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CONTEA DI MODICA 15 agosto 1474«Catalobi a li Judey!»IntroduzionePubblichiamo la prima parte (la seconda fra qualche gio...
14/08/2024

CONTEA DI MODICA 15 agosto 1474

«Catalobi a li Judey!»
Introduzione

Pubblichiamo la prima parte (la seconda fra qualche giorno) della ricostruzione realizzata dal prof. Francesco Ereddia del genocidio di ebrei avvenuto nella contea di Modica il 15 agosto del 1474 e definito dallo storico Giuseppe Giarrizzo «il primo Olocausto dell’Europa moderna».

Un eccidio di uomini, donne, anziani e bambini non dissimile da quello quotidianamente perpetrato oggi dall’esercito israeliano di Netanyahu contro i civili palestinesi della Striscia di Gaza. Ah, le grandi contraddizioni della Storia!

Questa ricostruzione è stata ampiamente recensita dal prof. Dario Burgaretta dell’Università di Napoli sulla rivista «SEFER YUHASIN. Review for the history of the Jews in South Italy» (4,
2016).

Ne riportiamo un brevissimo frammento: “La dettagliata analisi di Francesco Ereddia trova la causa della strage dell’estate 1474, stando ad alcuni inediti documenti d’archivio citati dallo studioso, nel fatto che la piccola minoranza ebraica della contea aveva la gestione di tutti i tributi e le rendite del conte e quindi concentrava nelle proprie mani tutta l’amministrazione del patrimonio comitale”.

CONTEA DI MODICA, 15 AGOSTO 1474:
«CATALOBI A LI JUDEY!»

La presenza di nuclei di ebrei in quella che era stata la regione camarinese è attestata fin dai primi secoli dell’èra cristiana. Si pensi alle influenze giudaizzanti rinvenute nella cuspide sud-orientale dell’isola e “attestate da fonti epigrafiche, agiografiche e letterarie […] sia nelle città portuali sia nei più modesti agglomerati agro urbani dell’altopiano ibleo e nei villaggi dell’interno” (L. Cracco Ruggini). Tracce di insediamenti, infatti, che si possono ricondurre alla presenza ebraica nel territorio ibleo sono state rinvenute a Chiaramonte, Comiso, Ispica e nell’immediato retroterra di Camarina (oggi territorio di Vittoria). Si tratta di ritrovamenti archeologici quali iscrizioni su frammenti di tomba e monete di piombo (IV-V sec. d.C.).

Fra le carte della Genizah (era il ripostiglio di una sinagoga destinato al deposito di carte, nel quartiere commerciale del Cairo) è stata rinvenuta la più antica testimonianza di un insediamento stabile di nuclei di ebrei nella contea di Modica. Si tratta di una lettera inviata da Ragusa dalla vedova Umm al-Khayr, intorno al 1050 (dunque, negli ultimi anni della dominazione islamica), al figlio che risiedeva al Cairo proprio nel quartiere commerciale di Fustât. Dalla lettera – con la quale la vedova richiamava ai suoi doveri il figlio lontano - apprendiamo che il defunto marito si chiamava Elia Dimuniscî, che un altro figlio era sposato a Siracusa e le figlie vivevano ancora a Ragusa con la madre.

Le comunità ebraiche più consistenti di numero si trovavano a Modica, Scicli e Ragusa, dove sono stati individuati i quartieri in cui risiedevano, ma c’erano anche più piccoli nuclei a Chiaramonte e Monterosso e gruppi isolati sparsi un po’ ovunque nelle campagne. Parte di loro erano dediti all’agricoltura, alla pastorizia e alla pesca, altri erano artigiani (sarti, calzolai, maniscalchi, carpentieri, muri fabbri, fornai, macellai, orefici, argentieri), altri ancora commercianti.

A Modica essi erano concentrati nel quartiere Cartellone (Cartidduni, dall’ar. Harat al-yahud, “Il quartiere degli ebrei”). Praticavano la bachicoltura, attraverso la coltivazione del gelso, e avevano numerose officine per la concia delle pelli e la tintura dei tessuti. Al Cartidduni c’era la sinagoga (detta con termine arabo meskita, cioè moschea) ed anche il macello ebraico, dove la macellazione del bestiame avveniva secondo il rito.

***

Osservato il Libro, o sia Rollo denominato delli Giudei, che contiene particolarmente e distintamente tutti i singoli beni stabili: enfiteutici, burgensatici, censali, rendite, proventi, dritti ed altri di tutto il contado di Modica, e delle terre di Ragusa, Gerratana, Monterosso, Comiso, Dorilli e Spaccaforno, do-vuto al magnifico e potente signore Bernardo de Cabrera, padrone di detto contado e terre, e del Re-gno di Sicilia Maestro Giustiziere, fatto e composto per il nobile Jaimo de Vitali, maggiordomo di det-to Cabrera, per mandato ed ordine dell’ istesso, nell’anno 1409, Regnando li serenissimi Re Martino primogenito del Re Aragona, e la Regina Blanca di Lui moglie”.

