Caucus. Un podcast sulla democrazia americana.

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Caucus. Un podcast sulla democrazia americana. Podcast di politica e storia degli Stati Uniti creato e condotto da Mario Aloi e Lorenzo Costaguta. Seguici anche su Instagram ()

Il podcast esce ogni due lunedì su Spotify e le altre principali piattaforme.

16/07/2024

La pallottola destinata a Donald Trump ha riportato al centro del dibattito il tema della violenza che irrora la società americana dalla sua fondazione.

Ma di che violenza stiamo parlando? “La nostra violenza non ha alcun centro, né ideologico né geografico. Manca di coesione” scrivevano gli storici Richard Hofstadter e Michael Wallace nel libro American Violence. E infatti “solo una minima parte di essa è stata davvero insurrezionale”.

Varia, diffusa, non sporadica ma certamente senza organizzazione e spesso solitaria. Una violenza pre-politica che non ha mai preso di mira lo Stato.

Certo è che il catalogo di Hofstadter e Wallace oggi dovrebbe almeno includere l’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021: un episodio, questa volta sì, sistemico, puntato al cuore della Repubblica. Sta cambiando natura la violenza di cui è intrisa la storia degli Stati Uniti? E se la cambia forma e bersaglio, che ne sarà della stabilità politica?

Leggi “Gli Stati Uniti hanno una storia ma non una tradizione di violenza” di Mario Aloi
https://america24.fondazionefeltrinelli.it/violenzastatiuniti/

Caucus si trasforma. Seguiremo le presidenziali 2024 con un nuovo progetto intitolato "America Anno Zero" sulla piattafo...
03/05/2024

Caucus si trasforma. Seguiremo le presidenziali 2024 con un nuovo progetto intitolato "America Anno Zero" sulla piattaforma della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli. Non solo podcast, ma anche analisi, interviste, commenti.

Seguite la pagina della Fondazione per restare aggiornati, e visitate il nostro nuovo sito (link nel primo commento).

Ultima puntata di questa stagione sul midterm. Con Federico Leoni, caporedattore di SkyTG24 e autore di America Contro, ...
22/11/2022

Ultima puntata di questa stagione sul midterm. Con Federico Leoni, caporedattore di SkyTG24 e autore di America Contro, parliamo di Florida, Ron DeSantis e barbieri messicani.

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I due cent del nostro Mario Aloi sulla terza candidatura di Trump. Con un giorno di ritardo perché ha dovuto pensarci no...
17/11/2022

I due cent del nostro Mario Aloi sulla terza candidatura di Trump. Con un giorno di ritardo perché ha dovuto pensarci non bene ma proprio benissimo.

“Nel gennaio 2020 William Gibson, noto scrittore di fantascienza americano, esce con un romanzo, Agency, ambientato in una tempolinea alternativa in cui Hillary Clinton ha vinto le elezioni del 2016 ed è quindi presidente degli Stati Uniti. Pochi mesi dopo Curtis Sittenfeld dà alle stampe Rodham, in cui immagina che Hillary non abbia mai sposato Bill, sia arrivata al 2016 senza il fardello di controversie legate al brand Clinton, e anche qui abbia vinto la presidenza – stavolta nemmeno contro Trump, ma battendo Jeb Bush.

Se l’arte è una delle prime valvole di sfogo dell’inconscio collettivo, diciamo che due indizi fanno una prova. Gli americani hanno flirtato a lungo con l’idea che l’elezione di Donald Trump a presidente fosse solo un incidente della storia. Un dettaglio estraibile dal corso complessivo, perché tutto sommato privo di coerenza con il resto del flusso. Ovviamente questa idea è un’assurdità. L’annuncio che l’ex presidente correrà per la terza volta lo dimostra. Se d’incidente si era trattato, pare di natura piuttosto insistente.

A un primo ascolto, la parola più usata da Trump nel suo discorso di martedì – che conferma la solita struttura dadaista, fatta più che altro di non sequitur – sembra essere again, di nuovo. Alla fine è proprio entrato in loop, come peraltro gli capita spesso. We will make America powerful again. We will make America wealthy again. We will make America strong again. We will make America proud again. We will make America safe again. We will make America glorious again. And we will make America great again. Quello che Trump pare proporre al paese è quindi un’idea di restaurazione circolare. Che non va avanti, ma tutto sommato nemmeno troppo indietro. D’altra parte il trumpismo non è mai stato davvero superato.

