01/08/2024
Festa d'addio per l'Occidente che muore. Marcello Veneziani.
Prima la pagliacciata blasfema in mondovisione, poi l’indignazione rapida e corale, infine il silenzio e il tutto inghiottito nella routine, nel gioco delle parti. Avanti un altro, e via di questo passo verso il nulla. Passato il clamore e lo sdegno per il vernissage grottesco delle Olimpiadi, e nell’attesa della prossima “trasgressione”, proviamo a dire qualcosa al di là del fatto contingente e dell’insulto, meritato, al suo ideatore e al suo promotore, a cui possiamo per dileggio togliere la finale e ridurlo a Macrò.
Cosa c’è che deprime e indigna in questo ripetuto oltraggio al comune buon senso, alla tradizione religiosa e civile, allo sport e alla famiglia?
In primo luogo l’ansia di stupire e di stuprare la realtà ereditata, consolidata dall’esperienza di lunghe generazioni e a lungo condivisa nella civiltà d cui proveniamo. Cupio dissolvi, il piacere di dissolvere tutto ciò che era consolidato nei secoli, che rappresentava il fondo popolare di una visione condivisa e il fondamento di ogni società. Questa tendenza a invertire e sovvertire la realtà e la percezione comune è propriamente il sigillo nichilista del nostro tempo. Capovolgere tutto quello che finora si è creduto e pensato per ribadire la nostra superiorità e la nostra autonomia rispetto a chi ci ha preceduto. Mancare di rispetto, ridicolizzare per mostrare l’abissale differenza tra noi contemporanei che abbiamo il privilegio assoluto di vivere nel Tempo supremo e finale, dell’infinito presente globale, e loro, i prigionieri di epoche cieche, infami.
In secondo luogo la perversa volontà di infierire su chi sappiamo che non ve la farà pagare. È la sindrome dell’asino che sferra il calcio al leone morente, un tempo sovrano temuto del regno animale; la stessa cosa accade verso la religione cristiana in declino da tempo e talvolta propensa a coltivare la sua eutanasia nel generico volersi bene universale al posto di Dio. Se la cristianità si arrende, è facile dileggiarla, parodiarla, metterla alla berlina anche nei suoi aspetti più alti e drammatici, come l’Ultima cena. Offrendo in sovrappiù uno sfregio a Leonardo, che pure in Francia è gelosamente difeso al Louvre con la sua Gioconda. Il neopaganesimo è solo l’alibi di un colto travestimento: di dionisiaco c’è solo l’hybris distruttiva, nulla di sacro e di profondo. Non c’è Dioniso, al più Ozpetek, coi suoi film sulle famiglie trans.
Facile e vigliacco deridere una religione che non reagisce; come dicono tanti, provate a farlo coi musulmani. Chi ci ha provato, come il settimanale satirico Charlie Hebdo, ha pagato con la vita. Colpire la cristianità, come si fa da decenni (ricordo i blasfemi concerti di Madonna ma non furono i primi né gli ultimi) è come sparare sulla Croce rossa; non incorri in alcun tipo di sanzione e di reazione, nessuna fatwa, se non l’onda corta di sdegno che poi rientra nella bolla promozionale dell’evento, concorre a farne parlare, a moltiplicarne la pubblicità. Insomma giova all’evento.
In terzo luogo c’è la sostituzione della famiglia, dalla Sacra famiglia alla famiglia naturale, col gay pride, la società transgender e la dichiarazione universale dei nuovi diritti: io non sono ciò che la natura, la realtà, la storia, la tradizione dicono ma ciò che desidero essere, ossia sono quel che mi sento, anzi sono quel che mi sento adesso, poi potrò di nuovo cambiare. Non si tratta più di rispettare le scelte di ciascuno, accettare le inclinazioni proprie e altrui o semplicemente riconoscere la sfera privata della libertà, sulle quali si può concordare; e nemmeno di tutelare le minoranze da ogni prevaricazione, dileggio e aggressione, perché ci sono le leggi, i tribunali, le forze dell’ordine per farlo. Ma sostituire la realtà, la natura, la storia, la tradizione col desiderio soggettivo e il suo modo di vedere. Non dunque l’accettazione della diversità ma l’affermazione di una preminenza di quella diversità (a scapito di molte altre differenze) sulla famiglia, le identità, la diversità naturale dei sessi e la procreazione secondo natura. Suprematismo gay. Quello è il presente e il futuro; tutto il resto è il passato, da cancellare, vituperare e ridicolizzare.
E questa ideologia viene alla fine confezionata in un involucro arcobaleno in cui la fiction prevale sulla realtà, lo spettacolo sulla vita vera, il circo sulle relazioni umane, il carnevale sulle quotidianità. Non più il proverbio semel in anno licet insanire, ossia una volta all’anno è lecito impazzire, ma semper in anno licet insanire; anzi quel licet non va, perché implica quasi una concessione, un permesso speciale a tempo, quando invece è un diritto perentorio. È l’affermazione, anche sul piano dei sessi e della natura umana, che il virtuale sostituisce il reale, come già accade in altri ambiti della nostra società tecnologica e globale. Il fittizio, il surreale, l’allucinazione scacciano l’autentico, il genuino, il verace.
Nessuno ha il coraggio di trasgredire sul serio mettendo alla berlina o in discussione il sistema capitalistico globale, i suoi rapporti di forza, il suo predominio assoluto. Più facile accanirsi sul bersaglio fisso e inerme, perché già messo in croce.
Sommando questi fattori e la loro rappresentazione circense, ne viene fuori una specie di festa d’addio alla civiltà, un ostentato, euforico, a volte isterico, dichiarare morta la civiltà e gioiosamente dispersa al vento la sua eredità. Non solo accettare, affrettare e sceneggiare la decadenza della nostra civiltà, ma leggerla come un sollievo, una liberazione, un affrancamento da ataviche catene e ottusi passatismi. Come se la natura sia solo una convenzione, una buccia ideologica e uno stadio primitivo del passato. E non come il sostrato della nostra presenza nel mondo.
Si può arrivare perfino ad accettare il declino della propria civiltà, il tramonto dell’Occidente; ma che si debba festeggiare sulle sue rovine e brindare alla sua morte, è quanto di più id**ta, infame e autodistruttivo ci possa essere.
La Verità – 30 luglio 2024