Il 14 maggio dell’anno 1800, il notaio della contea Giuseppe Maria Romano prendeva visione del Quinternum sive Rollum, etc., e ne riportava alcuni stralci purtroppo estremamente sintetici e smilzi. Diciamo purtroppo, perché il Quinternum, che annotava analiticamente la situazione del patrimonio comitale ai primi del Quattrocento, è andato perduto. Dalla succinta descrizione del notaio, comun-que, appare chiara la presenza di feudi o terre concessi in enfiteusi già nel 1409, e dunque circa mez-zo secolo prima che il figlio di Bernardo Cabrera, Bernardo Giovanni, avviasse quel vasto processo di concessioni enfiteutiche. E’ assai probabile, anzi, che Bernardo, al momento della sua investitura a conte di Modica (1392), avesse trovato l’istituto dell’enfiteusi già operante nella contea, e che quindi esso vi potrebbe essere stato introdotto dagli ultimi Chiaramonte. Ma sono presenti, nell’annotazione del notaio G.M. Romano, altri particolari ben più interessanti.


Il registro, infatti, è da lui definito “Libro, o sia Rollo denominato delli Giudei”: se ne deduce che quell’elenco (Ruolo) era così chiamato da quando era stato redatto e che della sua redazione erano stati incaricati degli ebrei. Questo è testimoniato a chiare lettere dalla firma finale dell’autore: il nobi-le “Jaimo de Vitali”, che lo aveva “fatto e composto”, ha un cognome ebraico (è la traduzione volga-rizzata dell’ebraico Jechièl “Dio vive”), mentre il nome lo dice catalano. Era, dunque, un ebreo cata-lano che era venuto nella contea di Modica al seguito di Bernardo Cabrera e che il novello conte ave-va nominato “maggiordomo”, cioè sovrintendente all’amministrazione del patrimonio. La carica di maggiordomo di palazzo, detto anche Signore/Maestro di palazzo o Camerlengo, era il massimo confe-rimento che un signore feudale potesse concedere a un suo vassallo.

D’altra parte, Bernardo Cabrera aveva potuto contare anche sui finanziamenti degli ebrei per la sua impresa siciliana (i cattolicissimi Angioini erano stati intolleranti con i giudei) e con l’investitura del 1392 aveva ricevuto un assoluto dominio su tutti “gli uomini e le donne, tanto cristiani quanto ebrei”. Quindi, come il re nelle città demaniali, così nelle sue terre feudali il conte aveva gli ebrei sotto la sua diretta protezione.

Per meglio valutare il peso e il ruolo socio-economico degli ebrei della contea di Modica, sotto il profilo qualitativo e quantitativo, è opportuno anzitutto cercare di precisare il loro numero.
Per quanto riguarda, più in generale, gli ebrei siciliani, non c’è accordo fra gli storici. Su una popola-zione complessiva dell’isola che si aggirava nel XV secolo sui 550.000 abitanti, c’è chi calcola la pre-senza ebraica intorno ai 35.000 individui e chi invece la colloca un po’ al di sotto di 20.000. Sulla di-stribuzione in Sicilia della popolazione ebraica, invece, c’è maggiore accordo: pressappoco la metà (il 47,9 %) nel Val di Mazara, il 26% in Valdemone e il 26% anche nel Val di Noto.

Intorno al 1450, nella contea di Modica, facendo riferimento alle tre terre in cui più consistenti era-no le comunità ebraiche e non considerando le più piccole comunità sparse per le campagne, gli ebrei erano 550 a Ragusa, circa 400 a Modica e circa 600 a Scicli. Se si aggiunge un centinaio o poco più di ebrei che vivevano nel vasto territorio di Chiaramonte, si arriva a un totale di circa 1800: cioè, il 33% (un terzo esatto) degli ebrei residenti nel Val di Noto. Teniamo anche conto del fatto che alla metà del Quattrocento tutto il Val di Noto contava presumibilmente all’incirca 150.000 abitanti e che la popolazione della contea si aggirava intorno ai 25.000 abitanti, costituiva cioè il 17% dell’intero Val-lo.
In conclusione, il numero degli ebrei che risiedevano nella contea di Modica costituiva poco più del 7% della popolazione complessiva.

Questa piccola minoranza ebraica della contea, dunque, stando al Quinternum dei primi del Quat-trocento, aveva la gestione di tutti i tributi e le rendite del conte e quindi concentrava nelle proprie mani l’amministrazione del patrimonio comitale. Questo ruolo era svolto ovviamente non da tutti gli ebrei, bensì dai loro maggiorenti: ogni giudecca, infatti, aveva un consiglio composto da dodici mem-bri, detti proti. Fra questi venivano scelti i percettori delle imposte. La carica di proto (protìa) era da-ta in gabella, cioè mediante il versamento, da parte del miglior offerente, delle entrate previste da quell’ufficio. Dunque era appannaggio degli ebrei più ricchi.

