09/02/2024
Vascelli di carta
Sergio Martini
Felici Editore, 2020
Consiglio di Sylvia Zanotto
Il titolo evoca qualcosa di molto fragile. La carta che l’acqua disfa in pochissimi istanti. I vascelli che invocano un tempo passato e allo stesso tempo onirico. Un richiamo poetico nel mondo intimo di una scrittura che cattura fin dalle prime pagine. Un giovane giornalista arriva su un’isola traghettato da un improbabile Caronte: la gentilezza non la conosce a abbandona il povero Francis, il nostro protagonista, fuori da ogni rotta transitabile, obbligandolo a ba****si e a scalare una scala misteriosa. Come nel viaggio del sommo poeta, anche qui, abbiamo, oltre al traghettatore, la guida, che invece del padre latino, scopriamo assomigliare al padre austriaco dell’introspezione della mente, dei sogni, dei sentimenti e delle emozioni. Almeno il nome lo ricorda: Sigmund. E l’isola potrebbe essere l’isola che non c’è, ma non ci assomiglia molto, anche se piano piano si insinuano altri dettagli che la rendono surreale e intrigante. La nostra guida non è molto brava, si sbaglia, gli fa attraversare la città in lungo e in largo, tornando indietro e cambiando direzione, allungando e dilatando il tempo che sembra non essere di casa sull’isola delle stramberie più fantasiose. Oh, qui si intravede il fantastico narrativo, il surreale e l’introspettivo di certi autori cari a Sergio Martini, come Kafka, Calvino e Baricco. Il titolo stesso è una metafora che rimane misteriosa fino a quasi la fine della storia. I vascelli di carta rappresentano sì, la fragilità, che fa tremare l’esile trama della nostra essenza e la pericolante impalcatura della nostra esistenza, ma sono anche la possibilità di fuga dalle costrizioni e ristrettezze che la vita impone ai membri di società ben strutturate e il cui equilibrio dipende da una cieca obbedienza a regole, cliché e dogmi socio-economici. La ricerca di un mondo diverso diventa una necessità del protagonista che lotta ai confini della follia per la propria libertà. La sua salute mentale è in bilico fra l’accettazione di un lavoro poco gratificante e la mancanza di affetti durante la sua infanzia. In una simile geografia, dove i sentimenti sono inesistenti, si ricompone un possibile futuro in un luogo dalle coordinate assenti (non esiste un’isola Saint Léonard) e quindi affidando per assurdo a un nuovo io la possibilità di riscatto. In questo hic et nunc della scrittura è possibile trovare una via d’uscita. Non necessariamente per ingabbiarsi di nuovo nel ruolo che la famiglia e la società ci ha affidato, ma essenzialmente in quello spazio magico dove il nostro io acquista forza e carattere e riesce a prendere forma. Negli affetti sepolti del naufrago compare una luce che sarà il faro capace di indicare vie nuove e possibili gioie. Come a teatro, si suggerisce nel finale, dove compare un simpatico doppione del nostro Francis dal nome di Molière a richiamare il malato immaginario che è in tutti noi. E qui compare la prima persona: Molière è lo spettatore, che si accinge a vedere lo spettacolo in cui il protagonista principale è Francis. Stiamo quasi per uscire dal mondo narrativo, il libro è quasi finito, sconfina nel mondo del lettore. Altri confini si smaterializzano: il finale è uno spettacolo teatrale. Siamo a teatro. Forse Sergio Martini vuole suggerire, come cura, la messa in scena di noi stessi, ai confini della realtà dove i mondi si scambiano con estrema facilità attraverso il gioco degli specchi, dei riflessi e delle porte scorrevoli che consentono di cambiare punto di vista. «L’isola offre ad ognuno la possibilità che non è concessa a nessuno: la scelta. Talvolta la vita te la impone, talvolta la suggerisce, ma il più delle volte ti spinge ritraendo la mano.» (p.202)
Martini però mette anche in guardia contro false aspettative: questo non è il luogo dove si possono pretendere le risposte. Quelle non ci sono. O perlomeno non sono affidate alla ragione o a quello che essa riesce a vedere: «Il senso è questo, Molière. Non lasciare che gli occhi ti spieghino il mondo!» (p. 201) Le alternative della fantasia viaggiano in geografie vastissime perché non limitate dalla realtà: «A Saint Léonard l’unico limite è il tutto, così vasto da lasciarti impreparato.» (p.202); senza fissarci sui particolari: «I dettagli, Molière, […] siamo così fissati sui dettagli che ci perdiamo tutto il resto.» (p.202) Una storia nella storia, una pièce teatrale che ha come scenario un’isola che non esiste, ma che ricorda l’isolotto di San Leonardo, che sorgeva a Napoli, dove oggi c’è la Rotonda Diaz, molti secoli fa. La leggenda narra che tutti lo frequentavano con passione, soprattutto i più poveri, i disperati, gli ex galeotti e i senzatetto. Come nell’isola di Sigmund, ritroviamo gli emarginati, i diversi, i matti. Nell’hic et nunc che solo il palcoscenico riesce a restituire: «Sigmund era - è - il momento, l’istante, l’attimo in cui avviene il passaggio, all’ultimo chilometro della realtà, che prende per mano come un padre, e come un padre lascia andare i suoi figli da soli, una volta superata la barriera.» (p.204) Un libro affascinante, sorprendente, quasi gotico e mai scontato, non tanto per conoscere chi siamo ma chi possiamo diventare.