14/08/2024
CONTEA DI MODICA 15 agosto 1474
«Catalobi a li Judey!»
Introduzione
Pubblichiamo la prima parte (la seconda fra qualche giorno) della ricostruzione realizzata dal prof. Francesco Ereddia del genocidio di ebrei avvenuto nella contea di Modica il 15 agosto del 1474 e definito dallo storico Giuseppe Giarrizzo «il primo Olocausto dell’Europa moderna».
Un eccidio di uomini, donne, anziani e bambini non dissimile da quello quotidianamente perpetrato oggi dall’esercito israeliano di Netanyahu contro i civili palestinesi della Striscia di Gaza. Ah, le grandi contraddizioni della Storia!
Questa ricostruzione è stata ampiamente recensita dal prof. Dario Burgaretta dell’Università di Napoli sulla rivista «SEFER YUHASIN. Review for the history of the Jews in South Italy» (4,
2016).
Ne riportiamo un brevissimo frammento: “La dettagliata analisi di Francesco Ereddia trova la causa della strage dell’estate 1474, stando ad alcuni inediti documenti d’archivio citati dallo studioso, nel fatto che la piccola minoranza ebraica della contea aveva la gestione di tutti i tributi e le rendite del conte e quindi concentrava nelle proprie mani tutta l’amministrazione del patrimonio comitale”.
CONTEA DI MODICA, 15 AGOSTO 1474:
«CATALOBI A LI JUDEY!»
La presenza di nuclei di ebrei in quella che era stata la regione camarinese è attestata fin dai primi secoli dell’èra cristiana. Si pensi alle influenze giudaizzanti rinvenute nella cuspide sud-orientale dell’isola e “attestate da fonti epigrafiche, agiografiche e letterarie […] sia nelle città portuali sia nei più modesti agglomerati agro urbani dell’altopiano ibleo e nei villaggi dell’interno” (L. Cracco Ruggini). Tracce di insediamenti, infatti, che si possono ricondurre alla presenza ebraica nel territorio ibleo sono state rinvenute a Chiaramonte, Comiso, Ispica e nell’immediato retroterra di Camarina (oggi territorio di Vittoria). Si tratta di ritrovamenti archeologici quali iscrizioni su frammenti di tomba e monete di piombo (IV-V sec. d.C.).
Fra le carte della Genizah (era il ripostiglio di una sinagoga destinato al deposito di carte, nel quartiere commerciale del Cairo) è stata rinvenuta la più antica testimonianza di un insediamento stabile di nuclei di ebrei nella contea di Modica. Si tratta di una lettera inviata da Ragusa dalla vedova Umm al-Khayr, intorno al 1050 (dunque, negli ultimi anni della dominazione islamica), al figlio che risiedeva al Cairo proprio nel quartiere commerciale di Fustât. Dalla lettera – con la quale la vedova richiamava ai suoi doveri il figlio lontano - apprendiamo che il defunto marito si chiamava Elia Dimuniscî, che un altro figlio era sposato a Siracusa e le figlie vivevano ancora a Ragusa con la madre.
Le comunità ebraiche più consistenti di numero si trovavano a Modica, Scicli e Ragusa, dove sono stati individuati i quartieri in cui risiedevano, ma c’erano anche più piccoli nuclei a Chiaramonte e Monterosso e gruppi isolati sparsi un po’ ovunque nelle campagne. Parte di loro erano dediti all’agricoltura, alla pastorizia e alla pesca, altri erano artigiani (sarti, calzolai, maniscalchi, carpentieri, muri fabbri, fornai, macellai, orefici, argentieri), altri ancora commercianti.
A Modica essi erano concentrati nel quartiere Cartellone (Cartidduni, dall’ar. Harat al-yahud, “Il quartiere degli ebrei”). Praticavano la bachicoltura, attraverso la coltivazione del gelso, e avevano numerose officine per la concia delle pelli e la tintura dei tessuti. Al Cartidduni c’era la sinagoga (detta con termine arabo meskita, cioè moschea) ed anche il macello ebraico, dove la macellazione del bestiame avveniva secondo il rito.
***
Osservato il Libro, o sia Rollo denominato delli Giudei, che contiene particolarmente e distintamente tutti i singoli beni stabili: enfiteutici, burgensatici, censali, rendite, proventi, dritti ed altri di tutto il contado di Modica, e delle terre di Ragusa, Gerratana, Monterosso, Comiso, Dorilli e Spaccaforno, do-vuto al magnifico e potente signore Bernardo de Cabrera, padrone di detto contado e terre, e del Re-gno di Sicilia Maestro Giustiziere, fatto e composto per il nobile Jaimo de Vitali, maggiordomo di det-to Cabrera, per mandato ed ordine dell’ istesso, nell’anno 1409, Regnando li serenissimi Re Martino primogenito del Re Aragona, e la Regina Blanca di Lui moglie”.