Già con Bernardo Cabrera – e forse a partire dagli ultimi Chiaramonte – il feudatario aveva rinuncia-to alla gestione diretta del suo patrimonio e la gestione delle singole parti di esso venne concessa in gabella. Bisogna precisare che il termine “gabella” aveva un duplice significato. Da un lato, infatti, in-dicava le imposizioni fiscali di varia natura gravanti sui singoli vassalli a vario titolo: erano, cioè, le tas-se sulle attività agricole o artigianali o commerciali; quelle, si direbbe oggi, sui “servizi” (pedaggi, net-tezza urbana, sorveglianza dei centri abitati e delle campagne, ecc.); e infine quelle sui consumi o dazi (molitura del grano, sulla macellazione e vendita della carne, sul vino, ecc.). La riscossione di tutte queste tasse – nonché dei censi annuali da esigere per le terre concesse in enfiteusi e delle altre en-trate spettanti al conte e derivanti dalla gestione in appalto di un latifondo, di un’azienda agricola, di un mulino, di una presa d’acqua, di un lago per la pesca, ecc. – era affidata a sua volta in gabella (cioè, si direbbe oggi, in appalto) al miglior offerente, attraverso bandi e gare vere e proprie.

Si deduce facilmente, considerando l’entità del patrimonio comitale, che chi si aggiudicava l’appalto della riscossione di questo bel mucchio di rendite doveva anticipare una cifra assai alta e, dunque, doveva disporre di grandi risorse finanziarie. “Il nobile Jaimo de Vitali, maggiordomo del det-to Cabrera”, dunque, in quell’anno 1409 era il proto “gabelloto” o “gabelliere” che gestiva tutte le entrate del conte. Era il suo Procuratore generale – una sorta di “amministratore delegato unico” dell’Azienda comitale -, che dirigeva il Tribunale del Patrimonio .

Le comunità giudaiche della contea, dunque, che verosimilmente avevano nei periodi precedenti mano a mano ampliato e consolidato con le attività agrarie, artigianali, commerciali e finanziarie il lo-ro ruolo socio-economico, con gli Aragonesi fecero il salto di qualità, arrivando ad essere quasi i mo-nopolizzatori dell’intera economia comitale.

Questo non poteva non provocare gelosia e invidia presso la comunità cristiana, specialmente in oc-casione del Venerdì Santo, quando il “deicidio” perpetrato dagli ebrei con la crocifissione di Gesù si manifestava in tutta la sua carica emotiva.

A proposito delle tensioni del venerdì santo abbiamo una testimonianza particolare relativa alla nostra contea. A Spaccaforno (oggi Ispica), ancora in pieno Ottocento, “i congregati dell’Ecce Homo nel giorno del giovedì santo si denudano sino alla cintola, e s’incamminano, urlando di devozione, per lo stradale che mena alla Valle d’Ispica, e lì con ferree discipline cominciano a battersi con tanta efferata violenza sulle spalle e pel petto, che bentosto divengono una sozza piaga”. Così scriveva nel secondo Ottocento Serafino Amabile Guastella, un aristocratico di Chiaramonte appassionato di cultura popolare. I flagellanti cantavano una monotona cantilena:

Lu pigghiaru, l’attaccaru,
lu purtaru nni Pilatu,
comu ‘n cuccu spinnacciatu.
Catalobi a li Judey:
pietati domini, miserere mei.

Doveva trattarsi di una cantilena antigiudaica molto antica. Il termine “catalobi” – accanto al quale lo studioso ibleo del secolo XIX aveva apposto un punto interrogativo – a nostro parere, infatti, deriva dal greco (κατα)λώβη (“rovina, distruzione”). Due indizi filologici riportano la parola al periodo della dominazione bizantina: il primo è il prefisso κατα-, che rafforza il concetto espresso dal termine (vale “completamente, affatto”, ed è presente in parole siciliane come catafuttiri e catacogghiri); il secondo indizio è la vocale finale con fonetica bizantina di -ε>-ι. La contrada Cifali fra Chiaramonte e Comiso, ad es., deriva dal greco κεφαλή (“capo d’acqua, sorgente”: da lì sorge il fiume Ippari) con simile gradazione fonetica.

Quella parola potrebbe essere il retaggio delle persecuzioni violente che furono messe in atto contro i giudei durante la dominazione bizantina (535-878 dell’era cristiana), quando sotto Basilio I essi erano stati messi di fronte all’alternativa drammatica di scegliere fra il battesimo e la morte. Era un grido, una sorta di terribile parola d’ordine, che apriva inesorabilmente la caccia all’ebreo.

