21/08/2022
IL MIO PAESE NON E' UN BORGO di Vito Teti
Sono nato il sette settembre del 1950 alle otto della sera. Il paese aveva più di quattromila abitanti. Ricordo, dai racconti degli altri, che era una nitida e calda serata di quello che sarebbe diventato il mese più bello dell’anno. Da fuori arrivavano le voci dei bambini che giocavano e i passi, i rumori, delle donne, degli uomini, degli asini, delle caprette che tornavano dalla campagna. Venni battezzato la quarta domenica di settembre, la domenica del Crocefisso, la festa, il rito e la congrega da cui non mi sarei mai allontanato, nemmeno nel ’68 quando immaginai rivoluzioni scoprendo invece che, senza memorie, non era possibile cambiare. Il resto del mio tempo, da allora, l’ho impiegato per diventare figlio di un padre partito per il Canada, di una madre che avrebbe atteso per anni il suo ritorno e che, a nove anni, quando tornò, mi disse spingendomi verso un uomo che scendeva da una macchina con l’impermeabile in mano: «questo è tuo padre» e a mio padre: «questo è Vito nostro».
Nel frattempo, c’erano stati i giochi, gli orti, i nonni, i cugini, le campagne, le fughe, la scuola, il sussidiario, le guerre con i bambini delle altre rughe, la casa della Cutura, dove abitammo con i nonni fino a quando, nel 1958, papà non tornò da Toronto. Un anno dopo arrivò mia sorella Maria Costanza e mio padre me lo disse nella barberia di zio Vincenzo, in un pomeriggio in cui il maestro della quarta elementare ci aveva mandato a ricreazione. Un mese prima, l’11 ottobre, una bomba caduta sulla folla, durante i fuochi in onore della Madonna del Rosario, era stata una vera fine del mondo. Mio padre ed io ci cercammo, tra morti e feriti, per una intera notte, sciogliendoci in un interminabile abbraccio quando ci ritrovammo. Mamma e nonna, due ombre nella notte, due Madri Dolorose, quando mi videro corsero verso di me come la Madonna durante l’Affruntata verso il Cristo Risorto.
Il paese era denso, fitto, di uomini, donne e animali. Nei bassi ormai vuoti si stipavano famiglie di dieci e più persone. Le campagne, le processioni, i comizi e le casupole adibite a scuole erano piene di gente. C’era il pieno delle strade, del raglio degli asini, del belato delle pecore, del vagabondare di gatti e di cani, dei giochi, dei pettegolezzi, degli abbracci e dei litigi. Arrivò il pieno delle macchine che partivano con famiglie stipate e che piangevano come le persone che restavano. C’era chi salutava e diceva arrivederci sapendo che mentiva.
Le case chiudevano ma si pensava al ritorno. Noi partivamo per le città e le università e qualcuno tornava con il sogno di cambiare tutto. Cambiamo il paese, dicevamo. Bisognava restare. Bisognava tornare. E chi non tornava, rinviava il ritorno. Tanto il paese aspetta, pensavamo. Il paese non aspettava. Mutava. Si svuotava. I miei compagni delle elementari e delle medie sono ancora in Canada. Ne vedo qualcuno, ma siamo diventati altri. Hanno ormai la faccia del padre come io ho la faccia di mio padre, dopo che per una vita abbiamo tentato di fuggire dal padre.
Ho vissuto la fine e l’erosione della civiltà contadina alla quale ero legato anche se ormai il vento andava verso il boom, i Beatles, il ’68 e la voglia di cambiare il mondo. Sono cresciuto a cavallo tra due età, due epoche, due civiltà. In poco più di un decennio sono vissuto diecimila anni, dalla nascita delle società agropastorali alla loro progressiva scomparsa. Incerto, inquieto, sospeso immaginavo che sarei vissuto in un mondo nuovo, nella modernità. Nel tempo – studiando, leggendo, camminando – ho capito che il mondo antico dei padri e delle madri non veniva davvero sostituito dal mondo nuovo dei figli. Ho viaggiato con i piedi, con le idee, con il corpo, con i racconti degli altri, con i libri, con le nuvole, con le nebbie, il mio vento e le mie fiumare. Tranne i pochi in cui ero fuori, ogni anno, alle otto di sera del 7 settembre, entro nella stanza in cui sono nato, vedo mia madre e mio padre, parlo con loro. Felicia, mia moglie, Stefano e Caterina, i miei figli, che portano il nome dei nonni, forse colgono la solennità di questa mia stranezza. Mi sento, con le mie storie e i nomi a me più cari, un mediatore e un incidente, un passeggero, tra due Stefano e due Caterina. Per un attimo avevo pensato a due nomi diversi per i miei figli, poi mi è sembrato stupido rinunciare a due nomi pieni di storie per cercarne altri alla moda, tutti uguali, ispirati all’ossessione del presente.
