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24/12/2024

IL :
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di Francesco Ereddia*

Magica notte

«In quel tempo fu emanato un editto da Cesare Augusto per il censimento di tutto l’impero… Mentre erano a Betlemme, si compirono i giorni in cui Maria doveva partorire, e diede alla luce il figlio suo primogenito, lo avvolse in fasce e lo adagiò in una mangiatoia, perché all’albergo per loro non c’era posto. Vi erano in quella regione dei pastori che pernottavano in mezzo ai campi per far la guardia al proprio gregge. Ora, un Angelo del Signore apparve loro, e la gloria del Signore li avvolse nella luce, sicché furono presi da un grande timore. Ma l’Angelo disse loro: “Non temete, ecco, vi porto una lieta novella: oggi vi è nato nella città di Davide il Salvatore, che è il Messia, il Signore. Questo vi servirà di segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia. Pace in terra agli uomini di buona volontà!”».

Da quasi duemila anni quell’evento prodigioso, narrato da Luca, come dagli altri evangelisti, con uno stile asciutto, scarno e vago, persino arido nella sua poetica semplicità – evento che ha certamente rivoluzionato e improntato di sé tutta la storia mondiale attraverso una serie infinita di scambi e interferenze tra la Chiesa e il potere politico di volta in volta costituito – viene celebrato liturgicamente e festeggiato in tutto il mondo con uno straordinario coinvolgimento individuale e collettivo che nessun’altra festa conosce in nessuna parte del mondo.

Un’umanità in crisi

Da tempo il mondo antico era sconvolto e stanco, da secoli erano ormai entrati in una crisi irreversibile i fondamenti della civiltà occidentale – di quella greca prima e della romana poi – che sulla propria superiorità culturale e spirituale, dunque razziale, aveva fondato i rapporti fra gli uomini e fra i popoli. Rapporti che avevano trovato la loro più concreta e drammatica espressione nella guerra, sintesi tragica di ogni controversia nazionale o internazionale, sacralizzato strumento di ogni violento equilibrio politico (“se vuoi la pace, prepara la guerra”: questo era stato lo slogan dell’imperialismo romano).

Nel I secolo a.C., però, a Roma, cuore dell’impero, erano avvenuti radicali rivolgimenti economici, sociali e politici. I vecchi equilibri si erano rotti, erano scoppiate sanguinosissime guerre civili: romani contro romani, membri di una stessa famiglia con le armi in pugno gli uni contro gli altri, fratelli contro fratelli. Adesso non era più così facile esaltare la guerra.

Serpeggiava ovunque nell’impero, a qualsiasi livello, mista a una profonda inquietudine e a un lacerante malessere esistenziale, quella che è stata definita “l’attesa soteriologica”, l’attesa cioè di un “Salvatore” che ponesse fine alle mille contraddizioni del reale e desse pace e serenità a tutti. E il poeta Virgilio (70-19 a.C.) nella Ecloga IV delle sue Bucoliche parlò della prossima nascita di un puer, che col suo primo sorriso avrebbe portato pace e prosperità nel mondo.

Cesare Augusto credette di poter rispondere a quell’ansia “soteriologica” proponendo se stesso come dio vivente: nelle province dell’impero venne diffusa nel 9 a.C. il culto dell’imperatore vivente attraverso la celebrazione del dies natalis, cioè il giorno di nascita, dunque il ‘natale’ di Augusto, come “principio del mondo”.

Ma presso un popolo del vastissimo impero, quello giudaico, l’attesa soteriologica già molto prima della nascita di Gesù era vòlta in senso messianico, di un messianismo apocalittico e profetico che culminava nell’attesa del Figlio dell’uomo, che sarebbe apparso, al compiersi dei tempi, come Messia (maschiah, il consacrato, l’unto”).


Un Natale di ricordi

A questo punto si potrebbe obiettare: ma partire da così lontano, dalla storia addirittura, può veramente aiutarci a capire il senso più profondo della festa e della celebrazione liturgica? Noi pensiamo che non solo la storia, ma anche la psicologia, la sociologia e le scienze etnoantropologiche possono aiutare a dare un senso a tutto.

A dare un senso anche all’atmosfera magica che si diffonde a livello collettivo e che ci suggestiona profondamente: le città vengono addobbate con festoni e luci e vengono allestiti mercatini natalizi, nell’aria gli altoparlanti diffondono canti di Natale, si pensa ai regalini, all’albero, al presepe.

Si riprendono i contati con parenti e amici, si organizzano incontri di società, ci si ricorda di quelli che non hanno avuto molto dalla vita, il ritmo normale della vita e del lavoro subisce una brusca ma piacevolissima interruzione.

E poi c’è il Natale che ciascuno di noi si porta dentro: un Natale di memorie, di ricordi, di odori, sapori, colori. Quanti di noi l’infanzia l’abbiamo lasciata da parecchi decenni ogni anno, puntualmente, anche senza volerlo e senza accorgercene, riviviamo scampoli di vita che ogni anno si allontanano sempre di più nel tempo, ma non nella memoria. Il maestro ci faceva scrivere le letterine da mettere sotto il piatto di mamma e papà: sarò più buono, ti voglio bene, vorrei tanto… Ripensiamo alle cartoline d’auguri, con quelle figure così semplici e autenticamente naïf, con quei paesaggi di neve così poetici nella loro ingenuità e genuinità: cartoline che ogni mamma si premurava di spedire abbastanza per tempo ai parenti lontani con la firma incerta ma compiaciuta di noi scolari alle prime armi.