Il tema che pone il lancio di questa nuova campagna è però ben più ampio dell’ostinazione del suo promotore, o della sua scarsa varietà lessicale. Solo in due casi, infatti, nella storia americana un presidente sconfitto dopo un unico mandato ha deciso di riprovarci. Una volta con successo, Grover Cleveland nel 1892, e una volta senza riuscirci, Martin Van Buren nel 1848. Entrambi quei momenti rappresentavano crocevia in cui stavano esplodendo le contraddizioni di regimi politici bene radicati: quello democratico inaugurato da Andrew Jackson prima e quello repubblicano lanciato da Lincoln poi. Senza voler azzardare paragoni storici rigidi, che non sono mai una grande idea, è però possibile che gli Stati Uniti si trovino a uno svincolo simile.”

L’ex presidente ha annunciato che si candiderà per la terza volta, imbottigliando la democrazia americana.

Episodio post elettorale eccezionalmente di lunedì. Commentiamo i risultati con il professor Mario Del Pero. Parliamo di...
14/11/2022

Episodio post elettorale eccezionalmente di lunedì. Commentiamo i risultati con il professor Mario Del Pero. Parliamo di nuova maggioranza democratica, sorprese a New York e Donald Trump.

Solito link nel primo commento!

Dopo aver ascoltato il sesto episodio, qui c’è pure il ripassino scritto. L’immancabile spiegone. Mario Aloi per Esquire...
08/11/2022

Dopo aver ascoltato il sesto episodio, qui c’è pure il ripassino scritto. L’immancabile spiegone. Mario Aloi per Esquire Italia.

Oggi gli americani vanno alle urne per le elezioni di metà mandato. Tutto quello che c’è da sapere.

Sesto episodio online. Il quadro finale subito prima del voto. Le ultime su Camera, Senato, affluenza e quando dobbiamo ...
08/11/2022

Sesto episodio online. Il quadro finale subito prima del voto. Le ultime su Camera, Senato, affluenza e quando dobbiamo aspettarci i risultati.

Link Spotify nel primo commento.

Dopo Tocqueville, il nostro Mario Aloi sullo stato della democrazia americana, o forse della democrazia in generale, all...
07/11/2022

Dopo Tocqueville, il nostro Mario Aloi sullo stato della democrazia americana, o forse della democrazia in generale, alla vigilia delle elezioni di metà mandato.

Ricordate di quando due anni fa Trump chiese al segretario della Georgia di «trovargli 11mila voti»?

Quinto episodio a una settimana dal voto. Parliamo di latinoamericani, segretari di stato e ultimi sondaggi.Link Spotify...
01/11/2022

Quinto episodio a una settimana dal voto. Parliamo di latinoamericani, segretari di stato e ultimi sondaggi.

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Il nostro Mario Aloi per Esquire Italia sul rompicapo elettorale in cui i democratici sono rimasti ingarbugliati negli u...
27/10/2022

Il nostro Mario Aloi per Esquire Italia sul rompicapo elettorale in cui i democratici sono rimasti ingarbugliati negli ultimi (due? tre? quattro?) decenni.

«I democratici finalmente hanno una grande storia da raccontare». Ma che fare con Donald Trump?

Per questo quarto episodio digressione storica. Parliamo delle elezioni di metà mandato del 1934. Negli ultimi quasi nov...
25/10/2022

Per questo quarto episodio digressione storica. Parliamo delle elezioni di metà mandato del 1934. Negli ultimi quasi novant'anni, uno dei soli due casi in cui il partito del presidente in carica ha guadagnato seggi in entrambe le camere.