Ma colpisce ancora di più l’irriverenza ‘cristiana’ della cantilena. Cristo è paragonato addirittura a un “cuccu spinnacciatu”, e la strofa che precedeva quella da noi riportata faceva così:

“Lu cunigghiu havi la tana, / lu surciddu ha lu purtusu, / ma ppi vui, patri amurusu, / ‘nci fu tana né purtusu”. Questo eccesso di “confidenza” con Dio e i santi, al punto da suonare blasfemo e antievangelico, doveva essere molto radicato a Spaccaforno se un racconto popolare riportato dal Guastella narrava che proprio là, in quelle riarse campagne, era venuta al mondo la prima strega, frutto dell’unione bestiale di Lucifero con una capra.

Succede a   in provincia di  . L'assessore Cesare Campailla, membro di una giunta che si definisce di sinistra, scrive u...
21/07/2024

Succede a in provincia di . L'assessore Cesare Campailla, membro di una giunta che si definisce di sinistra, scrive un post dai toni intimidatori nei confronti del mio amico Walter Cavanna.

L'aspetto grave è che questo messaggio arrivi da un personaggio che ricopre cariche pubbliche di un certo peso e che allo stesso tempo frequenta, come dimostrano le foto sotto, pregiudicati, come Gaetano Abbate, e trafficanti di droga come l'albanese Luzim Ndreu, arrestato qualche anno insieme ad altri suoi connazionali con 50 chili di droga. E li frequenta nel silenzio generale del suo sindaco e dei suoi amici di giunta e di partito.

Ricordiamo che frequentare pregiudicati non è reato. Ma che lo faccia un assessore è immorale. Il linguaggio utilizzato, inoltre, dimostra che il ceto criminale che comanda in questa città da decenni non solo si è insinuato surrettiziamente nella vita quotidiana allargando quella zona grigia in cui si vive border line, ma piano piano è riuscito a cambiare, fino a prenderne il sopravvento, il modo di scrivere e di esprimersi in pubblico.

Vittoria(RG) - Si chiude la trilogia del Professore Francesco Ereddia su  ,   e   nella Contea di   tra il 1500 e il 160...
19/07/2024

Vittoria(RG) - Si chiude la trilogia del Professore Francesco Ereddia su , e nella Contea di tra il 1500 e il 1600.

Un affresco che ci fa comprendere come, alla fine del Cinquecento, la Contea di Modica fosse considerata uno dei territori più caldi e conflittuali dell’intera Sicilia dove c'era un controllo quasi asfissiante del territorio da parte dei banditi.

Siamo alle origini della criminalità in questo lembo di terra considerata, a torto, fino agli anni settanta provincia babba, ossia senza criminalità.

In realtà sin dal 1500 terra di banditi e assassini che grazie all'assenza di un potere locale e alla presenza di un potere mediato dalla Spagna, lontanissima dalla Sicilia e dalla Contea di Modica, ha reso possibile la proliferazione di una delinquenza non solo comune ma anche “organizzata” che ha gestito il territorio e se ne è appropriato con metodi estremamente violenti.

Sul link sottostante i primi due articoli.

https://www.facebook.com/share/p/xHGTwB8YeobynnMr/

Crisi Economica, Corruzione e Criminalità nella contea di Modica.

di Francesco Ereddia*

«Per il vostro memoriale ni havete informato che molti personi di questo contato, sentendosi banditi, si salvano nelle terre et territorij convicinj, li quali voy non potete prendere per non habere in quelli jurisdicione, et havendonj per ciò supplicato ni degnassimo donar licentia, […]
“vi diamo et concedemo licentia et potestà che, di qua innante, voy oy vero il vostro capitano di questa terra di Modica liberamente possiate discorrere, in la prosecuzione et busca di delinquenti et discorritori di campagna, per spazio di migla trenta cinco circa ultra il territorio di detta città, et questo discorrendo con quanti compagni vi parerà necessario, cossì a pedi come a cavallo, cm scopetti ad opra cm artificio di foco, tanto consunti come divisi. Et prendendo alcuni delinquenti et discorritori di campagna, contra quelli procedereti conforme a la potestà che teneti».

Alla metà di ottobre del 1585 il viceré Diego Enriquez de Guzman conte di Albadalista, che era succeduto a Marcantonio Colonna, inviava a don Juan Enriquez, governatore della contea di Modica, un’ordinanza con cui prendeva atto della richiesta da quest’ultimo avanzata di poter inseguire e catturare anche fuori della contea quanti, condannati dalla Corte Criminale di Modica e colpiti da bando di arresto («banditi»), si sottraevano alla giustizia rifugiandosi nelle città e campagne limitrofe («si salvano nelle terre et territorij circonvicini»).

