No, voglio dire che il rischio maggiore di uno strumento per comunicare come questo, legato a una istituzione che ha molto da dire, ma non sempre ha voglia di dirlo, è smentirsi: rivolgersi al suo interno, più che all'esterno. Qualunque cosa ne pensino gli abitanti del castello del sapere, il contado, da fuori, lo vede come un luogo in cui si entra, che si percorre, di cui ci si serve, da cui si v
uole uscire con un lasciapassare che certifichi e accresca la qualità personale, nel mondo; ma un luogo, però, di cui non si fa davvero parte, perché è di chi resta, non di chi ci passa. Non importa, ora, dire perché è così (discorso lungo), conta valutarne le conseguenze: i signori del castello sono, se rispondono molto a se stessi e poco al contado, una casta. Il che può essere comodo in certe occasioni (non sempre le migliori...). Ma questo comporta che siano soli quando arrivano i tartari. E i tartari sono arrivati: il mondo che cambia; la funzione delle università fra il sapere e il fare (quale rapporto con l'economia? Fino a che punto concertare, agire in vista del fare e non solo del sapere?); gli effetti di un cambio di civiltà in corso (da quella industriale a quella informatica) erroneamente letti come crisi economica; la prepotenza di chi, per far fronte a tali difficoltà, usa le regole che dovrebbero tutelare i più deboli, per avvantaggiare i più forti (io non ho nominato l'infausto decreto dell'allora ministra, purtroppo all'Istruzione, Carrozza, per demolire le università del Sud: siete voi che ci avete pensato). Quando tutto questo
arriva, i signori del castello hanno bisogno del contado, per resistere. E sarà così, solo se il contado si sentirà coinvolto nelle sorti del castello (non è sicuro che insieme si vinca; è sicuro che da soli si perde). Per convinzione e per convenienza, le università (non tutte) hanno incrementato le azioni per divenire patrimonio consapevole e riconosciuto delle comunità in cui operano. Senza alcun intento di lodare i padroni di casa, va detto che l'università barese è fra le più attive, in questa direzione; anche con una certa dose di coraggio: penso a quel che hanno fatto, dai ricercatori al rettore magnifico, per denunciare il decreto-killer della Carrozza. La decisione di dotarsi di uno strumento, una voce, come questo che state sfogliando, è molto interessante, perché va nella direzione giusta. Ma farlo esistere non basta, è l'uso che ne qualifica la funzione e lo rende necessario o inutile (dannoso è difficile, perché chi non riesce a incontrare l'interesse dei lettori, viene subito “diffenziato”...). Le premesse sono quelle giuste, però, e testimoniano di intenzioni sane. Perché i giornali e tutto quel che ai giornali somiglia, portano con sé un potere enorme, al punto che a volte vengono fatti nascere per tenere sotto chiave proprio quel potere: il terrore della parola scritta. La parola detta può colpire, ma una volta sola; quella scritta è un pugnale che rimane dove è stato piantato. Il male, diceva Corrado Alvaro, sono le cose che si fanno di nascosto: ama il buio. Un giornale accende la luce. Ed è un punto in cui le cose possono cominciare a cambiare, se diventano luogo e occasione d'incontro per le anime e gli interessi di una società. Se si vara questo giornale con ambizioni piccole, un consiglio: lasciate perdere e salvate qualche albero. Gli dei punivano chi chiedeva loro troppo poco, diffidando della grandezza del loro potere. Il limite di quello che può fare un giornale non è stato ancora trovato; a meno che sia chi lo fa a darglielo. Pino Aprile
Foto: PERCHE' UNIBA'? Quando tutto questo
arriva, i signori del castello hanno bisogno del contado, per resistere. Pino Aprile