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Durante l'ultima puntata abbiamo parlato di nazionalizzazione della politica americana, citando il libro qui sotto. Alcu...
23/10/2022

Durante l'ultima puntata abbiamo parlato di nazionalizzazione della politica americana, citando il libro qui sotto. Alcune evidenze sparse: 1) l’affluenza è tradizionalmente più alta nelle elezioni presidenziali rispetto a quelle statali/locali – e mentre la prima rimane stabile, la seconda continua a calare. Tendiamo a dare questa cosa per scontata, succede anche da noi con le politiche, ma a pensarci bene è controintuitiva, essendo che la politica locale ha un’influenza molto più diretta sulla vita degli elettori; 2) gli americani fanno molta più fatica a ricordare il nome del proprio governatore che quello del vicepresidente. E di nuovo, prima percentuale in calo e seconda stabile, anche se, come per il punto 1, il governatore ha un vero e proprio ruolo esecutivo, il vicepresidente no; 3) al 1990, 2/3 delle donazioni politiche individuali andavano a candidati dello stesso stato del donatore, nel 2012 si è scesi a un terzo, con i donatori che danno sempre più la precedenza a candidati che almeno formalmente non li rappresentano; 4) nel 2008 il 71% degli stati votava lo stesso partito nelle elezioni presidenziali e in quelle del Senato, nel 2020 questa corrispondenza è salita al 95,6%: di fatto non esiste più alcuna distinzione tra politica statale e politica nazionale.

E cosa succede quando il contesto politico si nazionalizza? Beh, il pubblico finisce a dar priorità a questioni di natura simbolica. Quando eleggiamo chi amministrerà il paesino dove viviamo, ci preoccupiamo di cose molto concrete tipo i trasporti che non funzionano o il tombino rotto. Insomma, problemi che hanno a che fare con il nostro interesse personale diretto. Quando invece il campo si allarga, i riferimenti si allontanano e diventano più astratti. Prendono il centro della scena le questioni cosiddette identitarie, cioè tutte quelle discussioni intorno ai simboli che certificano l’appartenenza a un gruppo piuttosto che a un altro.

Terza puntata di questa midterm edition. Parliamo di come si vincono le elezioni americane (queste e altre), di nazional...
18/10/2022

Terza puntata di questa midterm edition. Parliamo di come si vincono le elezioni americane (queste e altre), di nazionalizzazione e del perché i democratici hanno bisogno di 52 senatori.

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Secondo episodio verso il midterm. Parliamo di approval rating, ma*****na e seggi chiave per il Senato.Link nel primo co...
11/10/2022

Secondo episodio verso il midterm. Parliamo di approval rating, ma*****na e seggi chiave per il Senato.

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Primo episodio della nuova serie finalmente online. Introduciamo la stagione sulle elezioni di metà mandato, discutendo ...
04/10/2022

Primo episodio della nuova serie finalmente online. Introduciamo la stagione sulle elezioni di metà mandato, discutendo temi, sondaggi e precedenti storici.

Come al solito, link Spotify nel primo commento.

Catch up!
03/10/2022

Catch up!

Caucus.Midterm Edition.Ogni martedì.Dal 4 ottobre alle elezioni di metà mandato.E oltre.
01/10/2022

Caucus.
Midterm Edition.
Ogni martedì.
Dal 4 ottobre alle elezioni di metà mandato.
E oltre.

Ecco il libro della professoressaBaritono, che abbiamo raccontato e discussonella quarta puntata della miniserie appenac...
22/06/2022

Ecco il libro della professoressa
Baritono, che abbiamo raccontato e discusso
nella quarta puntata della miniserie appena
conclusa. Come per il secondo episodio niente
note, ché quello che c'è da sapere è tutto nel
link Spotify qui sotto nei commenti.

Ultima puntata della miniserie e ultimo ospite. Con la professoressa Raffaella Baritono parliamo di Eleanor Roosevelt. O...
14/06/2022

Ultima puntata della miniserie e ultimo ospite. Con la professoressa Raffaella Baritono parliamo di Eleanor Roosevelt. Oggi proprio solo di Eleanor Roosevelt.

Solito link Spotify nei commenti!

Online la terza puntata. Con la professoressa Benedetta Barbisan parliamo di Corte Suprema, diritto all’aborto, privacy,...
31/05/2022

Online la terza puntata. Con la professoressa Benedetta Barbisan parliamo di Corte Suprema, diritto all’aborto, privacy, penombre e Dwight Eisenhower.

Link Spotify nei commenti!