Con questa ordinanza il viceré dava facoltà («potestà et licentia») alla polizia della contea («capitano di questa terra di Modica… et compagni») di sconfinare per trentacinque miglia («discorrere… per spazio di migla trenta cinco circa ultra il territorio di detta città») con le armi pronte ad aprire il fuoco («cum scopetti ad opra cm artificio di foco»), al fine di garantirne la cattura («busca»: è uno spagnolismo) di questi criminali.

Il documento sollecita non poche riflessioni. Anzitutto, si ha la sensazione generale di una recrudescenza della criminalità organizzata, in quanto nei registri della cancelleria comitale solo da un certo periodo in poi cominciano a fare la loro comparsa atti pubblici simili a questo citato. Ci riferiamo soprattutto ai «discorritori di campagna», cioè ai briganti riuniti in bande, laddove i «delinquenti» più volte chiamati in causa nell’ordinanza viceregia erano singoli soggetti che a vario titolo avevano infranto le leggi vigenti: ma anche il numero di questi cosiddetti reati comuni (furti, tentati omicidi, assassinii, etc.) doveva essere cresciuto in modo preoccupante, se venivano chiesti e concessi poteri speciali anche contro quella che oggi usa chiamare “microcriminalità”.

Di nove “banniti” viene messo per iscritto il nome e il cognome e il reato di cui si sono macchiati, ma si tenga presente che nel memoriale si parla anche di “multi et altri vassalli di detto Stato et contato di Modica” che “per evitare il condegno castigo” hanno trovato rifugio nel territorio limitrofo. I reati più ricorrenti sono i furti e le rapine (“Vincenzo Alechy”, “Santoro Incastilletta”, “Pasquali lo Dritto” e “Merchioni Cannata” sono ricercati “de furtis”), gli omicidi (di uno, “Luys Coppa”, si dice che ha addirittura quattro omicidi sulla coscienza) e la sodomia (“Santoro Incastilletta” e “Paulo Porchelli” sono accusati “de nefando”, il reato ‘innominabile’: ma ne parleremo meglio più avanti).

Un ricercato in particolare, “Pasquale Trendullo [è] prosecuto et bannito per havere captivato certi citatini di Modica ad un suo loco vicino di detta città”. Doveva trattarsi del capo di una banda dedita alla grassazione e ai sequestri di persona: i briganti assalivano mercanti e viaggiatori che transitavano per le zone più insicure del territorio comitale (una era certamente quella detta “Passo del Dirillo”, ricoperta di boschi impenetrabili, passaggio obbligato per chi proveniva da Girgenti e Terranova) e, per rilasciarli (“per componerli”), chiedevano un riscatto.

“Bannito” è anche un frate (“lo infrate Julio di Arrigo, prosecuto de nece de una sua sorella”): anche le istituzioni ecclesiastiche erano tutt’altro che esenti dai mali del tempo, e nel reclutamento di frati e sacerdoti, come ci insegna il don Abbondio manzoniano, non si andava troppo per il sottile. Di un altro ricercato, “Antoniculo”, si dice, anzitutto, che è un “apostato”, cioè un ebreo converso che continuava a giudaizzare, e poi che è “prosecuto” per l’uccisione “di uno scavo del dottor don Vincenzo di Paulo”.

Sappiamo quanto fiorente fosse in questa plaga della Sicilia, per l’intensa attività dei corsari, il mercato degli schiavi. Proprio la zona portuale di Siracusa, infatti, e i caricatori e gli scari della contea (come quello di Pozzallo e di Cammarana/Scoglitti) costituivano un’importante sede del mercato schiavile. Essi erano proprietà di nobili, burgisi, professionisti, artigiani e marinai, e quindi erano utilizzati nel servizio domestico, nel lavoro agricolo, nella pesca e nelle botteghe artigianali.


In effetti, si può affermare che in Sicilia, come peraltro in tutti i Paesi europei, la grande espansione economica iniziata ai primi del Cinquecento aveva prodotto inquietanti fenomeni di instabilità sociale all’interno delle città. I centri urbani più sviluppati cominciarono naturalmente ad attirare tanti individui, che lasciavano la campagna per trovare in città migliori condizioni di vita. La maggior parte di questi immigrati, però, non riuscivano a inserirsi con un lavoro stabile nel settore dell’edilizia o dell’artigianato o al servizio delle famiglie nobili e altoborghesi, e così restavano disoccupati e andavano a ingrossare le file degli emarginati, di quanti cioè vivevano di ripieghi dandosi al gioco d’azzardo, alla ricettazione, ai furti e alle rapine.