E poi la novena in parrocchia in un’atmosfera elettrizzante di canti natalizi e presepi così suggestivi che uno avrebbe voluto entrarci dentro. La novena vissuta anche nell’attesa del sorteggio del Gesù Bambino di cera che ciascun bambino sognava di portarsi a casa. Una casa fredda come la grotta di Betlemme che odorava di agrumi, torroni, focacce e altri cibi sconosciuti (il panettone, gustato solo in quei giorni!) nel corso dell’anno.

Ogni anno tanti di noi rivivono anche per un solo attimo il “loro” Natale, che si fa memoria struggente, ricordo toccante, rivitalizzante mito, in una parola, che ogni anno ci è concesso di rivivere e che puntualmente, per fortuna, ogni anno ritorna.


L’abbondanza alimentare e i Saturnalia

Quel particolare che sopra si citava dei cibi d’ogni genere concessi dalla festa natalizia ci suggerisce una riflessione (quando si dice che certe deformazioni professionali non ti lasciano nemmeno farti cullare dolcemente dai tuoi mitici ricordi d’infanzia…!).
La festa della natività di Gesù, sconosciuta nei rimi tempi del cristianesimo, si cominciò a celebrarla nel 335 dell’era cristiana e venne fissata ora il 20 di maggio, ora il 25 o il 28 di marzo, comunque in coincidenza con l’equinozio di primavera, e fu papa Liberio che nel 354 la fissò al 25 dicembre, facendola coincidere con il solstizio d’inverno.

La Chiesa ha operato sempre non cercando di distruggere i luoghi sacri e i riti pagani, bensì innestando con intelligente lungimiranza i nuovi riti cristiani sul tronco del vecchio paganesimo: ad es., il tempio della dea Atena sulla piccola acropoli di Camarina venne trasformato in età bizantina in una chiesa cristiana dedicata alla Madonna.

Allo stesso modo si agganciò la festa della natività ai Saturnalia, feste religiose che in quel giorno di dicembre appunto, nella Roma precristiana, da secoli venivano celebrate in onore di Saturno, antico dio della semina e della prosperità dei campi. Saturno secondo il mito era stato il dio dell’Età dell’oro, quando tutti gli uomini vivevano felici, nell’abbondanza di tutte le cose e in perfetta uguaglianza tra loro.

Quelle feste, dunque, altro non erano che la riproposizione rituale periodica di quello stato di beatitudine primitiva, di quel paradiso definitivamente perduto ma ritrovato, nella finzione del rito, una sola volta all’anno.

Nei giorni dei Saturnali si festeggiava con conviti e banchetti, l’abbondanza dei doni della terra, ci si scambiava doni d’ogni genere e si concedeva la massima libertà ai servi, riproducendo il primitivo stato di uguaglianza e fratellanza tra tutti gli uomini.


La festa, i doni, il ritrovarsi: una ‘trasgressione’?

A questo punto, dopo che in più occasioni abbiamo parlato di festa, bisogna capire cos’è una festa nella sua essenza più profonda. E per fare questo abbiamo bisogno del prezioso aiuto delle scienze etnoantropologiche.

Sembra cosa assai semplice definire la “festa”, ma non è così: tante sono le teorie che da più di un secolo cercano di spiegarci le più profonde motivazioni psicologiche e sociali, individuali e collettive, nonché le finalità di un fenomeno che ogni anno si ripete e si rinnova.

Nella sua essenza la festa è, in primo luogo, una qualsiasi attività rituale inserita nell’organizzazione sociale del tempo; in secondo luogo, la festa è un’attività piacevole. Le due caratteristiche sono interdipendenti: essendo piacevole, la festa è ricordata nella memoria e anticipata nell’immaginazione, ed è per questo che tende a ripetersi nel tempo.

Durante l’estate – sostiene Marcel Mauss, artefice della fusione dell’etnoantropologia con la sociologia, la psicologia e la psicanalisi – i gruppi umani sono dispersi, l’intensità dei legami è ridotta al minimo, i rituali religiosi sono scarsi e di natura privata (un matrimonio, un battesimo, un funerale).

Al contrario, durante l’inverno la popolazione si concentra, i rapporti e gli scambi si intensificano, la vita religiosa è ricca e di natura collettiva. Si ha, allora, come uno stato di “effervescenza sociale” in cui il gruppo diventa visibile a se stesso come tale. La festa, dunque, consiste in un accrescimento della solidarietà e rinnova i legami sociali.

Anche i doni, i regalini natalizi, per lo studioso, che è capace di andare al di là dell’osservazione empirica, costituiscono un problema sociologico da esaminare con gli strumenti adeguati. Il dono è l’innesco di un rapporto reciproco tra due soggetti, da analizzare alla stregua di uno scambio differito, in quanto donare significa consegnare un bene nelle mani di qualcuno senza ricevere al momento in cambio alcunché.

Il solito Marcel Mauss - che con il suo Saggio sul dono del 1924 ha segnato l’ingresso del concetto di dono nelle scienze sociali – ha chiarito che forme di dono generoso e reciproco segnano appunto i momenti decisivi della vita sociale: momenti della vita domestica (matrimoni, anniversari, nascite) oppure momenti comunitari (feste collettive che scandiscono il calendario sociale, e fra queste naturalmente il Natale cristiano).