Eccoci con qualche estratto in traduzione dal pezzo di Paul Krugman del 2014 che abbiamo citato nell'ultimo episodio, qu...
26/05/2022

Eccoci con qualche estratto in traduzione dal pezzo di Paul Krugman del 2014 che abbiamo citato nell'ultimo episodio, quello da cui Matteo Battistini ha preso i termini feticcio/feticizzazione. L'articolo non è recentissimo,
ma la transizione di cui parla Krugman è
decisamente ancora in corso.

“Una delle cose più curiose degli Stati Uniti è da tempo l’immenso ventaglio di persone che si considerano classe media – e sostanzialmente se la raccontano. Lavoratori con salari bassissimi, che sarebbero considerati poveri secondo qualunque standard internazionale, diciamo con salari che sono la metà di quello mediano, si considerano bassa classe media. Mentre persone che stanno cinque, sei volte sopra la mediana pensano di essere anche loro classe media, ma alta.

Eppure forse qualcosa sta cambiando. Stando a un recente sondaggio di Pew c’è stato un deciso aumento del numero di americani che si considerano parte di una qualche classe bassa e una più leggere crescita anche di chi si considera bassa classe media. Quindi oggi mettendo insieme tutte le fasce cosiddette “basse” arriviamo più o meno a una maggioranza relativa della popolazione – grosso modo intorno al 47 per cento.

Questo mi pare uno sviluppo significativo. La retorica intorno alla povertà è caratterizzata sin dagli anni ’70 dalla credenza che i poveri siano un corpo estraneo, qualcosa di molto lontano da noi che lavoriamo duro e siamo veri americani. Quest’idea non ha niente a che fare con la realtà da decenni, ma solo adesso sembra veramente entrare in crisi.

Più concretamente questo significa che oggi quando i conservatori attaccano a parlare del fatto che la povertà nasce da un difetto caratteriale, e che quindi i programmi per combatterla sono un problema perché rendono la vita troppo facile, lo fanno davanti a un pubblico perlopiù composto da persone che finalmente iniziano a rendersi conto di essere tra coloro che potrebbero avere bisogno delle reti di protezione sociale.

[…]

Il punto è che volendo potremmo garantire i requisiti essenziali per un’esistenza middle class a quasi tutti gli americani, come fanno gli altri paesi avanzati. La sanità pubblica universale là fuori è la norma. Noi stiamo finalmente facendo qualche passo in quella direzione, ma la destra si oppone a questi progressi in modo isterico. Negli altri paesi avanzati anche una buona istruzione pubblica è alla portata di tutti.

La cosa triste è che la nostra feticizzazione della classe media, la storia che ci raccontiamo secondo cui ne saremmo tutti membri, è una delle ragioni principali per cui non lo siamo. Per questo la crescente presa di coscienza rispetto alla realtà della stratificazione sociale è una svolta significativa. Alza le probabilità che un giorno si riesca davvero a creare il genere di società che oggi facciamo solo finta di avere.”

Articolo completo in inglese qui https://truthout.org/articles/paul-krugman-redefining-the-middle-class/?amp

One of the odd things about the United States has long been the immense range of people who consider themselves to be middle class - and are deluding themselves.

Ecco il libro di Matteo Battistini, oggetto della nostra ultima puntata. E proprio perché ne abbiamo parlato lungamente ...
20/05/2022

Ecco il libro di Matteo Battistini, oggetto della nostra ultima puntata. E proprio perché ne abbiamo parlato lungamente martedì, oggi niente note. Per chiunque voglia sapere cosa c’è dentro, link Spotify nei commenti.

Nuovo episodio, nuovo ospite. Con il professor Matteo Battistini, autore di “Storia di un feticcio. La classe media amer...
17/05/2022

Nuovo episodio, nuovo ospite. Con il professor Matteo Battistini, autore di “Storia di un feticcio. La classe media americana dalle origini alla globalizzazione”, parliamo di classless society, scienze sociali in Europa vs Stati Uniti e Paul Krugman.

Link Spotify al solito nei commenti (ma ci trovate anche su Apple Podcasts, Spreaker e tutte le altre piattaforme).

Qui sotto «Tomorrow, The World» di Stephen Wertheim, di cui abbiamo parlato nell’ultimo episodio. E nel proporvelo, ecco...
13/05/2022

Qui sotto «Tomorrow, The World» di Stephen Wertheim, di cui abbiamo parlato nell’ultimo episodio. E nel proporvelo, ecco alcuni passaggi dalla recensione che proprio il professor Del Pero ne scrisse qualche mese fa.

