04/11/2024
Il microfono di Trump e le oltranziste dell’Illinois
A caccia degli ultimi voti in Wisconsin, il candidato repubblicano mostra sul palco la sua arte di improvvisare e poi deraglia tra volgarità e razzismo
di Roberto Scarcella, inviato a Milwaukee
Una sciarpa ‘Trump 2024’: 30 dollari. Un cappello ‘Yes, I’m a Trump Girl’: 30 dollari. Un mini-Trump in plastica con il pollice all’insù: 20 dollari. Una felpa ‘Ho votato per un criminale condannato’: 40 dollari. Un cuscino con le sembianze di Trump: 30 dollari. Un Trump-portachiavi con un tasto dietro la testa che se schiacciato parla e dice ‘Make America Great Again’: 10 dollari. Una bandiera con Trump nei panni di Rambo: 20 dollari. Una maglia con la foto dell’attentato di Butler: 20 dollari (35 se ne prendi due). Una catena (non catenina, proprio catena) da mettere al collo con la foto di Butler e la scritta ‘Fight’ (il suo urlo post-attentato): 40 dollari. Pagate e prendetene tutti, questo è il suo corpo.
Miniaturizzato, gonfiato, travestito, ferito, arrabbiato, martirizzato. Santo e peccatore, vittima e vendicatore: a ciascuno il suo Donald Trump. E se l’accostamento a qualcuno può sembrare blasfemo, beh, hanno cominciato loro. Sulla spilla più indossata dai fan in attesa del comizio-fiume di Milwaukee c’è scritto: ‘Jesus is my saviour and Trump is my president’ (‘Gesù è il mio salvatore e Trump il mio presidente’). Tra gli oggetti in vendita – perché tutto, ma proprio tutto, qui, è in vendita – c’è anche la maglia ‘Pro God, pro life, pro gun’ (‘A favore di Dio, della vita e delle pistole’): come queste tre cose possano coesistere è uno di quegli equilibrismi impossibili su cui si fonda il trumpismo militante che viene dal basso e poi va dappertutto, anche a Milwaukee. Un mischione di cristianesimo, individualismo, disinformazione (loro la chiamano ‘informazione alternativa contro le bugie del Deep State’) e menefreghismo che fa fare discorsi che nel giro di un minuto mettono assieme i vaccini anti-Covid, la guerra in Ucraina, la legge sull’aborto, il muro col Messico e il cugino disoccupato in Wisconsin. Discorsi che vengono fuori che non è nemmeno mezzogiorno in attesa di entrare nel grande palazzo dello sport dove solitamente gioca la squadra Nba dei Milwaukee Bucks.
La falange giapponese
Prima di Trump c’è stato però molto altro, come in ogni spettacolo di varia umanità che si rispetti. A partire da un gruppo di giapponesi non in grado di spiccicare più di dieci parole in inglese. Girano con bandiere che inneggiano a Trump e un suo cartonato con cui ci si può fare le foto. Se gli chiedi perché sono lì, a che titolo, ti rispondono solo “Trump”, “Libertà” e “Siamo qui da tre mesi, volontari”. Fine. I maligni dicono che se li porta dietro Trump, comizio per comizio, pagando loro le vacanze in America con l’impegno di riempire eventuali posti vuoti sugli spalti.
Il blob repubblicano
Un’altra cosa salta subito all’occhio: la fila non è una fila, ma un ammasso di persone che si schiaccia da subito contro l’ingresso occupando lo spazio della piazza in larghezza. Sia chiaro, tutto fatto in modo estremamente pacifico. Eppure questo gigante blob umano segna una differenza sostanziale, che va al di là della sola apparenza, con la lunga e ordinata fila indiana che due giorni prima si era messa ad aspettare il comizio di Kamala Harris nella vicina Madison formando un serpentone chilometrico.
Sarà che i più arrabbiati sono così arrabbiati che ormai non escono nemmeno più di casa, ma passare ore gomito a gomito con i fan di Trump – almeno quelli presenti a Milwaukee – ti fa un po’ ricredere sulla narrazione pigra che vuole ai comizi del candidato repubblicano solo orde di barbari furenti. Gente allegra, invece, disponibile, chiacchierona, alla mano, in larga parte arrivata dal vicino Illinois, “dove vincono sempre i democratici e tira una br**ta aria”, spiega Suzie, che assieme all’amica Peggy vorrebbe andarsene “da quel covo di socialisti, ma sai lì abbiamo la famiglia”. “Lì” è la periferia nord di Chicago. Le elezioni in Illinois sono già decise in favore Harris, quindi hanno preso l’auto e sono venute in Wisconsin ‘a respirare aria migliore’, dicono. Perché in Wisconsin, con i sondaggi in sostanziale parità, tutto può ancora succedere.
