15/03/2021
In questo primo giorno di lockdown pensiamo che questo contributo possa essere letto con calma e gli possa essere dedicata la giusta attenzione!
"Sono Grazia Sposito una donna di 33 anni amante dei libri, della scrittura e dell'arte in generale. Abito a Marcianise a pochi chilometri dalla bellissima Reggia di Caserta con la mia stupenda famiglia: papà Antonio, mamma Raffaella e Alba e Alessia, le mie ali ovvero le mie due sorelle. Quando sono nata avevo dei giri di cordone troppo corti che hanno impedito all’ossigeno di arrivare al cervello, come madre natura voleva. Donandomi per tutta la vita una tetraparesi spastica. Mancavano poche ore, prima che lasciassi quella culla dalle pareti gelatinose che mi aveva ospitata per quasi nove mesi, prendendosi cura di me e di ogni mio piccolo bisogno, coccolandomi con il suo immenso amore, non facendomi soffocare. Non aveva più senso che restassi ancora accartocciata lì dentro, avevo urgenza di respirare la vera essenza di vita, sentire la vera luce del sole che mi riscaldasse, recintarmi di tutto l’amore che mi stava aspettando fuori da quelle pareti viscose. Iniziai così a scalciare con forza la grossa bolla che divideva me da mia madre, che in tutti quei mesi aveva impugnato ogni mia difesa; quei piedini che negli ultimi due giorni sembravano due anguille fuori dall’acqua. Non avevo paura più di tanto di quello che la vita aveva in serbo per me una volta lasciato quel posto, l’unica cosa che volevo, e di cui ero pienamente sicura, era quella d’essere al più presto la protagonista di questa vita. Qualunque cammino mi fosse stato assegnato sarebbe stato il dono più prezioso che la vita mi abbia mai potuto concedere. Tuttora penso alla vita come un copione, simile a quelli che danno alla prima lezione di una compagnia teatrale. L’unica differenza, è che non conosciamo il regista, o meglio non l’abbiamo mai incontrato, ma ne abbiamo sentito tante volte parlare, e per questo qualsiasi sceneggiatura lui abbia pensato per noi ci appare come il dono più prezioso, come la sorpresa più grande che ci potesse concedere. «Ma cos’è? Questi ultimi minuti sono diventati interminabili, da quando hanno trasferito mia madre sulla barella nella sala operatoria». Passò più di un’ora di travaglio quella mattina nella sala chirurgica e quei camici verdi sembravano immobilizzati, aspettavano che venissi fuori da sola, senza accorgersi che stavo loro allungando la mano, in cerca d’aiuto. «Signora, spinga, spinga più forte, prima che vostra figlia risalga di nuovo!». Sono queste le agghiaccianti parole che senza conoscerne il reale significato, facevano da eco dentro la pancia. Quella voce fredda e distante del ginecologo che non riuscì nemmeno per una volta a ricoprire le urla di mia madre. A denti stretti, e con la mia mamma che aveva esaurito tutte le sue forze, io venni al mondo. Era il 13 agosto del 1987. A dirvi la verità non capì il perché dopo avermi avvolta nelle asciugamani bianche, non mi portarono a conoscerla, ad annusare semplicemente il suo odore. Quel momento in cui una madre ammira sua figlia a pochi minuti di vita, resta indescrivibile, non paragonabile a nessun altra cosa al mondo; non capì perché gliel’avessero vietato. «Mia mamma è sveglia, non le hanno fatto nessuna anestesia, perché mi portano via-aaa? –Dove mi stanno portando…?» Quei guanti sterili, si resero conto troppo tardi che il parto si stava presentando complicato, e per non rendere più difficile la situazione, pensarono di procedere con l’uso di una ventosa. Al di là dell’enorme porta di ferro che divideva la sala operatoria dalla sala d’attesa, stavano ad attendermi mio padre e mia nonna materna, che non videro uscire nessun camice verde con un fagottino in braccio avvolto nelle asciugami. L’oltrepassò soltanto un dottore che con gli occhi rivolti all’altezza di mio padre, spiegò che c’erano state delle complicazioni durante il travaglio ed ora mi trovavo al piano superiore, per dei controlli, che il bollettino medico richiedeva in quei casi. Fu l’attesa più lunga e atroce della giornata, fin quando, verso le tre del pomeriggio, rassicurarono i miei descrivendomi come una bambina in perfetta forma; solo in quel momento quell’ansia vide protagonista le prime lacrime di gioia. Ma il mattino seguente quando venni riaccompagnata per la prima poppata della giornata, mia madre si accorse che non ero serena come mi aveva lasciata la sera prima, ero nervosa, agitata. Piangevo dalla fame ma non riuscivo ad attaccarmi al suo seno. Le sue paure presero all’improvviso di nuovo il sopravvento, ma più di ogni altra cosa non riuscì a nascondere la sua preoccupazione più profonda, ripensando a quell’immediato intervento che ci fu la mattina precedente a fine parto. Mi baciò più volte, molto delicatamente sulla fronte, con la speranza che si stesse sbagliando; ma purtroppo tutte le