Il viceré Colonna aveva adottato intorno agli anni Ottanta misure severe contro i vagabondi: dovevano in tempi brevi trovarsi un’occupazione fissa o finire in galera, cioè sottoporsi al lavoro disumano e straziante di rematori nelle galere o galee. Queste leggi erano risultate molto efficaci per combattere la criminalità cittadina e, in più, attraverso il rastrellamento periodico dei vagabondi garantivano gli effettivi dei rematori nelle galere senza particolari spese per le autorità governative.


Diversa cosa era la criminalità nelle campagne, praticata da quei «discorritori di campagna» contro cui il vicerè, come abbiamo visto, concedeva poteri speciali alla polizia della contea di Modica. Contro i briganti, dediti prevalentemente alle rapine, agli abigeati e ai sequestri di persona, non potevano valere ovviamente le leggi contro il vagabondaggio. Frequenti erano le collusioni fra i briganti e il potere feudale, per cui il viceré Colonna, fin dall’inizio del suo mandato proteso a limitare il potere dei baroni e a rafforzare quello dello stato, nel 1578 - lo stesso anno in cui assicurò alla giustizia e mandò immediatamente alla forca due famigerati banditi, Girolamo Colloca e Rocco di Saponara, che godevano della protezione di alcuni personaggi altolocati – promulgò una prammatica con cui si semplificava la procedura per l’acquisizione delle prove di connivenza di alti personaggi della nobiltà con i banditi. Bastavano le dichiarazioni rese da due soli briganti, anche sotto tortura, e per i nobili denunciati da quelle dichiarazioni scattava l’arresto immediato e il processo.

Anche nella contea di Modica la tortura era prassi comune, ed essa era praticata nei «dammuselli», cioè nelle stanze sotterranee del castello di Modica, sede della Gran Corte Criminale. In un documento, infatti, si attesta «il loco della tortura avere tutti li tavoli e travi guaste fraciti et xippati». E un altro documento autorizza che a un uomo sorpreso a rubare «si ci pozzia procedere a darli il tormento della corda».

Ma i briganti con le loro imprese eccitavano la fantasia delle classi più povere, che li appoggiavano e aiutavano, anche perché alla base delle azioni delittuose delle bande armate c’erano indubbiamente forti motivazioni sociali. Si può ben affermare che il banditismo è una forma piuttosto primitiva di protesta sociale organizzata, forse la più primitiva che si conosca. I poveri proteggono i banditi, li considerano loro difensori e li idealizzano: quasi mai la popolazione collabora con le autorità di polizia nella cattura di un bandito, anzi lo protegge e lo nasconde.
Nell’ultimo decennio del Cinquecento si ha l’impressione di un aggravarsi del fenomeno criminale nella cuspide meridionale dell’isola, dato l’intensificarsi di ordinanze viceregie per la lotta alla criminalità.

Negli anni finali di quel secolo, infatti, il viceré Marchese di Geraci con un’ordinanza invitava il governatore della contea di Modica (l’uomo d’affari ragusano Paolo La Restia) e le autorità di Siracusa a collaborare strettamente al fine di comminare l’estradizione ai tanti criminali che, avendo commesso dei delitti nel territorio comitale, si erano rifugiati nel territorio della città di Siracusa e, viceversa, di simili ‘banditi’ che da Siracusa avevano cercato riparo nella contea. Ma adesso le ragioni di questa recrudescenza criminale non andavano tanto cercate in un’epidemia e nella conseguente crisi agraria, quanto nelle conseguenze di veri e propri fenomeni di “immigrazione”. Ci spieghiamo meglio.

Se la popolazione della contea aveva rivelato nel censimento dell’83 un decremento consistente, dopo la grande carestia del 1591-92 le cose andarono diversamente. Nel Rivelo del ’95, infatti, si registra nella contea di Modica un incremento notevole (+6%) rispetto ad altre aree dell’isola in cui invece si verifica un vistoso decremento demografico (Catania -12%, Enna -28%, Siracusa -6%, Messina -12%).

Dobbiamo dedurre che, se la peste del 1575 e la conseguente carestia avevano prodotto dei vuoti nella popolazione della contea di Modica, essi erano stati abbondantemente colmati da un flusso migratorio interno, che portava in quest’area ricca e produttiva dell’isola non solo gruppi umani alla ricerca di un lavoro e di migliori condizioni di vita, ma anche individui singoli o organizzati in bande che in quelle terre progettavano di conseguire facili guadagni.

Tutto questo produceva inevitabilmente conflitti fra i residenti e gli immigrati, instabilità sociale e aumento dei fenomeni criminosi, soprattutto in una situazione di generale crisi economica.

, di lingua e e , e autore di saggi e libri di rilievo nazionale.

Collaborazioni:

Casa editrice per la quale ha scritto Religiosità e società medievale e Mondo antico (in collab. con Virgilio Lavore);

Casa editrice per la quale ha scritto I servi dell’anticristo, dissidenti ed eretici nell’Italia medievale;

Casa Editrice di Palermo per la quale ha scritto, Ebrei, Luterani, omosessuali e streghe nella contea di Modica;

Casa Editrice per il quale ha scritto Il crogiuolo dello spirito. Cristiani, Musulmani, Ebrei, al centro del mediterraneo.


