29/10/2024
Colonialismo d’insediamento e solidarietà transnazionale: quale critica verso nuovi assi della resistenza?
Negli scorsi giorni bombardamenti dell’esercito turco hanno colpito il nord della Siria e dell’Iraq. Per comprenderli non dobbiamo recepire l’ennesima narrazione circa una “lotta al terrorismo” da parte di uno stato che da anni è aggressore e potenza occupante in entrambi i paesi. Abbiamo anzi il dovere, come in rapporto alla Palestina, al Libano o all’Ucraina, di individuare le dinamiche coloniali e imperiali che definiscono i contorni di un’operazione militare cui le istituzioni internazionali – e gli stessi stati siriano e iracheno – si stanno guardando bene dal rispondere. L’Iraq ha recentemente firmato accordi che permettono ad Ankara di colpire il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) sul suo territorio, dopo anni di blocco artificiale del flusso idrico verso l’Iraq attraverso il Tigri e l’Eufrate. Una simile politica di ricatto sull’acqua ha riguardato e riguarda anche la Siria del nord, dove i movimenti islamisti diretti dalla Fratellanza musulmana e dal partito di Recep Tayyip Erdoğan (Akp) praticano dal 2018 un sistematico colonialismo d'insediamento, cacciando centinaia di migliaia di persone dalle loro case e insediando famiglie selezionate attraverso una profilazione razziale e politica, come ho cercato di mostrare in una mia recente ricerca.
La violenta ingegneria demografica praticata dall’Akp, dai Fratelli musulmani e dai loro alleati in Siria (organizzati nella Coalizione nazionale siriana e nell’Esercito nazionale siriano) è volta ad annientare i dissidenti politici e le forze della resistenza democratica a questo disegno egemonico e neo-coloniale (organizzata nel Congresso siriano democratico e delle Forze siriane democratiche). Colpisce come il governo turco abbia appreso tanto dalle tecniche di colonizzazione quanto da quelle di annientamento politico mirato applicate negli anni da Israele in Palestina: sebbene i civili non vengano risparmiati dai bombardamenti, sono spesso i militanti dei movimenti rivoluzionari confederali (il Partito di unione democratica in Siria, il Pkk, le Ybş ezide o il movimento femminile Kongra Star) ad essere assassinati “chirurgicamente” dalle tecnologie aeree sviluppate dall’azienda TUSAŞ (Turkish Aerospace Industries Corporation, colpita dall’attacco del Pkk del 23 ottobre) con tecnologie fornite dall’italiana Leonardo.
Con queste armi l’esercito turco ha invaso tre volte via terra la Siria tra il 2016 e il 2019. Nelle zone occupate, da cui sono fuggite 300.000 persone, centinaia di comuni popolari e case delle donne sono state sciolte, i nomi dei villaggi e delle vie sono stati modificati per accentuare riferimenti ottomani e a una concezione dell’islam chiusa sulla legge e sulla conquista, cancellando secolari eredità sincretiche caratteristiche, paradossalmente, proprio delle fasi del complesso splendore ottomano, oltre a ogni traccia di toponomastica curda o assira e di culto o insediamento ezida. Templi antichissimi sono stati distrutti, mentre le comunità turcomanne della regione venivano scandagliate alla ricerca di giovani da usare come carne da cannone tra i gruppi jihadisti o fascisti locali; e le persone che, nelle stesse comunità turcofone, avevano una diversa inclinazione ideologica o religiosa (socialisti, anarchici, musulmani sufi o aleviti) sono stati marginalizzati quando non perseguitati.
Nelle campagne occupate di Afrin e Ras al-Ayn (Sere Kanî) è seguita una campagna di espropriazione delle terre e delle fattorie, nascosta dietro dubbi riferimenti a una guerra “per l’islam” contro “terroristi” e “infedeli”. Torture, rapimenti e stupri sistematici sono stati attuati per terrorizzare i giovani, le donne che difendono la propria autonomia e ogni gruppo dissidente, anche informale, all’interno della popolazione. Il difficile obiettivo è cancellare tracce e memoria della rivoluzione confederale che tra il 2012 e il 2019 ha attraversato quelle zone. Prima dell’occupazione queste città facevano parte dell’Amministrazione democratica autonoma del nord-est della Siria che, da Kobane a Raqqa, tuttora controlla un quarto del paese. Sebbene continui ad essere identificata dalla comunicazione occidentale con la sua parte geografica curda – il Rojava – l’Amministrazione è molto più estesa, ed è popolata da otto diverse comunità linguistiche, tra cui quella araba è maggioritaria.