C’è da dire però, per dovere di onestà, che a partire dagli anni Sessanta, quelli del cosiddetto boom economico, l’industria del regalo ha conosciuto un’espansione considerevole, che ha fatto del Natale, del matrimonio e perfino della festa della mamma, speculazioni commerciali che hanno aggravato il consumismo.

Questa carrellata lascerà, tutto sommato, ognuno di noi a godersi serenamente, com’è giusto, e senza troppi perché il proprio Natale, ma forse ci ha aiutato a capire meglio cose sepolte tra le pieghe più nascoste dell’inconscio e dell’immaginario individuale e collettivo, cose di cui a noi, figli di una civiltà altamente tecnologica, sfugge abitualmente il significato più profondo.

Ci piace concludere con una frase di Sigmund Freud: «La festa è un eccesso permesso, anzi offerto, l’infrazione solenne delle regole e dell’ordine abituali e rigorosi del vivere sociale. L’eccesso è nella natura stessa di ogni festa».

Ma, ci chiediamo, se la festa è essenzialmente una “trasgressione” legittima delle regole, tutti gli appelli alla pace in terra e alla bontà, il voler riprendere e ricucire in occasione del Natale rapporti famigliari o sociali interrotti per motivi a volte futili, tutto questo è anch’essa una “trasgressione” alla rovescia, un voler essere buoni almeno una volta all’anno?

È anch’esso un “eccesso”, «l’infrazione solenne» di una regola umana purtroppo radicata e irreversibile, cioè quella di non potere o non volere essere “buoni” per tutto il resto dell’anno?

, di lingua e e , e autore di saggi e libri di rilievo nazionale.

Collaborazioni:

Casa editrice per la quale ha scritto Religiosità e società medievale e Mondo antico (in collab. con Virgilio Lavore);

Casa editrice per la quale ha scritto I servi dell’anticristo, dissidenti ed eretici nell’Italia medievale;

Casa Editrice di Palermo per la quale ha scritto, Ebrei, Luterani, omosessuali e streghe nella contea di Modica;

Casa Editrice per il quale ha scritto Il crogiuolo dello spirito. Cristiani, Musulmani, Ebrei, al centro del mediterraneo.

Vittoria(RG) - JIHĀD  E   JIZYA NELLA SICILIA ISLAMICA:FRA GUERRA SANTA E TOLLERANZA RELIGIOSAdi Francesco Ereddia*  «Ma...
07/10/2024

Vittoria(RG) - JIHĀD E JIZYA NELLA SICILIA ISLAMICA:
FRA GUERRA SANTA E TOLLERANZA RELIGIOSA

di Francesco Ereddia*

«Ma poiché da noi, proprio come dal popolo d’Israele, si peccò contro Dio, e bevemmo il calice della collera divina, che un tempo Israele bevve, siamo stati conquistati, dopo aver sopportato penosamente una lunga fame cibandoci di erbe, dopo aver messo in bocca, spinti dal bisogno, tutte le cose più immonde.

Ché anzi, dopo esserci cibati di cuoio e pelli di buoi e di tutte le altre cose che si pensava potessero recare un qualche ristoro a noi consunti dalla fame, eravamo arrivati persino a cibarci dei figli (atto sacrilego, che dovrebbe esser passato sotto silenzio!), né avevamo provato ripugnanza a mangiare carne umana (spettacolo orribile!)».

Il 21 maggio dell’anno 878 Siracusa veniva conquistata, saccheggiata, smantellata e data alle fiamme: così tramontava in Sicilia il dominio bizantino. Il terribile racconto degli ultimi giorni di Siracusa, nonché delle efferate stragi seguite all’espugnazione, lo dobbiamo al monaco bizantino Teodosio: il testo era stato redatto in greco e custodito in un codice del monastero di San Salvatore a Messina.

Ma già cinquant’anni prima – nell’827, data con la quale si fa iniziare la dominazione araba in Sicilia, che si protrasse fino al 1061 - la città era stata occupata dalle forze islamiche.

Nell’827, infatti, l’imperatore di Bisanzio si era trovato alle prese con una rivolta popolare capeggiata da un certo Eufemio che, occupata Siracusa, si era fatto nominare imperatore e aveva imposto il suo governo. In Sicilia la situazione si era talmente deteriorata da concludersi in una ribellione capeggiata da uno di quegli ambiziosi comandanti che pullulavano sempre nell’impero bizantino.

L’imperatore Michele II, allora, ordinò l’arresto di Eufemio, il quale, per far fronte ai contrasti interni e alla reazione bizantina, chiese aiuto all’emiro aglabita Ziydat Allah. L’emiro inviò un corpo di spedizione comandato da Asad ibn-al Furat e diretto in Sicilia. Con questa spedizione gli Arabi, a differenza delle azioni precedenti che si erano sempre risolte in semplici razzie, erano decisi a insediarsi nell’isola. Era la «jihad», la “guerra santa” contro gli ‘infedeli’ dell’Occidente. Sbarcato a Mazara il 16 giugno 827, Asad ebbe un primo scontro vittorioso con le truppe bizantine, quindi puntò su Siracusa.

