26/01/2022
Gennaio 1982.
Ravarino, provincia di Modena.
Da poco passate le 7 del mattino.
Siedo nel sedile posteriore destro della Fiat 126 di mamma, rossa.
La guardo tentare ripetutamente di mettere in moto, attendendo qualche secondo tra un ti**re e l’altro della piccola leva dell’avviamento, vicino al cambio.
Ci cich, ci cich, ci cich : niente.
Fuori ci saranno pochi gradi sopra lo zero e siam qui da almeno 5, lunghissimi minuti.
Fuori esisterà pur qualcosa : per lo meno la stessa roba di campi e contadini di ieri, mi domando.
Ma non si vede un c***o e con quel freddo, si ha anche poca voglia di immaginare.
Fellini a parte, per molti l’Emilia d’inverno non è proprio una roba che ti stimola l’immaginazione: nemmeno da bambino.
Ho tre strati di vestiti e un giaccone di due taglie più grande che grazie alla canottiera di lana,alle due maglie e ai due maglioni, mi sta quasi giusto.
Siedo dietro come in taxi: sempre così, quando mamma teme pericoli.
Cioè sempre.
Ovviamente fa un freddo cane anche dentro l’auto che dopo vari tentativi finalmente si mette in moto e mamma esulta e ringrazia urlando ai santi appesi al retrovisore mentre esce in prima dal cortile e comincia a percorrere i 7 km tutti dritti verso Crevalcore, verso la scuola elementare.
In poco più di 7 kilometri, da lì si passa dalla provincia di Modena a quella di Bologna.
Ricordo quanto a mia madre non piacesse guidare, in qualsiasi stagione e condizione della strada.
Quel piccolo viaggio giornaliero, che poteva essere di 5,10 minuti al massimo per chiunque alla guida, per mia mamma era una distanza siderale da percorrere quasi a passo d’uomo anche col sole e col vento a favore, un periodo incalcolabile che mi costringeva ad alzarmi almeno mezz’ora prima dei miei compagni che abitavano nella cascina di fronte casa.
Naturalmente tutto era peggiore e quasi sinistro con il sopraggiungere dell’autunno e dell’inverno, quando la percezione del tempo e la paura di mia madre alla guida si dilatavano a dismisura, trasformando quella manciata di chilometri in una piccola, giornaliera odissea tra la neve e la nebbia.
Mamma, per concentrarsi alla guida, raccontava sempre qualcosa.
Credo lo facesse per darsi coraggio e, soprattutto, per infondere a me tranquillità sulle sue capacità di pilota.
Ora posso dirtelo, mamma : in quei 5 anni di elementari in Emilia, quando salivo sul 126, ero sempre preoccupatissimo.
Quel freddo mattino la storia era più significativa di altre: mi confidò che ero nato di 8 mesi o poco più e per giunta podalico,che ci vollero più
di 60 punti per farmi uscire, dato che mi ero capovolto dentro la sua pancia, a causa di una caduta.
Eravamo nei pressi di casa in quel caldo giorno di giugno e Il nostro cane, un grosso cane lupo di nome Bianca, una femmina anziana che sarebbe mancata qualche mese più tardi, si era immolata a un dobermann scappato al suo padrone, frapponendosi tra lui e noi.
Bianca si procurò profonde ferite a causa delle quali ci lasciò quell’inverno, il dobermann, non nuovo ad aggressioni ad altri cani e persone, fu in seguito abbattuto ed io e mia mamma finimmo di corsa in ospedale, dove dovettero farmi nascere prima del tempo e mia mamma, a causa dell’intervento, non poté più avere figli.
Sono passati 40 anni da quel mattino emiliano e In tutti questi anni, mamma mi ha ricordato diverse altre volte quel giorno.
Quando ancora salda nel suo ruolo genitoriale, brandendo una scopa o roteando una ciabatta dopo qualche mia ca***ta giovanile, tentava di far percepire a un adolescente un po’ co****ne il dolore che aveva dovuto patire per mettermi al mondo, oppure quando anziana e piena di acciacchi, seduta ricurva su una panchina, semplicemente voleva ricordarmi che aveva ancora bisogno di me, anche se le scocciava dirlo, ammetterlo.
Almeno questo è quel che penso io, tutte le volte che la vedo e che me lo racconta: l’ultima, proprio qualche giorno fa.
Fatto sta che da allora, dopo la morte della nostra Bianca, passai l’infanzia appassionandomi a tutte le storie dove c’erano dei lupi e mi faceva profondamente incazzare leggere come, sistematicamente, fossero sempre gli antagonisti i cattivi, gli spietati, gli assassini: per me era il contrario.
A me aveva difeso, un lupo.
Mi è sempre piaciuto pensare che Bianca fosse stata una vera lupa e che lei e il suo branco mi avrebbero difeso anche da adulto, alle volte magari proprio dall’uomo, con coraggio e fedeltà, perché il coraggio di qualcuno è quasi sempre la salvezza di qualcun altro, più debole e indifeso.
Questa storia ve l’ho raccontata per due motivi.
Il primo : uno dei miei progetti artistici si chiama Wolves Hills, colline dei lupi. E adesso penso abbiate capito che non è stato un nome dato a caso.
Il secondo perché prossimamente vi farò sentire qualcosa di questo progetto e anche vedere 3 video clip estratti dal prossimo disco, che sono pieni zeppi di immagini di lupi : anche di questo...ora sapete il perché.
Ah, dimenticavo : appena ha potuto farne a meno, mamma ha eliminato dalla sua vita patente e automobili e a portarla in giro, quando serve, sono io.
Le piace sedersi dietro, lato passeggero, guardando i campi ordinati della provincia di Cuneo, dal finestrino.
Di tanto in tanto mi ricorda che non c’è poi tutta questa fretta.
Che se si vuole, nel mentre che si va, si può sempre raccontarsi qualcosa e andare, possibilmente, un poco più piano.
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