23/07/2022
A Ponte Lambro non sono mai stata. È un quartiere ai margini della periferia est di Milano, un luogo che non conosco e la cui esistenza mi sarebbe rimasta ignota se non l’avessi scoperto durante le mie indagini immobiliari. Insieme a Gratosoglio e Quarto Oggiaro, infatti, era una delle poche zone nelle quali avrei potuto permettermi un trilocale senza mutuo.
Una zona “povera”, dunque. Talmente povera da non beneficiare della bolla immobiliare meneghina che, ormai da qualche anno, si è gonfiata oltre ogni ragionevolezza, persino a Rubattino o a Bande Nere. Un quartiere che, immagino, abbia pochi servizi, popolato non benissimo, lasciato al suo destino (o al suo degrado), dove non arriva neppure il riverbero della magnifica Milano che non si ferma mai.
Forse è per questo che quando ho sentito la terribile storia di Diana e di sua madre Alessia, che a Ponte Lambro ci vivevano, ho inquadrato subito la vicenda in un contesto di marginalità ed esclusione. Di abbandono. Di miseria sociale, se così possiamo dire, senza suonare stronzi e classisti.
D’altra parte, ogni volta che succede una tragedia di questo tipo, il 90% dei commenti che leggo è più o meno di questo tenore “bagascia di m***a, devi bruciare all’inferno, ti auguro di morire tra atroci sofferenze, schifosa bastarda, non sei una madre”.
Capisco l’impeto, il dolore, il disprezzo, la collera funesta. Però c’è un fatto: anche queste sono madri. Prima ancora, sono persone.
Persone che quel figlio non lo volevano. Persone in difficoltà. Persone tragicamente sole. Persone poco informate in merito ai propri diritti riproduttivi e ai metodi contraccettivi. Persone che avrebbero bisogno di aiuto ma non riescono a capirlo, a chiederlo, a procurarselo. Persone mal consigliate (o non consigliate affatto). Persone che stanno male. Persone che, forse, non hanno avuto molte possibilità (e le poche che avevano, magari, le hanno giocate male). Persone che, forse, non hanno avuto una famiglia accogliente. Persone che hanno problemi seri, profondi. Danni venuti prima del danno che vediamo noi.
Ogni volta che succede una tragedia incomprensibile, mi chiedo quali segnali l’abbiano preceduta. Quante patologie psichiatriche non diagnosticate. Quante violenze taciute o ignorate. Quanta alienazione. Quanta precarietà. Quanto disinteresse. Quanta difficoltà. Quanta mostruosa e disadattata consapevolezza di non valere niente, di non avere niente da offrire e niente da perdere. Quanta spaventosa certezza di non potersi salvare.
Ogni volta che succede una tragedia insopportabile (ne succedono spesso, soprattutto tra le mura domestiche), non posso non pensare alla tossicità in cui viviamo, di cui siamo parte attiva e passiva, mentre condividiamo lo spazio e l’epoca con persone che non vediamo, che pare non abitino il nostro stesso mondo, del quale non condividono valori né significati. Neppure quando sono principi basilari di umanità.
Ogni volta, insomma, mi chiedo quante persone abbiano voltato la testa dall’altra parte, fingendo di ignorare, preferendo non impicciarsi. Mi domando dove sia il tessuto sociale, la famiglia, i vicini di casa, gli amici, i colleghi, gli ex colleghi, la vecchia compagna di classe, il consultorio, l’associazione, la rete di salvataggio delle persone in difficoltà. E mi pare che la risposta sia sempre, tristemente, la stessa: non c’è. Non abbastanza.
Sia chiaro: certe tragedie succederebbero lo stesso (sono esistite sempre, nella storia). Forse, però, alcune potremmo evitarle, se ci fosse una presenza sul territorio, qualcuno a cui rivolgersi (a parte la parrocchia che evidentemente non riesce a intercettare tutto il malessere che fermenta in certi gangli della contemporaneità). Forse, se ci fosse una porta cui bussare, senza dover superare un esame morale, senza timore di essere trattati come umanità residuale, o giudicati, o umiliati, ecco forse in quel caso, magari, qualche essere umano in grave difficoltà troverebbe il coraggio di chiedere aiuto, prima di arrivare a commettere atrocità. Prima di gettare al cesso la vita e naufragare in un buio irreversibile.
Non lo so. Non so cosa pensare.
Guardo mia figlia che dorme nel suo lettino, su un bel parquet d’epoca, in un palazzo di inizio secolo, in un buon quartiere.
Lei e Diana si passavano quattro mesi.
Abitavano a pochi chilometri di distanza.
Come tutti, mi sono chiesta cos’abbia provato, quella bimba, abbandonata per giorni. Quanta sia stata cosciente. Quanta paura abbia avuto. Quanta fame. Quanta sete. Quanto bruciore alle piaghe.
Mi tiro indietro. Ho la bocca amara. Non ce la faccio. È un pensiero insopportabile. Fa piangere. Fa venir voglia di urlare. Fa impazzire.
Vado a preparare la pappa, che è ora di mangiare.