Le fonti arabe – afferma Michele Amari nella sua Storia dei Musulmani di Sicilia (1872) - dicono che «Asad ratto percorse la strada romana della costiera meridionale, com’ei pare, fino alla foce del Salso o poc’oltre; donde poi pigliò la via dei monti che mena a Siracusa per Biscari, Chiaramonte e Palazzolo, l’antica Acri». Dal tempo dei greci e dei romani, e fino a tempi ben più recenti, c’erano due strade che collegavano la Sicilia occidentale a quella orientale, e cioè Agrigento a Siracusa.

Una delle due era la via costiera, conosciuta fin dal tempo della spedizione ateniese a Siracusa col nome di “Via Elorina”, che portava da Agrigento a Siracusa attraverso Licata, Gela, Foce del Dirillo, Mogghi, Cava Albanello, Arciarito, Scoglitti, Cammarana, Rifriscolaro, S. Croce, Foce dell’Irminio, Donnalucata, Scicli, Sampieri, Pozzallo, Porto Palo, Pachino, Avola. Evidentemente Asad prese invece la via interna («la via dei monti»), chiamata “Selinuntina”, che da Agrigento conduceva a Siracusa attraverso Licata, Butera e Niscemi: qui la strada guadava il Dirillo nei pressi di Biscari e, attraverso la Serra di S. Bartolo e il territorio di Vittoria, puntava su Comiso e Ibla Heraia (Ragusa) e poi, scendendo nella valle dell’Irminio, raggiungeva Monte Casale (presso Giarratana), passava per Acre (oggi Palazzolo Acreide) e quindi, lungo la valle dell’Anapo e passando per Bagni e Floridia, giungeva a Siracusa.

Nell’848 cadde in mano musulmana Ragusa, importante fortezza bizantina, e nell’estate dell’853 «fu – dice l’Amari - presa Camarina, o gli abitanti che ritenean quel classico nome». In pochi anni la regione camarinese (destinata a diventare alcuni secoli dopo contea di Modica) cadde sotto la dominazione araba, come peraltro nell’arco di alcuni decenni l’intera Sicilia. Con il tremendo assedio e la conquista di Siracusa dell’878, infatti, con cui abbiamo dato inizio a questo nostro excursus, si concludeva l’opera di conquista islamica dell’isola.

Il IX e il X secolo videro in tutta l’isola la straordinaria fioritura della civiltà islamica, che era il risultato di molteplici culture. Grazie agli intellettuali di lingua araba e di religione musulmana, che commentarono e tradussero le opere della cultura greca classica (filosofia, medicina, matematica, astronomia, storiografia), la Sicilia – ma anche l’intero Occidente- riuscì a superare il vuoto di cultura e di civiltà che la crisi dell’impero romano e le dominazioni barbariche avevano provocato e che la restaurazione bizantina non era stata in grado di colmare. La Spagna meridionale e la Sicilia furono i due grandi centri della civiltà islamica in Occidente.

In materia religiosa, poi, i musulmani si dimostrarono molto tolleranti: i vinti (cristiani ed ebrei) potevano rimanere fedeli alle loro convinzioni religiose purché pagassero un tributo («jizya»).

Ai Musulmani, inoltre, si deve la prima introduzione delle tecniche per l’accumulazione, la conservazione e la distribuzione delle acque per l’irrigazione. Queste fondamentali innovazioni sopravvivono ancora oggi e mantengono nel dialetto l’originaria denominazione araba degli elementi: i serbatoi a vasca (sic. “gebbia”, dall’ar. ‘djeb’), i canali di distribuzione (“catusu”, da ‘qadus’; “saia”, da ‘saqiah’), i pozzi a ruota (“senia”, da ‘saniyah’).

Essi introdussero, infatti, nuove colture, come il cotone e la canna da zucchero, e incentivarono la coltivazione e la produzione degli alberi da frutto, degli agrumi, del lino in prossimità dei fiumi (come ad es. nella Valle dell’Ippari) e perfino delle piante aromatiche. Crearono molti nuovi casali soprattutto nella parte interna dell’isola (il prefisso ‘rahal’, “casale”, è presente in parecchi toponimi, quali ad es. Racalmuto e Regalbuto), per un migliore sfruttamento e un’ottimale valorizzazione dei seminativi e dei cereali.

Tante contrade agricole di quella che sarà la contea di Modica recano nel nome la loro origine araba: Favaragghi (‘fawarah’, “sorgente”), Margi (‘margah’, “palude”), Maccuna (‘maqul’, “macchia, spineto”), Buffa (‘wuta’, “prateria”), Nìscima (‘‘hasis’, “pascolo”), Giummarrito (‘gummar’, “palma nana”), Gisìra (‘gazirah’, “scoglio nel greto d’un fiume), Sciannacaporale/Cannicaporale (‘‘ayn’, ”sorgente”, e ’handaq’, “fossato”), Inferno (‘fern’, “mulino”), Surdi (‘sud’, “sulla”, una leguminosa), Donnalucata (‘ayn ‘al auqat’, “fontana delle ore”), Cannicarao (‘ayn al Koran’, “fonte del Corano”), Capo Scalambri/Rasacambra (‘ras al-kr.bi’, “Punta Secca”), Comiso (‘hums’, “quinta parte” delle terre confiscate), Canziria (‘hanzir’, “maiale”), Anisarca (‘ayn az-zarqa’, “sorgente azzurra”), etc.