tre volte di seguito, che compì quel gesto, le sue labbra avvertirono quella temperatura calda. Non si sbagliava; d’altronde le mamme non errano mai, anche se stavolta avrei preferito senz’altro il contrario. L’immediato intervento della ventosa per potermi aiutare a vincere l’impedimento costituito da un doppio giro di cordone, provocò un’asfissia da parto. Sarebbe bastato soltanto un minuto in più, per rendesi conto, che quella vita che stava per nascere, aveva dei giri di cordone; quella complicazione che si sarebbe potuta evitare nel momento in cui quel camice verde con i suoi guanti sterili, avrebbe effettuato una semplice anestesia, per poter procedere con il suo bisturi al taglio cesareo; un’incisione indolore e certamente poco drammatica per mia madre e quel mio ve**re al mondo nella maniera più ospitale possibile. Non spensi nemmeno la mia prima candelina, messa in maniera distratta al centro di quella torta colma di cioccolata e panna montata, quando dopo una serie di visite specialistiche e day hospital, i miei, dandosi il cambio fra le loro braccia, mi incamminarono verso un percorso riabilitativo, abbastanza duro per i primi tempi. Da come mi raccontano, i veri e assoluti protagonisti per i primi tempi furono pianti, strilli e vomiti. Tanto che la signora delle pulizie ci aveva fatto quasi l’abitudine, dopo i primi cinque minuti di terapia, già si trovava dietro la porta per poter disinfettare il pavimento. Oltre a quei fulminanti momenti, non passarono inosservati i miei splendidi capelli dal riccio biondo; usati spesse volte per la creazione di nuove acconciature da parte della mia fisioterapista. Venni soprannominata la bambina “dai riccioli d’oro”, quel soprannome che a distanza d’anni si trasformò in “principessa pipì,” perché non appena varcavo la porta dell’androne chiedevo di dover andare in bagno. Gli anni passarono velocemente in quell’enorme struttura, che avevo fatto l’abitudine di sentir pronunciare dalle labbra dei miei sotto il nome di “centro”. Bruciai così le prime tappe dello sviluppo psicomotorio, conquistando a poco a poco un buon autocontrollo del mio schema corporeo, iniziando a fare i primi passetti. Mentre nell’altra stanza iniziavo la corretta articolazione dei primi fonemi, ed esercizi bocca-linguali per mettere in funzione o meglio risvegliare i muscoli della bocca. Per fortuna anche per me come per tutti gli altri bambini, ogni mattina aspettavano i banchi di scuola, i compiti, le interrogazioni programmate. Persino lì ho dovuto difendere un mio diritto per poter aver un programma di studio come tutti gli altri, per poter essere valutata alla pari. Odiavo i compiti semplificati, mi piaceva mettermi in sfida ogni nuovo giorno per tutto quello che c’era da imparare; forse l’unica cosa che davvero mi differenziava dagli altri era quella d’avere una maestra più. Una maestra speciale. Colei che mi avrebbe aiutata a scrivere quando la mia mano si sarebbe stancata, colei che mi avrebbe spiegato una volta in più quel nuovo esercizio di matematica. L’ultimo scontro lo ebbi al primo anno di scuola superiore con il professore d’economia, che si fermò, come di consueto nell’attuale società, alla semplice apparenza; ignorando la consapevolezza che nei nostri limiti si nascondono le nostre ricchezze migliori. Mi disse che secondo lui non era il caso che io seguissi lo stesso programma di studi, forse aveva paura che rimanesse indietro con il programma o non so cosa. Così, dopo vari scontri, molti dei quali fatti solo di sguardi, gli suggerii di mettermi alla prova, e che avrebbe potuto decidere con la valutazione del primo compito. Superai la sufficienza come meno della metà della classe. In meno di cinque anni, conseguii il diploma di tecnico della gestione aziendale come qualunque alunno di quell’istituto con risultati soddisfacenti. Le previsioni dei medici nei primi anni erano davvero pessime ma grazie ai tanti sacrifici fatti, specialmente nei primi anni di vita – fisioterapia, logopedia, ippoterapia, piscina – ho recuperato davvero tanto. Oggi mi ritengo una donna abbastanza autonoma, che non vede nessun limite lungo il suo cammino ma che ogni volta cerca e vuole raggiungere i suoi sogni. Fin dai piccoli banchi della scuola elementare inseguo la mia più grande passione per la scrittura. L’amore di questo mondo fatto di penna è nato un po’ per gioco, come il primo ragazzino che ci fa ba***re il cuore. Nel dicembre del 2016 ho incoronato uno dei sogni più grandi, pubblicando il mio primo libro “L’urlo dell’anima” con Guida Editori. Una raccolta di versi celati nei meandri dell’anima, musa ispiratrice di tanti momenti di vita. Gioie, dolori, speranze, orizzonti non sempre raggiungibili, ma anche amicizie, amori, luoghi che hanno risvegliato incondizionatamente la sua anima. Poesie come specchio dell’anima, come cura di una malattia priva di nome. Gli