Il 14 maggio dell’anno 1800, il notaio della contea Giuseppe Maria Romano prendeva visione del Quinternum sive Rollum, etc., e ne riportava alcuni stralci purtroppo estremamente sintetici e smilzi. Diciamo purtroppo, perché il Quinternum, che annotava analiticamente la situazione del patrimonio comitale ai primi del Quattrocento, è andato perduto. Dalla succinta descrizione del notaio, comun-que, appare chiara la presenza di feudi o terre concessi in enfiteusi già nel 1409, e dunque circa mez-zo secolo prima che il figlio di Bernardo Cabrera, Bernardo Giovanni, avviasse quel vasto processo di concessioni enfiteutiche. E’ assai probabile, anzi, che Bernardo, al momento della sua investitura a conte di Modica (1392), avesse trovato l’istituto dell’enfiteusi già operante nella contea, e che quindi esso vi potrebbe essere stato introdotto dagli ultimi Chiaramonte. Ma sono presenti, nell’annotazione del notaio G.M. Romano, altri particolari ben più interessanti.
Il registro, infatti, è da lui definito “Libro, o sia Rollo denominato delli Giudei”: se ne deduce che quell’elenco (Ruolo) era così chiamato da quando era stato redatto e che della sua redazione erano stati incaricati degli ebrei. Questo è testimoniato a chiare lettere dalla firma finale dell’autore: il nobi-le “Jaimo de Vitali”, che lo aveva “fatto e composto”, ha un cognome ebraico (è la traduzione volga-rizzata dell’ebraico Jechièl “Dio vive”), mentre il nome lo dice catalano. Era, dunque, un ebreo cata-lano che era venuto nella contea di Modica al seguito di Bernardo Cabrera e che il novello conte ave-va nominato “maggiordomo”, cioè sovrintendente all’amministrazione del patrimonio. La carica di maggiordomo di palazzo, detto anche Signore/Maestro di palazzo o Camerlengo, era il massimo confe-rimento che un signore feudale potesse concedere a un suo vassallo.
D’altra parte, Bernardo Cabrera aveva potuto contare anche sui finanziamenti degli ebrei per la sua impresa siciliana (i cattolicissimi Angioini erano stati intolleranti con i giudei) e con l’investitura del 1392 aveva ricevuto un assoluto dominio su tutti “gli uomini e le donne, tanto cristiani quanto ebrei”. Quindi, come il re nelle città demaniali, così nelle sue terre feudali il conte aveva gli ebrei sotto la sua diretta protezione.
Per meglio valutare il peso e il ruolo socio-economico degli ebrei della contea di Modica, sotto il profilo qualitativo e quantitativo, è opportuno anzitutto cercare di precisare il loro numero.
Per quanto riguarda, più in generale, gli ebrei siciliani, non c’è accordo fra gli storici. Su una popola-zione complessiva dell’isola che si aggirava nel XV secolo sui 550.000 abitanti, c’è chi calcola la pre-senza ebraica intorno ai 35.000 individui e chi invece la colloca un po’ al di sotto di 20.000. Sulla di-stribuzione in Sicilia della popolazione ebraica, invece, c’è maggiore accordo: pressappoco la metà (il 47,9 %) nel Val di Mazara, il 26% in Valdemone e il 26% anche nel Val di Noto.
Intorno al 1450, nella contea di Modica, facendo riferimento alle tre terre in cui più consistenti era-no le comunità ebraiche e non considerando le più piccole comunità sparse per le campagne, gli ebrei erano 550 a Ragusa, circa 400 a Modica e circa 600 a Scicli. Se si aggiunge un centinaio o poco più di ebrei che vivevano nel vasto territorio di Chiaramonte, si arriva a un totale di circa 1800: cioè, il 33% (un terzo esatto) degli ebrei residenti nel Val di Noto. Teniamo anche conto del fatto che alla metà del Quattrocento tutto il Val di Noto contava presumibilmente all’incirca 150.000 abitanti e che la popolazione della contea si aggirava intorno ai 25.000 abitanti, costituiva cioè il 17% dell’intero Val-lo.
In conclusione, il numero degli ebrei che risiedevano nella contea di Modica costituiva poco più del 7% della popolazione complessiva.
Questa piccola minoranza ebraica della contea, dunque, stando al Quinternum dei primi del Quat-trocento, aveva la gestione di tutti i tributi e le rendite del conte e quindi concentrava nelle proprie mani l’amministrazione del patrimonio comitale. Questo ruolo era svolto ovviamente non da tutti gli ebrei, bensì dai loro maggiorenti: ogni giudecca, infatti, aveva un consiglio composto da dodici mem-bri, detti proti. Fra questi venivano scelti i percettori delle imposte. La carica di proto (protìa) era da-ta in gabella, cioè mediante il versamento, da parte del miglior offerente, delle entrate previste da quell’ufficio. Dunque era appannaggio degli ebrei più ricchi.