Risale probabilmente al secolo IX la ripartizione del territorio dell’isola in tre Valli: quello occidentale di Mazara, limitato ad est dal fiume Salso e ad Ovest dalle Madonie; il Val Démone, che comprendeva la cresta nord-orientale delle Madonie e dei Nebrodi e i bacini interni del Simeto e del Salso; il Val di Noto, che comprendeva la cuspide meridionale delimitata dal Salso, ad ovest, e dal Simeto, a nord-est.

Ancora, si devono agli arabi la bonifica e la ricolonizzazione di molte terre, nonché il ridimensionamento dei patrimoni fondiari sviluppatisi in età tardo romana e bizantina e lo sviluppo della piccola proprietà contadina.

Infatti, i principi del Corano sulla proprietà terriera e sulle successioni ereditarie - secondo cui proprietario di un podere diventava chi lo dissodava e coltivava, e ogni proprietà terriera andava ripartita secondo precisi criteri fra tutti gli eredi – comportarono l’eliminazione della piaga del latifondo e produssero uno straordinario miglioramento delle condizioni agrarie dell’isola.

Così, dopo tanti secoli la regione camarinese, e soprattutto la vasta e pianeggiante fascia ‘mesopotamica’ compresa fra l’Ippari e il Dirillo (territorio della futura Vittoria) - vero e proprio polmone verde dell’intera regione - ritornava a quel sistema agrario basato su poderi di modeste proporzioni e inaugurato dai greci di Camarina che per primi l’avevano colonizzata.

, di lingua e e , e autore di saggi e libri di rilievo nazionale.

Collaborazioni:

Casa editrice per la quale ha scritto Religiosità e società medievale e Mondo antico (in collab. con Virgilio Lavore);

Casa editrice per la quale ha scritto I servi dell’anticristo, dissidenti ed eretici nell’Italia medievale;

Casa Editrice di Palermo per la quale ha scritto, Ebrei, Luterani, omosessuali e streghe nella contea di Modica;

Casa Editrice per il quale ha scritto Il crogiuolo dello spirito. Cristiani, Musulmani, Ebrei, al centro del mediterraneo.


Ecco il Comunicato Stampa ufficiale che annuncia il Film tratto dal mio Libro   Raccontato dal capoclan Claudio Carbonar...
01/10/2024

Ecco il Comunicato Stampa ufficiale che annuncia il Film tratto dal mio Libro Raccontato dal capoclan Claudio Carbonaro.

DOUBLE 3 MEDIA S.p.A. Presenta: "Stidda: l’altra mafia raccontata dal capoclan Claudio Carbonaro"

Un film tratto dal libro di Giuseppe Bascietto

Ortigia, Siracusa – DOUBLE 3 MEDIA S.p.A. è orgogliosa di annunciare l’imminente inizio della produzione del film internazionale "Stidda: l’altra mafia raccontata dal capoclan Claudio Carbonaro", tratto dal libro di Giuseppe Bascietto, edito da Aliberti compagnia editoriale. L’annuncio è stato fatto durante il G7 Agricoltura e Pesca ad Ortigia, alla presenza delle istituzioni della Regione Siciliana, del presidente del Distretto Ortofrutticolo Sud Est Sicilia (DOSES), e di Carmelo Incardona, figlio di una delle vittime di questa tragica realtà.

Sinossi del film: "Stidda" porta sul grande schermo la storia mai raccontata di una delle mafie più oscure e meno conosciute, la Stidda, attraverso le crude confessioni del capoclan Claudio Carbonaro.

Carbonaro, reo confesso di oltre 130 omicidi, ha descritto un mondo fatto di rituali inquietanti, giuramenti di sangue e violenze che hanno spezzato le vite di molti adolescenti.

È una storia criminale drammatica, con elementi che sconfinano nell’horror, dove realtà e finzione si mescolano in un racconto che lascia il segno.

Il film è un omaggio alla memoria di Salvatore Incardona, descritto dai Giudici della Corte d’Assise di Siracusa come "uno dei più fulgidi esempi di resistenza all’ingiustizia e di opposizione alla sopraffazione mafiosa".

La storia di Incardona rappresenta un faro di speranza nella lotta contro il crimine organizzato, e il film vuole essere un tributo alla sua memoria.

Oltre a Giuseppe Bascietto, autore del libro, anche il Direttore editoriale di Aliberti, Alessandro Di Nuzzo e Carmelo Incardona, figlio di una delle vittime di questa sanguinosa faida, che ha reso omaggio alla memoria del padre e di tutti coloro che hanno perso la vita per mano della criminalità organizzata.

In collegamento da Shanghai, Fred Wang, presidente dell'Asian Content Business Summit e di Hong Kong Salon Films, ha espresso il suo entusiasmo per la produzione: "Questo film non solo racconta la mafia, ma riflette il bene e il male nella società moderna. Speriamo di creare valori per le giovani generazioni affinché comprendano cosa è bene e cosa è male, contribuendo a un futuro più pacifico e prospero."

Parole dei produttori: Franco Della Posta, Line Producer di DOUBLE 3 MEDIA S.p.A., ha dichiarato: "Acquisire i diritti per la realizzazione di questo film è stata una scelta naturale. La nostra missione è quella di creare valore attraverso il cinema, e nulla ha più valore della conoscenza. Questo film rappresenta un’opportunità unica per educare e sensibilizzare il pubblico su una realtà criminale che ha segnato profondamente la storia del nostro Paese."