Ecco il secondo articolo, del professore Francesco Ereddia, sulla  , la   e la   nella contea di  , che ripercorre un pe...
14/07/2024

Ecco il secondo articolo, del professore Francesco Ereddia, sulla , la e la nella contea di , che ripercorre un pezzo di storia dove viene fuori la santissima trinità del crimine costituita da soldi, corruzione e potere.

Qui potete leggere la prima parte del saggio

https://www.facebook.com/share/p/z18my4hTjocQ9w92/

CRISI AGRARIA, CORRUZIONE E CRIMINALITÁ
NELLA CONTEA DI MODICA

di Francesco Ereddia*

A tutto questo stato di declino si aggiungevano fenomeni di disonestà e corruzione all’interno degli amministratori e tecnici della contea.
«Vengono a rovina e si accàbano famiglie nobilissime e principalissime del Regno [il termine siciliano “accabarisi” o “accaparisi”, nel senso di «finire, esaurirsi», deriva dallo spagnolo «acabàr» dello stesso significato]»

Il 9 ottobre 1604 il viceré Lorenzo Suarez de Figueroa duca di Feria, supplicato da un’istanza presentata dalla contessa Vittoria Colonna dietro preoccupata sollecitazione del Conservatore del Patrimonio Scipione Celestre che constatava il declino e il crollo delle attività produttive comitali, emanava una Prammatica con cui annullava per disonesta condotta il contratto degli amministratori appaltatori degli affari comitali, i genovesi Alessandro Cigala e Giulio Gentile.

Già il precedente anno 1603 (ne abbiamo parlato in un precedente scritto) Scipione Celestre, per uscire da quella crisi economica, aveva avviato il progetto di ricostruire Camarina e rendere produttiva la vasta pianura fra l’Ippari e il Dirillo fondando un nuovo centro abitato. E si aggiunga che il 19 marzo 1605 la contessa Vittoria Colonna - di concerto con don G.Battista Celestre (congiunto di Scipione Celestre), marchese di S. Croce e Presidente del Tribunale palermitano del Real Patrimonio (nonché fondatore del casale di Santa Croce) - emanava da Valladolid alcune “Istruzioni” in lingua castigliana per mettere ordine nell’amministrazione della contea e limitare ed eliminare eventuali abusi d’ufficio da parte dei funzionari della stessa. In quelle Istruzioni l’attenzione era concentrata sugli «arbitri» della contea.

Tali arbitri erano dei tecnici della Corte del Patrimonio comitale, che avevano il delicato compito di misurare le terre concesse in enfiteusi o in gabella, per valutarne il valore sia per la vendita che per il censo e per operare una stima della presumibile rendita, del numero e della produttività degli alberi, e così via.

E’ naturale che dalla precisione (e onestà) delle loro misurazioni e stime dipendevano molte importanti entrate del patrimonio. C’erano state ‘usurpazioni’ nelle terre concesse in enfiteusi, cioè tanti concessionari avevano incamerato molta più terra di quella realmente concessa, e alcuni ‘usurpatori’ eccellenti rispondevano ai nomi di Andrea Valseca, Giuseppe Grimaldi e Paolo La Restia (il feudatario ragusano, nonché governatore della contea, che per difendere i suoi interessi privati proprio in quell’anno 1604 proponeva Grotte Alte per la rifondazione.

Non ci meraviglia, dunque, che Vittoria Colonna, opportunamente consigliata da Scipione Celestre, avesse voluto ridurre il numero di tali arbitri, sia per tagliare le spese che per poterli meglio controllare. Non ci è dato sapere se tale flebile fiducia derivasse alla contessa dall’amara esperienza avuta con il predecessore del La Restia - Alessandro Cigala, arrendatario e governatore insieme - o se anche in questo caso non avesse più o meno fondati motivi di perplessità basati sulle informazioni che le provenivano dal Celestre. Che cioè Paolo La Restia era anche lui fra gli “usurpatori eccellenti” di terre comitali.

Questi dubbi sull’onestà degli arbitri si estendevano anche ai «contatori» e ai «mastri razionali», funzionari e dirigenti della Ragioneria comitale. Nella parte finale di quelle Istruzioni, infatti,
la contessa precisava in maniera inequivocabile che i “contatori” non potessero prendere alcuna iniziativa (“los condadores no puedan haçer nada”) senza avere accanto il detto Conservatore (“sin allarse el dicho Conservador presente”), ed inoltre, cosa assai più vincolante e grave (che suonava come un atto d’accusa contro quegli amministratori), che tutti gli atti amministrativi da loro stipulati in assenza del Conservatore (“que todos los actos que se hiçieren sin sua asistencia”) fossero da considerare privi di alcuna efficacia (“sean de ninguna fuerça y vigor”).