Già con Bernardo Cabrera – e forse a partire dagli ultimi Chiaramonte – il feudatario aveva rinuncia-to alla gestione diretta del suo patrimonio e la gestione delle singole parti di esso venne concessa in gabella. Bisogna precisare che il termine “gabella” aveva un duplice significato. Da un lato, infatti, in-dicava le imposizioni fiscali di varia natura gravanti sui singoli vassalli a vario titolo: erano, cioè, le tas-se sulle attività agricole o artigianali o commerciali; quelle, si direbbe oggi, sui “servizi” (pedaggi, net-tezza urbana, sorveglianza dei centri abitati e delle campagne, ecc.); e infine quelle sui consumi o dazi (molitura del grano, sulla macellazione e vendita della carne, sul vino, ecc.). La riscossione di tutte queste tasse – nonché dei censi annuali da esigere per le terre concesse in enfiteusi e delle altre en-trate spettanti al conte e derivanti dalla gestione in appalto di un latifondo, di un’azienda agricola, di un mulino, di una presa d’acqua, di un lago per la pesca, ecc. – era affidata a sua volta in gabella (cioè, si direbbe oggi, in appalto) al miglior offerente, attraverso bandi e gare vere e proprie.
Si deduce facilmente, considerando l’entità del patrimonio comitale, che chi si aggiudicava l’appalto della riscossione di questo bel mucchio di rendite doveva anticipare una cifra assai alta e, dunque, doveva disporre di grandi risorse finanziarie. “Il nobile Jaimo de Vitali, maggiordomo del det-to Cabrera”, dunque, in quell’anno 1409 era il proto “gabelloto” o “gabelliere” che gestiva tutte le entrate del conte. Era il suo Procuratore generale – una sorta di “amministratore delegato unico” dell’Azienda comitale -, che dirigeva il Tribunale del Patrimonio .
Le comunità giudaiche della contea, dunque, che verosimilmente avevano nei periodi precedenti mano a mano ampliato e consolidato con le attività agrarie, artigianali, commerciali e finanziarie il lo-ro ruolo socio-economico, con gli Aragonesi fecero il salto di qualità, arrivando ad essere quasi i mo-nopolizzatori dell’intera economia comitale.
Questo non poteva non provocare gelosia e invidia presso la comunità cristiana, specialmente in oc-casione del Venerdì Santo, quando il “deicidio” perpetrato dagli ebrei con la crocifissione di Gesù si manifestava in tutta la sua carica emotiva.
A proposito delle tensioni del venerdì santo abbiamo una testimonianza particolare relativa alla nostra contea. A Spaccaforno (oggi Ispica), ancora in pieno Ottocento, “i congregati dell’Ecce Homo nel giorno del giovedì santo si denudano sino alla cintola, e s’incamminano, urlando di devozione, per lo stradale che mena alla Valle d’Ispica, e lì con ferree discipline cominciano a battersi con tanta efferata violenza sulle spalle e pel petto, che bentosto divengono una sozza piaga”. Così scriveva nel secondo Ottocento Serafino Amabile Guastella, un aristocratico di Chiaramonte appassionato di cultura popolare. I flagellanti cantavano una monotona cantilena:
Lu pigghiaru, l’attaccaru,
lu purtaru nni Pilatu,
comu ‘n cuccu spinnacciatu.
Catalobi a li Judey:
pietati domini, miserere mei.
Doveva trattarsi di una cantilena antigiudaica molto antica. Il termine “catalobi” – accanto al quale lo studioso ibleo del secolo XIX aveva apposto un punto interrogativo – a nostro parere, infatti, deriva dal greco (κατα)λώβη (“rovina, distruzione”). Due indizi filologici riportano la parola al periodo della dominazione bizantina: il primo è il prefisso κατα-, che rafforza il concetto espresso dal termine (vale “completamente, affatto”, ed è presente in parole siciliane come catafuttiri e catacogghiri); il secondo indizio è la vocale finale con fonetica bizantina di -ε>-ι. La contrada Cifali fra Chiaramonte e Comiso, ad es., deriva dal greco κεφαλή (“capo d’acqua, sorgente”: da lì sorge il fiume Ippari) con simile gradazione fonetica.
Quella parola potrebbe essere il retaggio delle persecuzioni violente che furono messe in atto contro i giudei durante la dominazione bizantina (535-878 dell’era cristiana), quando sotto Basilio I essi erano stati messi di fronte all’alternativa drammatica di scegliere fra il battesimo e la morte. Era un grido, una sorta di terribile parola d’ordine, che apriva inesorabilmente la caccia all’ebreo.
Ma colpisce ancora di più l’irriverenza ‘cristiana’ della cantilena. Cristo è paragonato addirittura a un “cuccu spinnacciatu”, e la strofa che precedeva quella da noi riportata faceva così:
“Lu cunigghiu havi la tana, / lu surciddu ha lu purtusu, / ma ppi vui, patri amurusu, / ‘nci fu tana né purtusu”. Questo eccesso di “confidenza” con Dio e i santi, al punto da suonare blasfemo e antievangelico, doveva essere molto radicato a Spaccaforno se un racconto popolare riportato dal Guastella narrava che proprio là, in quelle riarse campagne, era venuta al mondo la prima strega, frutto dell’unione bestiale di Lucifero con una capra.