17/12/2022
𝙄𝙇 𝙏𝙍𝘼𝙈𝙊𝙉𝙏𝙊 𝘿𝙄 𝙐𝙉 𝙎𝙊𝙇𝙀
A 𝘾𝙖𝙨𝙩𝙚𝙡𝙛𝙞𝙤𝙧𝙚𝙣𝙩𝙞𝙣𝙤, nelle campagne della Capitanata, nel giorno dell’anno con meno luce, il 13 dicembre del 1250, festa di Santa Lucia, a soli 56 anni, moriva l'imperatore 𝙁𝙚𝙙𝙚𝙧𝙞𝙘𝙤 𝙄𝙄 𝙙𝙞 𝙃𝙤𝙝𝙚𝙣𝙨𝙩𝙖𝙪𝙛𝙚𝙣.
L’imperatore si era sentito male qualche giorno prima, durante una battuta di caccia. Lo aveva colpito una infiammazione intestinale a cui presto seguì una serie violenta di attacchi di dissenteria, lo stesso atroce male, che nel 1197 aveva stroncato in giovane età la vita di suo padre, 𝙀𝙣𝙧𝙞𝙘𝙤 𝙑𝙄 𝙙𝙞 𝙃𝙤𝙝𝙚𝙣𝙨𝙩𝙖𝙪𝙛𝙚𝙣.
L’anno precedente, nel 1249, più di una sventura aveva messo a dura prova l’eccezionale tempra del sovrano.
Nel mese di febbraio, a 𝘾𝙧𝙚𝙢𝙤𝙣𝙖, era scampato alla morte per avvelenamento.
Nello stesso mese 𝙋𝙞𝙚𝙧 𝙙𝙚𝙡𝙡𝙚 𝙑𝙞𝙜𝙣𝙚, per molti anni consigliere, amico e 𝑏𝑟𝑎𝑐𝑐𝑖𝑜 𝑑𝑒𝑠𝑡𝑟𝑜 di Federico, fu arrestato dalle truppe imperiali: accusato di 𝑎𝑙𝑡𝑜 𝑡𝑟𝑎𝑑𝑖𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜, il notabile preferì la morte alla tortura e all’ignominia. Il delitto di cui fu protagonista rimane, ancora oggi, misterioso: forse si macchiò del reato di corruzione. Federico una volta disse che “𝑎𝑣𝑒𝑣𝑎 𝑡𝑟𝑎𝑠𝑓𝑜𝑟𝑚𝑎𝑡𝑜 𝑙𝑜 𝑠𝑐𝑒𝑡𝑡𝑟𝑜 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑔𝑖𝑢𝑠𝑡𝑖𝑧𝑖𝑎 𝑖𝑛 𝑠𝑒𝑟𝑝𝑒𝑛𝑡𝑒”, ma poi non parlò più di lui e del dolore di un'amicizia tradita.
Appena tre mesi dopo, il 26 maggio del 1249, l’amatissimo figlio 𝙀𝙣𝙯𝙤 cadde prigioniero dei Bolognesi. Inutilmente l’imperatore chiese la sua liberazione; da Bologna risposero con il crudo realismo della politica: “𝑠𝑝𝑒𝑠𝑠𝑜 𝑎𝑐𝑐𝑎𝑑𝑒 𝑐ℎ𝑒 𝑢𝑛 𝑝𝑖𝑐𝑐𝑜𝑙𝑜 𝑐𝑎𝑛𝑒 𝑐𝑎𝑡𝑡𝑢𝑟𝑖 𝑢𝑛 𝑐𝑖𝑛𝑔ℎ𝑖𝑎𝑙𝑒”. Il povero 𝙀𝙣𝙯𝙤, che, come ricordava 𝙁𝙧𝙖 𝙎𝙖𝙡𝙞𝙢𝙗𝙚𝙣𝙚 era “𝑡𝑟𝑎 𝑡𝑢𝑡𝑡𝑖 𝑖 𝑓𝑖𝑔𝑙𝑖 𝑞𝑢𝑒𝑙𝑙𝑜 𝑐ℎ𝑒 𝑝𝑖𝑢' 𝑣𝑎𝑙𝑒𝑣𝑎”, non riabbracciò più suo padre: morì a Bologna dopo 23 anni di una dorata, ma implacabile prigionia.