L’attualità siriana, troppo spesso lasciata ai margini dall’analisi degli scenari di guerra, insegna che l’unico modo di comprendere il pianeta è studiarne le interconnessioni socio-politiche limitando l’insistenza su concetti aleatori come “etnico”, “religioso” o “culturale”. Il Mashriq (il Medio Oriente della terminologia imperiale statunitense) è un quadro politico profondamente interconnesso, che non può essere analizzato pezzo per pezzo. Non va considerato secondo le linee artificiali degli stati-nazione o per variabili identitarie immaginate come rigide, compatte e figlie dello sguardo razzista tanto caro all’orientalismo di matrice europea o statunitense – come se oltre i Dardanelli città, comunità, società e persone fossero definite da identificazioni passive e ancestrali, incapaci di scegliere opinioni e valori secondo diversi itinerari di vita, e dividersi all’interno delle stesse fedi, famiglie, comunità linguistiche e geografie per instaurare legami o assonanze che travalicano questi confini (come sarebbero invece in grado di fare gli israeliani, o saremmo in grado di fare in Italia, negli Stati Uniti, in Russia, ecc.).
Il disegno sionista di ingegneria demografica e sterminio in Palestina e Libano non può a sua volta essere compreso se non attraverso uno sguardo all’intera regione e a tutte le forze – non soltanto statali, ma anche riferibili ai movimenti sociali più o meno organizzati – che si affrontano in quel contesto. La critica teorica e pratica del sionismo non può che essere conseguenza di una critica coerente e complessiva, quindi radicale, del colonialismo come tecnica e prassi. Non esistono gruppi sociali, a qualsiasi titolo subordinati, che siano ideologicamente o politicamente omogenei. Le fazioni conservatrici legate al Consiglio Nazionale Curdo siriano – che si oppone in Rojava all’altra resistenza curda, quella coinvolta nell’Amministrazione autonoma bombardata dalla Turchia – hanno sempre avuto, come le loro compagini sorelle irachene, simpatie per Israele; la destra palestinese (ad esempio Hamas), attraverso i suoi rapporti con la Fratellanza musulmana regionale, supporta pratiche di colonialismo di insediamento e sostituzione demografica fuori dalla Palestina.
La branca di Hamas attiva nella guerra siriana, Aknaf Bayt al-Maqdis, ha approfittato nel 2018 delle politiche neo-coloniali turche per insediare i propri militanti e le rispettive famiglie nella provincia di Aleppo con gli stessi gruppi che saccheggiano le risorse e l’ecologia locale (ad esempio la produzione e il commercio di olio di oliva ad Afrin). Personalità legate ad Hamas si sono non a caso congratulate pubblicamente con Erdoğan per l’invasione di Afrin nel 2018 («Si spera che saremo tutti benedetti dalle vittorie della Ummah islamica in molte parti del mondo, come ad Afrin»), come con Aliye per quella delle regioni dell’Artzakh che, nel 2023, avrebbero condotto all’espulsione dalle loro terre di centinaia di migliaia di abitanti armeni. Le già menzionate forze conservatrici curde invece, che dagli anni Settanta cooperano con Israele e sono ostili al movimento socialista in Rojava, supportano in Siria (per un paradosso soltanto apparente) proprio lo spettro di forze che Hamas ha a lungo sostenuto (ad esempio Liwa Omar Ibn al-Khattab, parte di Jaish al-Haramoun), e che sono sostenute anche da Israele stesso.
