28/05/2019
# # # JOE PETROSINO VENIVA ASSASSINATO 110 ANNI FA # # #
Venerdì 12 marzo 1909. Muore assassinato a Palermo, a 48 anni, il poliziotto Joe Petrosino. «La sua vita era una placca d'argento: il distintivo numero 285 dell'Italian Branch Detective Bureau, la “squadra italiana” della polizia di New York. Quando gliela attaccarono al petto, Joe pesava 58 chili, era alto un metro e 70, aveva la faccia devastata dal vaiolo. “Joe, sei piccolo piccolo ma sei il migliore di tutti”, gli diceva sempre Theodore Roosevelt, quello che sarebbe diventato il presidente degli Stati Uniti d'America. Sembrava fatto di acciaio, non poteva mai immaginare di morire un giorno così, colpito alle spalle da un paisà che considerava meno di niente. All'anagrafe l'avevano registrato come Giuseppe Michele Pasquale Petrosino, nato a Padula, provincia di Salerno, il 30 agosto del 1860. L'Italia non c'era ancora, e la sua famiglia già pensava di andare lontano. Partirono tutti su un bastimento, lui, il padre, la matrigna, tre fratelli e due sorelle. Nel 1873 faceva il lustrascarpe, nel 1874 vendeva giornali in Canal Street, nel 1877 prende la cittadinanza americana, nel 1879 è netturbino, nel 1883 si arruola in polizia. In divisa ci sono solo irlandesi, e quel ragazzo scuro di pelle è l'unico che può entrare a Little Italy – al tempo la seconda città italiana più popolosa dopo Napoli – e scoprire cosa si sta rivoltando fra i malfamati vicoli dove sono ammassati più di un milione di emigranti. Ma anche assassini, avventurieri, magnaccia, evasi, latitanti. E quegli altri che appartengono alla misteriosa associazione chiamata La Mano Nera, la mafia che si è appena trasferita in America. Così nasce il mito di Joe Petrosino, il poliziotto di New York che combatte il crimine siciliano. Agente di pattuglia nella 13ª Avenue, detective, sergente, e alla fine quella placca d'argento. […] Dai primi sospetti sulle “lettere di scrocco” – le estorsioni – ai gangster che cattura mentre minacciano il tenore Enrico Caruso in tournée negli States, dalle retate contro gli “scippasangue” – i tenutari dei bordelli – alle indagini sugli anarchici amici di Gaetano Bresci, che a Monza ha appena assassinato re Umberto I. È abile nei travestimenti, s'infiltra in ogni ambiente, diventa ladro per rubare prove e inchiodare il rapitore di un bimbo, si finge sordomuto o mendicante, entra nella leggenda quando scopre i sicari del “delitto del barile”, un uomo ficcato dentro una botte e con i genitali infilati in bocca. Da quel momento i reporter raccontano tutto quello che fa e anche quello che non fa: Joe è sempre in prima pagina. Il nemico numero uno delle canaglie. Con questa fama di duro e di implacabile, l'assessore alla polizia di New York Theodore Bingham annuncia “mezzi eccezionali” e promette: “La Mano Nera scomparirà dalla nostra città”. In quegli stessi giorni dal consolato generale d'Italia spediscono un pacco al tenente nato a Padula, un regalo del governo italiano: un orologio d'oro con una dedica di Giovanni Giolitti incisa sulla cassa. Pochi mesi dopo, Joe Petrosino s'imbarca per l'Europa, destinazione Palermo. Il suo incarico è quello di sconfiggere La Mano Nera e catturare il suo capo, don Vito Cascio Ferro. Tutta la cronaca delle settimane precedenti alla missione del tenente è ricostruita nel libro di Arrigo Petacco – Joe Petrosino – attraverso documenti ritrovati negli archivi del Dipartimento di Giustizia dello Stato di New York. Il 9 febbraio del 1909 Joe è in navigazione sul Duca di Genova, lui sa che nessuno è a conoscenza della sua identità – viaggia sotto il falso nome di Giuseppe Valente, ma testimoni racconteranno in seguito che a bordo “c'era un uomo che si vantava d'essere un famoso tenente della polizia di New York” – quando milioni di americani hanno però già appreso della sua missione dalle pagine del New York Herald. Un'intervista dell'assessore Bingham. Due giorni dopo, la notizia è su tutti i giornali italiani. Compresi quelli siciliani. La mafia lo sta aspettando. La sera del 12 marzo piazza Marina è al buio: pochi i lampioni a gas, in fondo si intravedono solo le magnolie con le loro radici volanti. Verso le 20.40 Joe Petrosino esce dal Caffè Oreto lasciando tre lire sul piatto di ceramica, poi comincia a camminare in direzione dell'Hotel de France. Quattro i colpi di pi***la. Joe è disarmato. La sua Smith and Wesson, gliela trovano nella camera d'albergo sotto sedici “schede”. Una è quella di Paolo Palazzotto, nato a Palermo il 20 dicembre 1881, domiciliato al rione Capo. È lo zio del nonno di Domenico, il rampollo di mafia che più di un secolo dopo si pavoneggia per il parente che “ha ucciso il primo poliziotto di Palermo”. Joe lo conosceva bene, Paolo Palazzotto. L'aveva rispedito in Italia come “indesiderato”. Analfabeta, paralizzato alla mano destra, precedenti per ferimenti, oltraggi, lesioni contro il padre Santo, sfruttamento della prostituzione. In Sicilia “conviveva maritalmente con una cugina, Giovanna Spallina”, lavorava ufficialmente al porto, al commissariato del Molo un'informativa lo descriveva “di carattere estremamente violento, e per offese di pochissimo conto mette mano al coltello”. Paolo Palazzotto fu processato per l'omicidio di Joe insieme a Vito Cascio Ferro e altri 13 mafiosi. In nome di Sua Maestà Vittorio Emanuele III e per grazia di Dio e per volontà della Nazione furono tutti assolti» [Attilio Bolzoni, la Repubblica 24/6/2014].