In quell’orribile 1249 si spense a soli 24 anni anche 𝙍𝙞𝙘𝙘𝙖𝙧𝙙𝙤 𝙙𝙞 𝙏𝙚𝙖𝙩𝙚, un altro figlio naturale al quale Federico aveva affidato il comando della Romagna, della Marca di Ancona e di Spoleto. 𝙍𝙞𝙘𝙘𝙖𝙧𝙙𝙤 p***e la vita nella 𝘽𝙖𝙩𝙩𝙖𝙜𝙡𝙞𝙖 𝙙𝙞 𝙁𝙤𝙨𝙨𝙖𝙡𝙩𝙖, durante la quale fu fatto prigioniero dai Bolognesi anche 𝙀𝙣𝙯𝙤.
Nei suoi ultimi giorni di agonia, steso su un letto nella rocca di 𝘾𝙖𝙨𝙩𝙚𝙡𝙛𝙞𝙤𝙧𝙚𝙣𝙩𝙞𝙣𝙤, all’imperatore tornò in mente una profezia attribuita a 𝙈𝙞𝙘𝙝𝙚𝙡𝙚 𝙎𝙘𝙤𝙩𝙤, l’astrologo di corte: “𝑚𝑜𝑟𝑖𝑟𝑒𝑡𝑒 𝑣𝑖𝑐𝑖𝑛𝑜 𝑙𝑎 𝑝𝑜𝑟𝑡𝑎 𝑑𝑖 𝑓𝑒𝑟𝑟𝑜, 𝑖𝑛 𝑢𝑛 𝑙𝑢𝑜𝑔𝑜 𝑖𝑙 𝑐𝑢𝑖 𝑛𝑜𝑚𝑒 𝑠𝑎𝑟𝑎' 𝑓𝑜𝑟𝑚𝑎𝑡𝑜 𝑑𝑎𝑙𝑙𝑎 𝑝𝑎𝑟𝑜𝑙𝑎 𝑓𝑖𝑜𝑟𝑒”.
Per questo motivo, in tutti i tumultuosi anni del suo regno, Federico aveva sempre evitato 𝙁𝙡𝙤𝙧𝙚𝙣𝙩𝙞𝙖 (𝙁𝙞𝙧𝙚𝙣𝙯𝙚). E non era nemmeno più tornato a 𝙁𝙡𝙤𝙧𝙚𝙣𝙩𝙞𝙣𝙪𝙢 (𝙁𝙚𝙧𝙚𝙣𝙩𝙞𝙣𝙤) la città ciociara che aveva frequentato nel lontano 1223, quando con 𝙥𝙖𝙥𝙖 𝙊𝙣𝙤𝙧𝙞𝙤 𝙄𝙄𝙄 progettava una Crociata e dove fu deciso il suo matrimonio con 𝙅𝙤𝙡𝙖𝙣𝙙𝙖, una delle sue quattro mogli, figlia del re di Gerusalemme.
Il vaticino si avverava: Federico stava morendo... ..𝑠𝑢𝑏 𝑓𝑙𝑜𝑟𝑒 𝑎𝑝𝑢𝑑 𝑝𝑜𝑟𝑡𝑎𝑚 𝑓𝑒𝑟𝑟𝑒𝑎𝑚...
Dal suo letto a 𝘾𝙖𝙨𝙩𝙖𝙡𝙛𝙞𝙤𝙧𝙚𝙣𝙩𝙞𝙣𝙤, agonizzante, il sovrano guardava una porta di ferro che confinava con la parete di una torre.
Sgomenti, lo vegliavano il figlio diciottenne 𝙈𝙖𝙣𝙛𝙧𝙚𝙙𝙞, l’arcivescovo di Palermo 𝘽𝙚𝙧𝙖𝙧𝙙𝙤 𝙙𝙞 𝘾𝙖𝙨𝙩𝙖𝙜𝙣𝙖, il gran giustiziere della Magna Curia 𝙍𝙞𝙘𝙘𝙖𝙧𝙙𝙤 𝙙𝙞 𝙈𝙤𝙣𝙩𝙚𝙣𝙚𝙧𝙤, 𝙋𝙞𝙚𝙩𝙧𝙤 𝙍𝙪𝙛𝙛𝙤 responsabile delle scuderie imperiali, 𝙍𝙞𝙘𝙘𝙖𝙧𝙙𝙤, conte di Caserta e genero dell’imperatore e il medico 𝙂𝙞𝙤𝙫𝙖𝙣𝙣𝙞 𝙙𝙖 𝙋𝙧𝙤𝙘𝙞𝙙𝙖.