“Stephen Wertheim ha scritto un originale, a tratti brillante, anche se alla fine non del tutto convincente, resoconto dell’ascesa degli Stati Uniti alla supremazia globale: della trasformazione dell’internazionalismo americano e di come sia diventato una sorta di giustificazione per un’egemonia di stampo prettamente militare. [...]

In un anno e mezzo, tra la caduta della Francia e l’attacco a Pearl Harbor – scrive Wertheim – «le elité che gestivano la politica estera s’imbarcarono in un’opera di profonda rivalutazione del ruolo dell’America nel mondo, concludendo che gli Stati Uniti dovessero farsi garanti dell’ordine internazionale attraverso l’affermazione della propria supremazia politica e militare». [...]

E così, per usare la famosa definizione di Henry Luce, comincia il «secolo americano». Un secolo basato non solo sul coinvolgimento e la leadership degli Stati Uniti, che poteva esprimersi in modo condiviso o unilaterale, ma più che altro su una capacità militare di proporzioni globali, da mettere in campo ogni volta che fosse stato necessario.

Senior fellow di uno dei più importanti think tank di Washington, il Carnegie Endowment for International Peace, dopo aver contribuito alla nascita di un altro think tank non-interventista molto particolare, il Quincy Institute for Responsible Statecraft, Wertheim legge chiaramente la storia con un occhio al presente: come un modo per dare consistenza storica alla sua critica della politica estera americana corrente.

Commentatore prolifico, provocatorio e sempre più apprezzato, guarda agli insegnamenti del passato con l’idea che quando compresi in modo corretto – e anticonvenzionale – possano offrire validi suggerimenti per le sfide del presente. Questo approccio, però, appare a momenti piuttosto problematico.”

Il primo episodio della nuova miniserie è online. Con il professor Mario Del Pero abbiamo parlato di guerra in Ucraina, ...
04/05/2022

Il primo episodio della nuova miniserie è online. Con il professor Mario Del Pero abbiamo parlato di guerra in Ucraina, nuovo ordine mondiale e interdipendenza tribale.

Link Spotify nei commenti (ma ci trovate anche su Apple Podcasts, Spreaker e tutte le piattaforme che vi vengono in mente)!

03/05/2022

Sembra proprio che sia impossibile lanciare una nuova serie nel giorno stabilito. Ad ottobre era andato per aria tutto l’internet, oggi la voce di Lorenzo lo ha mollato senza avvisare. Sperando che la recuperi, il lancio del primo episodio è rimandato a domani. Piccola anticipazione nel frattempo: sarà con noi (un gradito ritorno) il professor Mario Del Pero, per parlare - tema pressante - del ruolo degli Stati Uniti nel mondo.

Eccoci di ritorno con una nuova miniserie. Nuovo formato. 4 episodi, 4 ospiti. Dal 3 maggio su tutte le vostre piattafor...
29/04/2022

Eccoci di ritorno con una nuova miniserie. Nuovo formato. 4 episodi, 4 ospiti. Dal 3 maggio su tutte le vostre piattaforme di streaming preferite. Il vostro podcast sulla democrazia americana preferito. Si spera.

Dopo James Davison Hunter, ecco il secondo autore/testo di riferimento quando si parla di guerre culturali americane. “A...
22/12/2021

Dopo James Davison Hunter, ecco il secondo autore/testo di riferimento quando si parla di guerre culturali americane. “A War for the Soul of America: A History of the Culture Wars” di Andrew Hartman, professore di storia presso la Illinois State University.

Due gli spunti da cui partire, direttamente dall’introduzione al libro. Per prima cosa, l’autore scrive che “la storia americana è tutta, nel bene e nel male, un lungo dibattito intorno all’idea stessa di America”. Di qui le infinite discussioni su quali valori esprimano realmente l’identità nazionale che oggi chiamiamo appunto guerre culturali.

La seconda nota ha invece a che fare con i momenti in cui il suddetto eterno dibattito si prende la scena con particolare veemenza. Secondo Hartman, infatti, “queste dispute si intensificano in momenti particolarmente turbolenti di grande e rapido cambiamento”. Esattamente come – aggiungiamo noi – quello attuale.