Dormo, molte volte non dormo, nella stanza in cui sono nato, da settant’anni e tanto tempo, tante ansie, tante frette, tanti amori, tanti dolori mi hanno portato al punto di prima, anche se al punto di prima non si torna mai. Durante il lockdown la luce è diventata più luminosa, la fiumara sepolta ha trovato una sua voce, gli uccelli, i cani, le galline si sono fatti ascoltare, di nuovo. Sono tornate le lucciole, tante lucciole. Seduto sul letto, i ricordi viaggiano da soli, si fanno largo e spazio, con la loro pesantezza, la loro bellezza. Rivedo volti, storie, persone, bevute, canzoni, discussioni, pianti, risate che si sono succeduti e sovrapposti in questa stanza dove sono nato e dove sono sempre tornato. È una stanza dell’anima e una stanza mondo. La notte che morì mio padre nel 2002, feci da solo la veglia e parlammo una notte intera, raccontandoci quello che non avevamo saputo fare prima. Per mamma vegliammo io e mia sorella, ma l’indomani ci fu tutto il paese. Anche il bel tempo e le nuvole, come piacevano a lei.
Quando muore una persona anziana non si chiude solo una storia, si chiudono le “storie”, si chiude un’epoca, si chiude una casa, si estingue una famiglia, talvolta scompare un cognome (Lombardi Satriani, Meligrana: 1989). La vita e la cultura del vicolo sono finite da decenni, ma adesso i vicoli e le rughe diventano degli angoli bui, dei territori vuoti anche all’interno di paesi abitati. I mesi invernali sono quelli che fanno percepire fortemente una sorta di rischio chiusura dell’abitato, o comunque di stravolgimento degli spazi tradizionali. Il vuoto spaziale dà origine a una sorta di zona franca, a una specie di linea di confine, poco conosciuta e poco frequentata, evitata. I paesi in abbandono, con spazi deserti e vuoti, sono spesso senza più centro, senza piazza, senza bar, senza più rapporti, senza più punti di riferimento, con paesaggi stravolti. Adesso le strade sono vuote, le case chiuse, le persone non sono tornate, gli ambulanti non esistono più. Tutto in un trentennio.
Vado in piazza e non incontro nessuno. La ricordo piena e ciarliera. Bella e rissosa. Compatta pure nella sua frantumazione e viva con tutti i suoi funerali. Gli abitanti sono meno di mille, un quinto di quelli del 1950. Le poche classi rimaste sono formate da 3 o 4 bambini. Per due anni ci sono state nascite zero. In un paese che ha meno abitanti di un condominio di città, diventi oggetto di relazioni, umori e sguardi imprevisti. Giovani che somigliano ai padri e invecchiano come loro, prima di loro. Il paese è luogo degli affetti e dei tradimenti, delle nostalgie e degli addii, dei pianti e delle maledizioni. Un luogo mobile, che misura le tue mobilità.
Alla mia età molte illusioni sono crollate, molti miti tramontati, si sono sperimentati gli inganni e i disincanti, le menzogne delle ideologie e anche le bugie dell’antropocentrismo. Molto prima del Covid-19, del crollo delle Torri, delle guerre in corso, avevo compreso che il mondo non è nostro, ma è anche degli animali, delle piante, dei boschi, delle acque. Adesso so, definitivamente, che non si può tornare indietro e anche che nulla può più essere come prima. Abbiamo bisogno, per salvarci, per salvare la specie, se siamo ancora in tempo, di una grande rivoluzione culturale, morale, di rigenerare i luoghi e i cuori, di un nuovo vocabolario, di nuove parole, di nuove pratiche. Siamo sospesi, appesi, tra passato che non passa, ossessione del presente, paura del futuro. Dobbiamo pensare altrimenti, immaginare altri racconti. Responsabilità, senso e religione della vita, amore per gli altri e per gli animali, per il cosmo e per il pianeta, sono gli imperativi di chi è entrato in un mondo nuovo, non necessariamente migliore, in una vicenda che non aveva immaginato e che lo rende inquieto, smarrito, insicuro, fragile come i primi Sapiens, uomini-animali appunto.
Dal mio paese, dalla mia stanza, non me ne sono mai andato, nemmeno quando pensavo di farlo, nemmeno quando l’ho fatto. Ho camminato in questa stanza e questa stanza ha camminato. Da ferma, immobile, è sempre cambiata. Oggi cerco di raccogliere, senza tristezza, ricordi e pensieri, respiro, sospiro e rifletto, come se dovessi assumere la forza magica per andare avanti, quasi fossi il bambino di allora che deve iniziare un nuovo cammino. Raccolgo con amore le briciole degli auguri di mia madre, che a volte accoglievo con distrazione e anche con una certa insofferenza. Quei mille giorni che mi augurava mi spaventavano ed io giocavo, dicendo «cosa me ne faccio» e «non ti sembrano un po’ troppi?». Non so quanto e cosa resterà e avrà durata. Ma tutto quel che resta del passato, dei ricordi, della vita è necessario per orientarmi in questo mondo fragile, insicuro, senza un’idea di futuro. La vita non è fatta di certezze, di sicurezze, ma è sempre ricerca, viaggio, sosta, cammino. Col cammino ci si salva. E «chi vive un anno e un giorno, vede le feste di tutto l’anno».