La mattina del 13 dicembre, secondo una cronaca agiografica, l’imperatore volle indossare l’umile tonaca grigia dei cistercensi del terzo ordine di cui faceva parte. Chiese di essere sepolto nella 𝘾𝙖𝙩𝙩𝙚𝙙𝙧𝙖𝙡𝙚 𝙙𝙞 𝙋𝙖𝙡𝙚𝙧𝙢𝙤, accanto al padre ed alla madre. Il suo vecchio amico Berardo gli somministrò l’estrema unzione.
Alla notizia del decesso, 𝙥𝙖𝙥𝙖 𝙄𝙣𝙣𝙤𝙘𝙚𝙣𝙯𝙤 𝙄𝙑 non riuscì a trattenere la propria gioia per la fine del 𝑛𝑒𝑚𝑖𝑐𝑜 𝑔𝑖𝑢𝑟𝑎𝑡𝑜 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝐶ℎ𝑖𝑒𝑠𝑎 𝑐𝑟𝑖𝑠𝑡𝑖𝑎𝑛𝑎. Le prime parole della missiva che il pontefice inviò al popolo di Sicilia spiegano il suo stato d’animo: “𝐸𝑠𝑢𝑙𝑡𝑖𝑛𝑜 𝑖 𝑐𝑖𝑒𝑙𝑖, 𝑙𝑎 𝑡𝑒𝑟𝑟𝑎 𝑠𝑖 𝑎𝑙𝑙𝑖𝑒𝑡𝑖 𝑝𝑜𝑖𝑐ℎ𝑒' 𝑖𝑛 𝑓𝑟𝑒𝑠𝑐ℎ𝑖 𝑧𝑒𝑓𝑓𝑖𝑟𝑖 𝑒 𝑟𝑢𝑔𝑖𝑎𝑑𝑒 𝑓𝑒𝑐𝑜𝑛𝑑𝑎𝑡𝑟𝑖𝑐𝑖 𝑠𝑖 𝑠𝑜𝑛𝑜 𝑠𝑐𝑖𝑜𝑙𝑡𝑖 𝑖𝑙 𝑓𝑢𝑙𝑚𝑖𝑛𝑒 𝑒 𝑙𝑎 𝑝𝑟𝑜𝑐𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑐ℎ𝑒 𝐷𝑖𝑜 𝑐𝑖 𝑡𝑒𝑛𝑒𝑣𝑎 𝑠𝑜𝑝𝑟𝑎 𝑖𝑙 𝑐𝑎𝑝𝑜”.
Il fascino dell’imperatore svevo ha attraversato i secoli e vive ancora ai giorni nostri. La sua fine per centinaia di anni fu accompagnata da miti e leggende. Del resto, già prima della sua morte, la sua figura era stata mitizzata dai contemporanei. Un 𝘼𝙣𝙩𝙞𝙘𝙧𝙞𝙨𝙩𝙤 oppure un novello 𝙈𝙚𝙨𝙨𝙞𝙖, capace di riformare dal profondo la Chiesa. Già dopo la seconda scomunica, nel giugno del 1239, in una sua enciclica 𝙥𝙖𝙥𝙖 𝙂𝙧𝙚𝙜𝙤𝙧𝙞𝙤 𝙄𝙓 aveva paragonato Federico al mostro dell’𝘼𝙥𝙤𝙘𝙖𝙡𝙞𝙨𝙨𝙚 𝙙𝙞 𝙂𝙞𝙤𝙫𝙖𝙣𝙣𝙞: “𝑆𝑖 𝑙𝑒𝑣𝑎 𝑑𝑎𝑙 𝑚𝑎𝑟𝑒 𝑙𝑎 𝑏𝑒𝑠𝑡𝑖𝑎 𝑟𝑖𝑐𝑜𝑙𝑚𝑎 𝑑𝑖 𝑛𝑜𝑚𝑖 𝑏𝑙𝑎𝑠𝑓𝑒𝑚𝑖 𝑙𝑎 𝑞𝑢𝑎𝑙𝑒, 𝑖𝑛𝑓𝑖𝑒𝑟𝑒𝑛𝑑𝑜 𝑐𝑜𝑛 𝑧𝑎𝑚𝑝𝑒 𝑑’𝑜𝑟𝑠𝑜 𝑒 𝑐𝑜𝑛 𝑓𝑎𝑢𝑐𝑖 𝑑𝑖 𝑙𝑒𝑜𝑛𝑒, 𝑒 𝑛𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑎𝑙𝑡𝑟𝑒 𝑚𝑒𝑚𝑏𝑟𝑎 𝑐𝑜𝑛 𝑓𝑜𝑟𝑚𝑎 𝑑𝑖 𝑙𝑒𝑜𝑝𝑎𝑟𝑑𝑜, 𝑎𝑝𝑟𝑒 𝑙𝑎 𝑏𝑜𝑐𝑐𝑎 𝑝𝑒𝑟 𝑏𝑒𝑠𝑡𝑒𝑚𝑚𝑖𝑎𝑟𝑒 𝑐𝑜𝑛𝑡𝑟𝑜 𝑖𝑙 𝑛𝑜𝑚𝑒 𝑑𝑖 𝐷𝑖𝑜”.