Contest e progetti futuri: Parallelamente al film, sarà lanciato un contest intitolato "La mafia vista dai ragazzi", che coinvolgerà giovani studenti in un percorso di riflessione e creazione di contenuti multimediali sulla mafia. L’obiettivo è di stimolare il dibattito e sensibilizzare le nuove generazioni sul tema della criminalità organizzata. Questo contest potrebbe costituire la base per una futura docu-serie sull’argomento, come anticipato dallo stesso Giuseppe Bascietto, autore del libro dal quale è tratto il film.

Conclusione: "Stidda: l’altra mafia raccontata dal capoclan Claudio Carbonaro" è molto più di un semplice film. È un tributo alla memoria di chi ha lottato contro l’ingiustizia, una denuncia di un sistema criminale ancora vivo e pericoloso, e un’opportunità di riflessione per le generazioni future.

CONTEA DI MODICA 15 agosto 1474«Catalobi a li Judey!»IntroduzionePubblichiamo la prima parte (la seconda fra qualche gio...
14/08/2024

CONTEA DI MODICA 15 agosto 1474

«Catalobi a li Judey!»
Introduzione

Pubblichiamo la prima parte (la seconda fra qualche giorno) della ricostruzione realizzata dal prof. Francesco Ereddia del genocidio di ebrei avvenuto nella contea di Modica il 15 agosto del 1474 e definito dallo storico Giuseppe Giarrizzo «il primo Olocausto dell’Europa moderna».

Un eccidio di uomini, donne, anziani e bambini non dissimile da quello quotidianamente perpetrato oggi dall’esercito israeliano di Netanyahu contro i civili palestinesi della Striscia di Gaza. Ah, le grandi contraddizioni della Storia!

Questa ricostruzione è stata ampiamente recensita dal prof. Dario Burgaretta dell’Università di Napoli sulla rivista «SEFER YUHASIN. Review for the history of the Jews in South Italy» (4,
2016).

Ne riportiamo un brevissimo frammento: “La dettagliata analisi di Francesco Ereddia trova la causa della strage dell’estate 1474, stando ad alcuni inediti documenti d’archivio citati dallo studioso, nel fatto che la piccola minoranza ebraica della contea aveva la gestione di tutti i tributi e le rendite del conte e quindi concentrava nelle proprie mani tutta l’amministrazione del patrimonio comitale”.

CONTEA DI MODICA, 15 AGOSTO 1474:
«CATALOBI A LI JUDEY!»

La presenza di nuclei di ebrei in quella che era stata la regione camarinese è attestata fin dai primi secoli dell’èra cristiana. Si pensi alle influenze giudaizzanti rinvenute nella cuspide sud-orientale dell’isola e “attestate da fonti epigrafiche, agiografiche e letterarie […] sia nelle città portuali sia nei più modesti agglomerati agro urbani dell’altopiano ibleo e nei villaggi dell’interno” (L. Cracco Ruggini). Tracce di insediamenti, infatti, che si possono ricondurre alla presenza ebraica nel territorio ibleo sono state rinvenute a Chiaramonte, Comiso, Ispica e nell’immediato retroterra di Camarina (oggi territorio di Vittoria). Si tratta di ritrovamenti archeologici quali iscrizioni su frammenti di tomba e monete di piombo (IV-V sec. d.C.).

Fra le carte della Genizah (era il ripostiglio di una sinagoga destinato al deposito di carte, nel quartiere commerciale del Cairo) è stata rinvenuta la più antica testimonianza di un insediamento stabile di nuclei di ebrei nella contea di Modica. Si tratta di una lettera inviata da Ragusa dalla vedova Umm al-Khayr, intorno al 1050 (dunque, negli ultimi anni della dominazione islamica), al figlio che risiedeva al Cairo proprio nel quartiere commerciale di Fustât. Dalla lettera – con la quale la vedova richiamava ai suoi doveri il figlio lontano - apprendiamo che il defunto marito si chiamava Elia Dimuniscî, che un altro figlio era sposato a Siracusa e le figlie vivevano ancora a Ragusa con la madre.

Le comunità ebraiche più consistenti di numero si trovavano a Modica, Scicli e Ragusa, dove sono stati individuati i quartieri in cui risiedevano, ma c’erano anche più piccoli nuclei a Chiaramonte e Monterosso e gruppi isolati sparsi un po’ ovunque nelle campagne. Parte di loro erano dediti all’agricoltura, alla pastorizia e alla pesca, altri erano artigiani (sarti, calzolai, maniscalchi, carpentieri, muri fabbri, fornai, macellai, orefici, argentieri), altri ancora commercianti.

A Modica essi erano concentrati nel quartiere Cartellone (Cartidduni, dall’ar. Harat al-yahud, “Il quartiere degli ebrei”). Praticavano la bachicoltura, attraverso la coltivazione del gelso, e avevano numerose officine per la concia delle pelli e la tintura dei tessuti. Al Cartidduni c’era la sinagoga (detta con termine arabo meskita, cioè moschea) ed anche il macello ebraico, dove la macellazione del bestiame avveniva secondo il rito.