anni più spensierati, sono passati più veloci di quanto io immaginassi, anche se da un lato sentivo il bisogno di vivere i primi anni come qualunque bambina della mia stessa età; come giocare, esplorare il mondo, sbucciarmi le prime volte le ginocchia per i primi giri in bicicletta nel cortile di casa, dall’altro lato subito capii che diversamente da tutti gli altri bambini avevo delle responsabilità maggiori, dovevo essere perfino più precisa a dare comandi alla parte del cervello più sana. Quella realtà sotto certi aspetti un po' amara, che mi ha accompagnata man mano a diventare subito adulta in un corpo che a malapena cresceva. In fin dei conti si può essere grandi anche da piccoli. La vita a volte ci mette davanti determinate necessità, in cui avverti la sensazione che devi essere per forza pronta per metterti in gioco; stringendo i denti e trovando la giusta strada da percorrere. Dove non esistono ostacoli per i tuoi sogni. Ho sempre pensato che la libertà non ci viene data da un corpo perfetto, o dal colore del rossetto che mettiamo sulle nostre labbra il sabato sera, la libertà ci viene data da un cuore libero, che sappia amare. Che sappia vedere l’impercettibile oltre che l’invisibile, che riesca a liberarci dalle catene delle nostre paure, ponendo pace ai nostri sogni. È stato così che la scrittura, è diventato un mezzo di espressione che mi ha permesso di superare limiti inimmaginabili; aiutandomi a colmare i miei incubi più bui, e liberandomi da alcune paure che mi strozzavano. Ma al dir il vero in questo mondo fatto di penna sono entrata un po’ come fanno le ballerine di danza classica, in punta di piedi; credendo che prima o poi anche lei, la scrittura, mi avrebbe delusa, ma ho dovuto subito ricredermi vedendo il suo sapere dare giusto sfogo a tutte le emozioni e sensazioni recluse da troppo tempo, da troppi anni nei sentieri più nascosti della mia anima. Credo che la grande emozione per ogni ballerina è tutta lì, vedere quelle tende pesanti di velluto rosso, aprirsi per il suo primo debutto in teatro per il saggio fine anno dopo mesi di sacrifici, di tutù, chignon e piedi sofferenti. In un certo senso anch’io con il mio primo libro di poesie “L’urlo dell’anima” ho voluto coraggiosamente aprire quelle tende e “danzare” per un numeroso pubblico che mai mi sarei immaginata, raccontandovi un pezzettino del mio vissuto, auspicandomi di riuscire ancora a lasciare impronte fertili nella vostra anima che quell’onda del mare non potrà mai cancellare. Ci sono momenti in cui ringrazio la mia disabilità perché mi ha permesso di cacciare tutto il mio potenziale, aiutandomi a percepire che ci possiamo spingere oltre la più sfrenata immaginazione, se solo lo si vuole. Paradossalmente per me gli ostacoli non sono mai esistiti, li ho sempre scambiati in margherite bianche; così come nel corso del tempo ho trasformato i miei limiti in un trampolino di lancio, per raggiungere la felicità, la mia normalità. Sogno un mondo libero, dove la paura sia avvolta dal sentimento amore e la parola guerra sia sinonimo di pace. Un mondo di uguaglianze e pari opportunità, dove la scrittura sia un’eccezione a tutto, dove ognuno può sentirsi libero d’urlare con il suo colore preferito su di un foglio bianco. Attualmente sto svolgendo il mio percorso per il patentino giornalista pubblicista con il giornale Informare Magazine. Mi piace soprattutto affrontare nei miei articoli tematiche riguardanti disabilità, contesti sociali particolari, storie di resilienza. Questo percorso mi sta regalando tantissime emozioni, riuscendo nonostante le mie difficoltà di linguaggio a pubblicare anche delle piccole interviste. Nelle mie righe mi piace dar voce a chi purtroppo è rinchiuso nel proprio silenzio, o vittima di pregiudizio. La mia battaglia è quella di dare voce a chi non ce l'ha! In qualsiasi forma essa sia, verbale e non. L’importante è Urlare. Portando prima di tutto un messaggio importante: che non dobbiamo vedere la disabilità come una forma di pietismo , ma vedere la disabilità come risorsa. Come un arricchimento della società. Impariamo a guardare con gli occhi di un bambino che sa guardare Oltre, verso chi ancora oggi viene considerato “diverso”. I miei occhi possono vedere qualcosa di diverso da quello che vede un altro, perché tutto dipende da come guardiamo quella determinata persona. Una donna rimane donna in ogni caso e non esiste carrozzina che possa portarle via le sue caratteristiche, le sue forme e tutto ciò che disegna la sua immagine e la sua personalità. Impariamo a guardare la disabilità con occhi diversi, non dimentichiamoci d’indossare ogni mattina, gli abiti della consapevolezza che la diversità è fonte di ricchezza divina da cui si evincono le profonde fonti d’amore e di coraggio. L’unico limite che non consente di tastare le grandi sfumature che la vita genera è il pregiudizio"