La riproduzione, da parte di gruppi anche curdi o palestinesi, di pratiche politiche che non appaiono liberate da forme di mentalità coloniale, ci ricorda come anche le nostre resistenze abbiano visto in Europa combattere persone pronte a morire per la propria libertà, ma indifferenti al destino di chi era colonizzato o sterminato dalle nostre stesse nazioni in altre parti del mondo. Lo stesso vale per l’Ucraina attuale e per tutti “noi”, quale che che sia il “noi” cui ci vorremmo riferire. Ogni resistenza è un campo di battaglia, anche al proprio interno, perché è nello scontro anche sotterraneo tra diverse opzioni e progetti che si decide non soltanto la sconfitta o la vittoria, ma anche la loro portata e il loro significato.
Dall’appartenenza di un’organizzazione alla lotta di un popolo occupato o colonizzato non sembra discendere, almeno non automaticamente, un posizionamento la cui giustizia o efficacia siano esenti da controversie all’interno della comunità dei resistenti e delle persone direttamente coinvolte, se è vero che esistono organizzazioni curde e palestinesi che articolano critiche al colonialismo fondate su sguardi e concezioni del mondo di tutt’altra profondità (sono quelle che hanno tentato nella storia – non a caso – di connettersi in varie forme l’una con l’altra). La cruda presa d’atto delle lacerazioni esistenti tra e dentro le organizzazioni di resistenza non deve condurci a voltare le spalle alle resistenze popolari (vale anche per quella ucraina). Si tratta, al contrario, di stringere legami ancora più forti, diretti, concreti e direzionati a movimenti che, superando le logiche suprematiste costruite attorno a identità tanto riduttive quanto immaginarie, curvano il concetto di resistenza in senso rivoluzionario – ossia verso un rovesciamento della ripetizione dell’identico.
Contrapporre le resistenze e le istanze dei territori in guerra, come fanno le fazioni conservatrici curde e palestinesi o i governi israeliano e turco, significa al contrario rendere impossibile ogni convergenza e rafforzamento delle lotte a livello globale o persino regionale e, come possiamo notare, consegnare l’iniziativa di costruire queste connessioni agli stati e ai loro apparati militari-industriali, allontanando dalle popolazioni ogni prospettiva di liberazione e vittoria. Individuare gli assi della resistenza non è un’opera da delegare a gerontocrazie assediate da anni dalla rivolta giovanile e popolare interna. Chi nel 2018, nel 2019 o del 2022 ha stuprato, fatto sparire o sparato a maree di giovani in rivolta in Libano, Siria, Iraq e Iran (e continuerà a farlo, come ha sempre fatto, lucrando politicamente anche sull’assenza di soluzione per la causa palestinese) non è, per milioni di non bianchi musulmani che vivono in quei paesi, l’asse della resistenza – ma l’asse della polizia.
Non andiamo lontano se immaginiamo blocchi di popolazioni e nazioni usati (o da usare) gli uni contro gli altri come se vivessimo in uno scontro tra “culture” omogenee, o stati e blocchi di stati. La liberazione dalla guerra, anche se lo si volesse, non arriverà così – se non nei sogni di chi si illude persino sul significato delle proprie pose digitali. In Siria, in Palestina, nel Caucaso o in Ucraina le persone si battono, come avverrà forse (prima di quanto pensiamo) anche da noi, organizzandosi come possono di fronte a forze preponderanti, sostenute da superpotenze mondiali diverse accomunate da politiche coloniali analoghe negli scopi e nelle tecniche; forze mosse non dal demonio, ma dalla volontà di estrazione di energia umana e non umana dalla terra, e disposte a cancellare fisicamente chiunque non si conformi all’infinito ciclo autodistruttivo cui l’umanità viene sottomessa. Unica solidarietà che può danneggiare i piani di queste forze è quella che tenta di demolire la mentalità che giustifica il colonialismo estrattivo di insediamento e di rapina, lo denuncia come tale ovunque si manifesti, e costruisce cooperazione sovversiva transnazionale attorno a questo attrattore politico.
(Leggi l'articolo con i link a tutte le fonti su DINAMOpress: https://www.dinamopress.it/news/colonialismo-dinsediamento-e-solidarieta-transnazionale-quale-critica-verso-nuovi-assi-della-resistenza/)