***

Osservato il Libro, o sia Rollo denominato delli Giudei, che contiene particolarmente e distintamente tutti i singoli beni stabili: enfiteutici, burgensatici, censali, rendite, proventi, dritti ed altri di tutto il contado di Modica, e delle terre di Ragusa, Gerratana, Monterosso, Comiso, Dorilli e Spaccaforno, do-vuto al magnifico e potente signore Bernardo de Cabrera, padrone di detto contado e terre, e del Re-gno di Sicilia Maestro Giustiziere, fatto e composto per il nobile Jaimo de Vitali, maggiordomo di det-to Cabrera, per mandato ed ordine dell’ istesso, nell’anno 1409, Regnando li serenissimi Re Martino primogenito del Re Aragona, e la Regina Blanca di Lui moglie”.

Il 14 maggio dell’anno 1800, il notaio della contea Giuseppe Maria Romano prendeva visione del Quinternum sive Rollum, etc., e ne riportava alcuni stralci purtroppo estremamente sintetici e smilzi. Diciamo purtroppo, perché il Quinternum, che annotava analiticamente la situazione del patrimonio comitale ai primi del Quattrocento, è andato perduto. Dalla succinta descrizione del notaio, comun-que, appare chiara la presenza di feudi o terre concessi in enfiteusi già nel 1409, e dunque circa mez-zo secolo prima che il figlio di Bernardo Cabrera, Bernardo Giovanni, avviasse quel vasto processo di concessioni enfiteutiche. E’ assai probabile, anzi, che Bernardo, al momento della sua investitura a conte di Modica (1392), avesse trovato l’istituto dell’enfiteusi già operante nella contea, e che quindi esso vi potrebbe essere stato introdotto dagli ultimi Chiaramonte. Ma sono presenti, nell’annotazione del notaio G.M. Romano, altri particolari ben più interessanti.


Il registro, infatti, è da lui definito “Libro, o sia Rollo denominato delli Giudei”: se ne deduce che quell’elenco (Ruolo) era così chiamato da quando era stato redatto e che della sua redazione erano stati incaricati degli ebrei. Questo è testimoniato a chiare lettere dalla firma finale dell’autore: il nobi-le “Jaimo de Vitali”, che lo aveva “fatto e composto”, ha un cognome ebraico (è la traduzione volga-rizzata dell’ebraico Jechièl “Dio vive”), mentre il nome lo dice catalano. Era, dunque, un ebreo cata-lano che era venuto nella contea di Modica al seguito di Bernardo Cabrera e che il novello conte ave-va nominato “maggiordomo”, cioè sovrintendente all’amministrazione del patrimonio. La carica di maggiordomo di palazzo, detto anche Signore/Maestro di palazzo o Camerlengo, era il massimo confe-rimento che un signore feudale potesse concedere a un suo vassallo.

D’altra parte, Bernardo Cabrera aveva potuto contare anche sui finanziamenti degli ebrei per la sua impresa siciliana (i cattolicissimi Angioini erano stati intolleranti con i giudei) e con l’investitura del 1392 aveva ricevuto un assoluto dominio su tutti “gli uomini e le donne, tanto cristiani quanto ebrei”. Quindi, come il re nelle città demaniali, così nelle sue terre feudali il conte aveva gli ebrei sotto la sua diretta protezione.

Per meglio valutare il peso e il ruolo socio-economico degli ebrei della contea di Modica, sotto il profilo qualitativo e quantitativo, è opportuno anzitutto cercare di precisare il loro numero.
Per quanto riguarda, più in generale, gli ebrei siciliani, non c’è accordo fra gli storici. Su una popola-zione complessiva dell’isola che si aggirava nel XV secolo sui 550.000 abitanti, c’è chi calcola la pre-senza ebraica intorno ai 35.000 individui e chi invece la colloca un po’ al di sotto di 20.000. Sulla di-stribuzione in Sicilia della popolazione ebraica, invece, c’è maggiore accordo: pressappoco la metà (il 47,9 %) nel Val di Mazara, il 26% in Valdemone e il 26% anche nel Val di Noto.

Intorno al 1450, nella contea di Modica, facendo riferimento alle tre terre in cui più consistenti era-no le comunità ebraiche e non considerando le più piccole comunità sparse per le campagne, gli ebrei erano 550 a Ragusa, circa 400 a Modica e circa 600 a Scicli. Se si aggiunge un centinaio o poco più di ebrei che vivevano nel vasto territorio di Chiaramonte, si arriva a un totale di circa 1800: cioè, il 33% (un terzo esatto) degli ebrei residenti nel Val di Noto. Teniamo anche conto del fatto che alla metà del Quattrocento tutto il Val di Noto contava presumibilmente all’incirca 150.000 abitanti e che la popolazione della contea si aggirava intorno ai 25.000 abitanti, costituiva cioè il 17% dell’intero Val-lo.
In conclusione, il numero degli ebrei che risiedevano nella contea di Modica costituiva poco più del 7% della popolazione complessiva.

Questa piccola minoranza ebraica della contea, dunque, stando al Quinternum dei primi del Quat-trocento, aveva la gestione di tutti i tributi e le rendite del conte e quindi concentrava nelle proprie mani l’amministrazione del patrimonio comitale. Questo ruolo era svolto ovviamente non da tutti gli ebrei, bensì dai loro maggiorenti: ogni giudecca, infatti, aveva un consiglio composto da dodici mem-bri, detti proti. Fra questi venivano scelti i percettori delle imposte. La carica di proto (protìa) era da-ta in gabella, cioè mediante il versamento, da parte del miglior offerente, delle entrate previste da quell’ufficio. Dunque era appannaggio degli ebrei più ricchi.