Quando, tra i 20 e i 40 anni, giravo il mondo, andavo all’Università, nelle città, ai convegni, sentivo che tutti si domandavano, stupiti e compiangendomi, come in fondo avessi scelto di restare in paese. Nessun motivo pratico, privato, familiare, di amore mi salvava da uno sguardo che in fondo mi liquidava come “paesano”: incapace di andarmene. Poi, negli ultimi decenni, il mio essere rimasto in paese è stato lentamente considerato un atto di eroismo, una scelta saggia, una vera e propria fortuna con il vivere in un ambiente sano, genuino, protetto, lento. E allora come oggi il modo di considerare il paese è ideologico, esterno, etnocentrico. O ridotto a luogo della miseria e dell’arretratezza, o esaltato come luogo incontaminato e puro. Sempre fuori dalla storia.
Restare non è facile. Non lo è tornare. Non è facile partire. Non è facile ripartire. Cinquant’anni di vuoto hanno mutato economia, società, antropologia dei paesi. I sopravvissuti non sono eroi felici: stanno male, si sentono soli, si lamentano, litigano. Invidie, rancori, solitudini sono l’esito di un degrado economico e morale durato troppo a lungo. E anche il paese due grazie al quale il paese uno aveva una vita altrove, si apriva, realizzava scambi e dialoghi, oggi è praticamente in estinzione. Paese uno e paese due se ne vanno assieme e così tante illusioni, tanti legami, tante speranze.
Non so come far vivere ancora questo paese e se avrà una vita e quale. Sono cresciuto aspettando il ritorno di mio padre da Toronto. Accudito e protetto da mia madre, da sua madre, da tutte le donne della ruga. Sto invecchiando assistendo alla partenza dei miei figli. Incontro padri e madri che hanno tutti i figli fuori e le case costruite per loro vuote e a volte cadenti perché i muri crollano se non hanno chi li parla. Un incidente di restanza tra due generazioni mobili ed erranti. Vivo come un’ingiustizia la fuga dei figli e dei giovani perché non è una scelta, ma una costrizione. Qui non si può stare perché nessuno ha creato le condizioni per farlo.
Abito la casa dove sono nato, abito un pezzo della sua storia, ne abito un racconto. Abito in un paese che si disabita. L’idea di trasformare questo mondo in una “astrazione vetrificata”, in un borgo musealizzato, in un paese-merce, in cui le case valgono un euro e la memoria vale zero, in nessun caso è una soluzione. Gli slogan di maniera ed estetizzanti, le retoriche neoromantiche e lacrimevoli di nuovi compiaciuti e distratti rovinologi non creano consapevolezza e memoria, tanto meno nuova vita.
Sento, tuttavia, che non è tutto accaduto. Ma se io sono uno degli ultimi di un mondo, posso pensare quanto sono vane, vacue, vuote tante illusioni, tante retoriche sulla rigenerazione e sulle rinascite delle aree interne. Da tempo rifletto sugli “altrove possibili” per me e per il mio paese, provo a concepire mosse vitali, e ne ho scritto a lungo (Teti: 2004; 2017). So che al mio paese e ai paesi che si spopolano almeno devo sincerità e discorsi veri, analisi impietose e cure amorevoli.
Bibliografia
Lombardi Satriani, L. M., Meligrana, M., Il ponte di San Giacomo, Sellerio, Palermo, 1989.
Teti, V., Il senso dei luoghi. Memoria e vita dei paesi abbandonati, Donzelli, Roma 2004 (n. ed., ivi, 2014).
Teti, V., Quel che resta. L'Italia dei paesi, tra abbandoni e ritorni, Donzelli, Roma 2017
Il testo di Vito Teti è pubblicato in Contro i borghi. Il Belpaese che dimentica i paesi, curato da Filippo Barbera, Domenico Cersosimo e Antonio De Rossi, per i tipi Donzelli (2022), e promosso dall’Associazione “Riabitare l’Italia”. Contro i borghi, il quinto libro della collana Donzelli-Riabitare l’Italia, è una vera e propria invettiva contro la rappresentazione estetizzante del “borgo-merce” che separa invece di unire, che spezza il rapporto vitale tra l’insediamento e il suo interno, tra cibo e agricoltura, tra chiese e parrocchiani, tra castelli e castellani, che persegue la polarizzazione contro il policentrismo e la molteplicità delle forme dell’addensamento umano.