Nel 2018 James Davison Hunter – l’uomo che con il suo libro “Culture Wars: The Struggle to Define America” ha coniato l’...
16/12/2021

Nel 2018 James Davison Hunter – l’uomo che con il suo libro “Culture Wars: The Struggle to Define America” ha coniato l’espressione “guerre culturali” – rilasciò una lunga intervista al Wall Street Journal proprio sullo stato del dibattito intorno al tema.

Pubblichiamo qui sotto un estratto in traduzione da quell’intervista perché ci pare ancora oggi di incredibile rilevanza. Oggi forse anche più di allora.

“Al di fuori del governo i progressisti hanno un chiaro vantaggio culturale all’interno delle grandi istituzioni, dalle università agli studi cinematografici, fino alle case editrici e alle agenzie pubblicitarie. Queste istituzioni sono importanti perché la cultura non è solo un “sistema significante” ma anche una “economia”.

E dov’è che questi sistemi culturali vengono prodotti? La cultura conservatrice viene in gran parte da istituzioni di medio o scarso prestigio. L’organizzazione cristiana Focus on the Family, per esempio, ha il suo quartier generale a Colorado Springs, non a New York o Los Angeles. I college conservatori, come Wheaton e Hillsdale, sono pochi e dispersi in luoghi remoti del paese.

Al contrario, l’economia culturale progressista esce fuori per lo più da istituzioni d’élite. E di conseguenza i suoi valori sono sempre più normalizzati all’interno dell’industria culturale mainstream. Questo rappresenta una totale inversione di tendenza rispetto alla prima metà del ventesimo secolo, quando un certo establishment protestante dominava le classi alte del paese. Negli ultimi 50 o 60 anni c’è stato un enorme spostamento e adesso la produzione culturale conservatrice opera per lo più alla periferia del sistema.

Di qui una delle ragioni per cui le guerre culturali si sono intensificate negli ultimi anni. Nella contemporanea economia della conoscenza sono riemerse le divisioni di classe. Per rimanere classe media o consolidare uno stile di vita da classe medio-alta, le persone devono ricevere una sorta di validazione dalle istituzioni che reggono la nostra società.

Negli anni ’80 e ’90 le guerre culturali erano dibattiti interni alla sola classe media. Oggi è ancora così, ma la classe media è un concetto meno fluido e c’è un confine più rigido tra i lavoratori che si portano il pranzo da casa e i loro superiori. Potere e ricchezza sono concentrati all’interno del 18/20% della popolazione che sta in cima alla piramide. I vari gruppi hanno valori diversi e codici linguistici differenti. Il risultato è che l’universo morale cambia in maniera sostanziale da classe a classe.

Con le istituzioni d’élite che hanno gradualmente ripudiato i valori delle masse, le guerre culturali hanno preso una connotazione – per dir così – “nietzschiana”. La posta in gioco è percepita come sempre più alta e le opposte coalizioni hanno cominciato ad abbandonare i propri valori al solo fine di mantenere il potere.

Le classi dirigenti professano cosmopolitismo e apertura, ma i sistemi culturali non possono, per loro natura, tollerare dosi eccessive di pluralismo. E quindi abbiamo la facoltà di legge di Harvard che si vanta della grande diversità all’interno del suo ateneo, ma in quella diversità, a guardar bene, tutti vedono il mondo alla stessa maniera.

E nella foga della battaglia, anche i gruppi religiosi conservatori si trovano a difendere comportamenti in aperta contraddizione con i valori morali che predicano. Un esempio lampante è il rapporto tra la destra religiosa e il [ormai ex, ndt] presidente. Se intravedono anche solo una minima speranza di controllare il governo, persino affidandosi a un personaggio imperfetto come Trump, anche le persone credenti aprono a qualunque genere di concessione, sono pronte a giustificare più o meno qualunque cosa.”

Articolo completo (in inglese) qui: https://www.wsj.com/articles/the-man-who-discovered-culture-wars-1527286035

James Davison Hunter coined the phrase in 1991, a year ahead of Pat Buchanan. Now he reflects on how the struggle has evolved over three decades.

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