Un anno dopo (1240) il papa riprendeva la diceria propagata tra i seguaci dell’abate e teologo 𝙂𝙞𝙤𝙖𝙘𝙘𝙝𝙞𝙣𝙤 𝙙𝙖 𝙁𝙞𝙤𝙧𝙚 che voleva Federico figlio di un diavolo piuttosto che di Enrico VI: “𝑆𝑒𝑟𝑝𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑣𝑒𝑙𝑒𝑛𝑜𝑠𝑜 𝑐𝑜𝑛𝑐𝑒𝑝𝑖𝑡𝑜 𝑑𝑎 𝑚𝑎𝑡𝑒𝑟𝑖𝑎 𝑖𝑛𝑓𝑒𝑟𝑛𝑎𝑙𝑒”.
Il 13 dicembre 1250 moriva un personaggio portentoso e terribile, ma allo stesso tempo fenomenale e contraddittorio. O almeno raccontato come tale.
Su 𝙁𝙚𝙙𝙚𝙧𝙞𝙘𝙤 𝙄𝙄 𝙙𝙞 𝙃𝙤𝙝𝙚𝙣𝙨𝙩𝙖𝙪𝙛𝙚𝙣 il giudizio della storiografia contemporanea fu contraddittorio mescolando ammirazione e critica. Di certo ogni opinione fu condizionata dall’influsso della propaganda papale.
Nel 𝙁𝙚𝙙𝙚𝙧𝙞𝙘𝙤 𝙄𝙄, 𝙞𝙢𝙥𝙚𝙧𝙖𝙩𝙤𝙧𝙚, la monumentale biografia che 𝙀𝙧𝙣𝙨𝙩 𝙆𝙖𝙣𝙩𝙤𝙧𝙤𝙬𝙞𝙘𝙯 (1895-1963), storico tedesco di origini ebraiche, dedicò all’imperatore svevo, lo 𝑆𝑡𝑢𝑝𝑜𝑟 𝑀𝑢𝑛𝑑𝑖 è rappresentato come un titano, un supremo tutore della giustizia, capace di saldare nella sua opera di governo l’eredità dell’antica Roma e la dottrina della Chiesa. L’imperatore svevo, 𝑖𝑙 𝑝𝑟𝑖𝑚𝑜 𝑔𝑒𝑛𝑖𝑜 𝑟𝑖𝑛𝑎𝑠𝑐𝑖𝑚𝑒𝑛𝑡𝑎𝑙𝑒, è visto come una figura messianica, un 𝑐𝑜𝑠𝑚𝑜𝑐𝑟𝑎𝑡𝑜𝑟𝑒 che domina il suo tempo seduto sul globo del mondo che gli fa da trono.
Nell'immagine il ritratto di Federico II con il falco dal suo trattato De arte venandi cm avibus; il manoscritto è conservato nella Biblioteca Vaticana (codice Pal. lat. 1071).
Per chi volesse innamorarsi della figura di 𝙁𝙚𝙙𝙚𝙧𝙞𝙘𝙤 𝙄𝙄 𝙙𝙞 𝙃𝙤𝙝𝙚𝙣𝙨𝙩𝙖𝙪𝙛𝙚𝙣 consigliamo di vedere l'intervento del 𝙥𝙧𝙤𝙛. 𝘼𝙡𝙚𝙨𝙨𝙖𝙣𝙙𝙧𝙤 𝘽𝙖𝙧𝙗𝙚𝙧𝙤 durante la manifestazione 𝙋𝙞𝙨𝙩𝙤𝙞𝙖 - 𝘿𝙞𝙖𝙡𝙤𝙜𝙝𝙞 𝙨𝙪𝙡𝙡'𝙐𝙤𝙢𝙤.
https://www.youtube.com/watch?v=glt7o_Q5qHw