Questo ci dà la misura di quanto diffidasse la contessa dei suoi “contatori” e “arbitri” e fors’anche dello stesso governatore, e di come per lei punto di riferimento esclusivo e garanzia di una gestione oculata e onesta degli affari della contea fosse solo Scipione Celestre.

Inoltre, già dagli ultimi anni del Cinquecento si lamentava un’altra causa di dissesto: «In detto Contato vi sono multi che, con ciò che ci sia scarseza di formenti, fanno mercanzia di formenti più di quelli che ciascheduno di loro recoglie del proprio». Cioè, vi erano dei ricchi proprietari che non solo non mettevano a disposizione della comunità la loro produzione granaria vendendola alle autorità cittadine, come le leggi del Regno imponevano in caso di scarso raccolto e carestia, ma anzi non si facevano scrupolo di fare incetta di altro frumento e di venderlo clandestinamente, affamando la gente per i loro ignobili interessi economici.

Infatti, il defunto Ludovico III aveva riottenuto nel 1599, dopo un venticinquennio di sospensione, gli antichi privilegi di poter esportare 12mila salme di frumento dalla contea di Modica esenti dalla tassa statale. Filippo III aveva riconcesso al conte questa importantissima facoltà, ottenuta “con tanta effusione di sangue de soi predecessori” (“jittari sancu” è una metafora tipica del parlare siciliano, nel senso di “dare l’anima per qualcosa, realizzare qualcosa a prezzo di indicibili sacrifici”), ma per i quattro anni successivi solo per 6.000 salme.

Nel 1603, dunque, si era ritornati alle dodicimila salme del passato di “frumenti alla grossa”, in cui cioè ciascuna salma equivaleva a kg. 259,39 (mentre quella “alla generale” o “alla sottile” era di kg. 215,300). Tale privilegio di esportare “extra Regno” era soggetto da sempre a due importanti limitazioni: che si accantonasse prima la quantità occorrente “per il vitto delle genti che vi habitano e per il seminerio”, e che non si potesse fare esportazione “d’altri frumenti che di quello che il detto Contato produce”.

Ora, era accaduto - questo quanto denunciato dalla sua lontana residenza sp****la da Vittoria Colonna, indubbiamente su precise indicazioni e sollecitazioni di Scipione Celestre, che risiedeva nella contea e ne curava in prima persona gli interessi economici, ed era anche “mastro portulano” del caricatore di Pozzallo – che non pochi ricchi proprietari, e gli Arezzi di Ragusa la facevano da padroni, in virtù del ruolo ricoperto di ufficiali e familiari dell’Inquisizione portavano al caricatoio di Pozzallo centinaia e centinaia di salme di frumento per esportarle in proprio. In questo erano sostenuti da precise “lettere”, cioè autorizzazioni “emanate” dal Tribunale del Sant’Uffizio, tramite le quali si potesse imporre (“se facesse injuntione”) ai funzionari ragusani del dazio (“alli officiali di detta terra di Ragosa”) di consentire di calare al punto d’imbarco (“lassar calare… in carricatore”) quelle partite di frumento. Per di più – anche questo era trapelato, e Vittoria Colonna ne era stata informata e dal Celestre e da Fortunio Arrighetti, procuratore generale del patrimonio comitale -, altri componenti della famiglia Arezzi, nonché un sacerdote, l’arciprete don Giuseppe Nigita, avevano presentato “suppliche”, cioè istanze, al Sant’Uffizio per ottenere autorizzazioni simili.

Questo era un gravissimo attentato alle finanze comitali, e infatti i termini che ricorrono più spesso nella denuncia sono “fraude”, “subterfugio”, “abuso”, “iniquità”. La crudezza della denuncia dà la misura non solo della precaria situazione delle finanze comitali, ma anche della pervicace volontà di uscirne in qualsiasi modo.

D’altra parte, questo tremendo quadro di sofferenza economica e disagio sociale non poteva non incrementare gli episodi di criminalità in tutto il territorio della contea.


, di lingua e e , e autore di saggi e libri di rilievo nazionale.

Collaborazioni:

Casa editrice per la quale ha scritto Religiosità e società medievale e Mondo antico (in collab. con Virgilio Lavore);

Casa editrice per la quale ha scritto I servi dell’anticristo, dissidenti ed eretici nell’Italia medievale;

Casa Editrice di Palermo per la quale ha scritto, Ebrei, Luterani, omosessuali e streghe nella contea di Modica;

Casa Editrice per il quale ha scritto Il crogiuolo dello spirito. Cristiani, Musulmani, Ebrei, al centro del mediterraneo.

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