoluzione, la lungimiranza espressiva di un artista che non smette di essere moderno vincendo ogni battaglia contro qualsiasi banale e adattabile concetto di modernità.
Il bacino di fruizione di questi film, quindi, è immenso e si moltiplica nelle generazioni e il centenario di quei fatti amplifica, ci auguriamo, l’opera del geniale regista russo.
Ėjzenštejn ha inventato in quella indispensabile stagione, un cinema che non dà pace, con dentro il fuoco delle idee e geneticamente predisposto a costituire principio di ogni vera modernità, in un processo infinito fin quando il cinema potrà ancora raccontare le emozioni e le passioni.

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