Già con Bernardo Cabrera – e forse a partire dagli ultimi Chiaramonte – il feudatario aveva rinuncia-to alla gestione diretta del suo patrimonio e la gestione delle singole parti di esso venne concessa in gabella. Bisogna precisare che il termine “gabella” aveva un duplice significato. Da un lato, infatti, in-dicava le imposizioni fiscali di varia natura gravanti sui singoli vassalli a vario titolo: erano, cioè, le tas-se sulle attività agricole o artigianali o commerciali; quelle, si direbbe oggi, sui “servizi” (pedaggi, net-tezza urbana, sorveglianza dei centri abitati e delle campagne, ecc.); e infine quelle sui consumi o dazi (molitura del grano, sulla macellazione e vendita della carne, sul vino, ecc.). La riscossione di tutte queste tasse – nonché dei censi annuali da esigere per le terre concesse in enfiteusi e delle altre en-trate spettanti al conte e derivanti dalla gestione in appalto di un latifondo, di un’azienda agricola, di un mulino, di una presa d’acqua, di un lago per la pesca, ecc. – era affidata a sua volta in gabella (cioè, si direbbe oggi, in appalto) al miglior offerente, attraverso bandi e gare vere e proprie.

Si deduce facilmente, considerando l’entità del patrimonio comitale, che chi si aggiudicava l’appalto della riscossione di questo bel mucchio di rendite doveva anticipare una cifra assai alta e, dunque, doveva disporre di grandi risorse finanziarie. “Il nobile Jaimo de Vitali, maggiordomo del det-to Cabrera”, dunque, in quell’anno 1409 era il proto “gabelloto” o “gabelliere” che gestiva tutte le entrate del conte. Era il suo Procuratore generale – una sorta di “amministratore delegato unico” dell’Azienda comitale -, che dirigeva il Tribunale del Patrimonio .

Le comunità giudaiche della contea, dunque, che verosimilmente avevano nei periodi precedenti mano a mano ampliato e consolidato con le attività agrarie, artigianali, commerciali e finanziarie il lo-ro ruolo socio-economico, con gli Aragonesi fecero il salto di qualità, arrivando ad essere quasi i mo-nopolizzatori dell’intera economia comitale.

Questo non poteva non provocare gelosia e invidia presso la comunità cristiana, specialmente in oc-casione del Venerdì Santo, quando il “deicidio” perpetrato dagli ebrei con la crocifissione di Gesù si manifestava in tutta la sua carica emotiva.

A proposito delle tensioni del venerdì santo abbiamo una testimonianza particolare relativa alla nostra contea. A Spaccaforno (oggi Ispica), ancora in pieno Ottocento, “i congregati dell’Ecce Homo nel giorno del giovedì santo si denudano sino alla cintola, e s’incamminano, urlando di devozione, per lo stradale che mena alla Valle d’Ispica, e lì con ferree discipline cominciano a battersi con tanta efferata violenza sulle spalle e pel petto, che bentosto divengono una sozza piaga”. Così scriveva nel secondo Ottocento Serafino Amabile Guastella, un aristocratico di Chiaramonte appassionato di cultura popolare. I flagellanti cantavano una monotona cantilena:

Lu pigghiaru, l’attaccaru,
lu purtaru nni Pilatu,
comu ‘n cuccu spinnacciatu.
Catalobi a li Judey:
pietati domini, miserere mei.

Doveva trattarsi di una cantilena antigiudaica molto antica. Il termine “catalobi” – accanto al quale lo studioso ibleo del secolo XIX aveva apposto un punto interrogativo – a nostro parere, infatti, deriva dal greco (κατα)λώβη (“rovina, distruzione”). Due indizi filologici riportano la parola al periodo della dominazione bizantina: il primo è il prefisso κατα-, che rafforza il concetto espresso dal termine (vale “completamente, affatto”, ed è presente in parole siciliane come catafuttiri e catacogghiri); il secondo indizio è la vocale finale con fonetica bizantina di -ε>-ι. La contrada Cifali fra Chiaramonte e Comiso, ad es., deriva dal greco κεφαλή (“capo d’acqua, sorgente”: da lì sorge il fiume Ippari) con simile gradazione fonetica.

Quella parola potrebbe essere il retaggio delle persecuzioni violente che furono messe in atto contro i giudei durante la dominazione bizantina (535-878 dell’era cristiana), quando sotto Basilio I essi erano stati messi di fronte all’alternativa drammatica di scegliere fra il battesimo e la morte. Era un grido, una sorta di terribile parola d’ordine, che apriva inesorabilmente la caccia all’ebreo.

Ma colpisce ancora di più l’irriverenza ‘cristiana’ della cantilena. Cristo è paragonato addirittura a un “cuccu spinnacciatu”, e la strofa che precedeva quella da noi riportata faceva così:

“Lu cunigghiu havi la tana, / lu surciddu ha lu purtusu, / ma ppi vui, patri amurusu, / ‘nci fu tana né purtusu”. Questo eccesso di “confidenza” con Dio e i santi, al punto da suonare blasfemo e antievangelico, doveva essere molto radicato a Spaccaforno se un racconto popolare riportato dal Guastella narrava che proprio là, in quelle riarse campagne, era venuta al mondo la prima strega, frutto dell’unione bestiale di Lucifero con una capra.

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