Suzie mi allunga un volantino in inglese e spagnolo che semplifica all’osso, estremizzandole, le posizioni dei due schieramenti. Stando al volantino – tra le altre cose – i democratici vorrebbero regalare miliardi in contanti all’Iran, bloccare la pubertà degli adolescenti, abolire la libertà di parola, instaurare un controllo statale di stampo comunista e concedere l’aborto fino alla nascita. “Sono pericolosi”, mi dice, senza rendersi conto di quanto è pericolosa lei, oltranzista dell’Illinois, a parlare di armi, pena di morte e caccia all’immigrato.
Dispetti e spazzatura
Dall’Illinois sono arrivati anche Jill e Gary. Chiacchierando, Gary se ne esce con una storiella che dice molto del livello di tensione e sospetto raggiunto tra democratici e repubblicani: “Un mio amico ha comprato cinquanta cartelloni pro-Trump e li ha piazzati nei giardini di tutte le case della sua strada. Poi ha aspettato le reazioni. Così a seconda di chi lo teneva esposto e chi no, capiva chi è dei nostri e chi sta con la strega”, che sarebbe Harris.
Una mossa un po’ estrema, spia di un rapporto ormai dilaniato tra i due schieramenti: “Prima non era così, è cambiato tutto nel 2016 con l’elezione di Trump”, conferma Gary. A riprova di quanto detto, un altro seguace di Trump gira con un foglio stampato sulla schiena con sopra la scritta: “Mi chiamano nazista, mi chiamano spazzatura. Almeno non mi chiamano democratico!”.
Questa storia della spazzatura fa il paio con ‘le gattare senza figli’ di Harris, l’offesa di JD Vance diventata vanto di un certo elettorato democratico al femminile. A definire ‘spazzatura’ i sostenitori di Trump è stato invece Joe Biden, in una di quelle occasioni in cui, secondo i sondaggisti, avrebbe fatto bene a stare zitto.
I repubblicani hanno preso la palla al balzo e hanno cominciato a definirsi autoironicamante ‘spazzatura’ (girano già vari gadget a tema) al punto che, quando alle 4 del pomeriggio – ora X dell’apertura dei cancelli – non accade nulla, la folla, tra le risate, canta: ‘Let the garbage in’ (‘Fate entrare la spazzatura’).
Una volta dentro, le magliette curiose si moltiplicano, da quella con John Kennedy con in testa un cappellino rosso con scritto Trump alla ragazza con la scritta ‘Swifties for Trump’, come dire che nonostante l’endorsement per Harris della popstar Taylor Swift, la ragazza continua a supportare sia lei che Donald provando a spezzare il pericoloso assunto ‘O di qua o di là’, senza sfumature.
Girano anche tante maglie e cappelli dell’Nra, la famigerata lobby delle armi. Sul palco i vari oratori insistono nel fomentare quel tipo di (in)sensibilità, con una serie di voci cavernose e allarmate, simili a quelle che accompagnano quei filmati di catastrofi in cui sai già che prima o poi accadrà qualcosa di brutto. Cambia anche la musica rispetto ai comizi dem: nessuna popstar del momento (tutte pro Harris), tanto country, vecchi successi anni 60 e 70 e perfino la bocelliana ‘Con te partirò’. Oltre a un inno americano straziato dalle stecche della cantante.
‘Non votatemi, mi raccomando’
Sale sul palco l’ex candidato indipendente Robert F. Kennedy Jr.: si è ritirato e schierato con Trump in cambio di un posto nella futura amministrazione, se sarà il tycoon a vincere. Dice una cosa che suona come un controsenso: “Troverete il mio nome sulla scheda, ma mi raccomando, non votatemi, è importante”. Il problema nasce dal fatto che in Wisconsin e Michigan, Kennedy non ha ritirato la candidatura in tempo, e per assurdo potrebbe far perdere il suo alleato, visto che il margine di scarto tra Harris e Trump potrebbe ridursi a una manciata di voti.
Previsto alle 20, l’intervento di Trump inizia con oltre un’ora di ritardo. Arriva da un altro comizio in Michigan, ma non sembra affatto stanco, iniziando a sciorinare tutto il suo repertorio, da ‘Fight!’ a ‘Make America Great Again’. Poi urla felice “Drill baby drill”, riferendosi al suo piano di trivellazioni a tappeto, e chiama Harris “Pocahontas”, chiedendosi poi, con tanto di ghigno: “Sono stato razzista?”.
Da gaffe a tormentone
Il meglio e il peggio lo dà quando dal fondo del palazzetto un gruppo consistente gli urla che non si sente bene. Trump incolpa il microfono e chi l’ha messo lì, minaccia di non pagare o licenziare chi ha sbagliato, poi stacca il microfono dall’asta, se ne fa dare un altro e con il piglio da consumato performer, ogni tanto – qua e là – lancia battute sul microfono, trasformando una gaffe in un tormentone.
È senza dubbio un animale da palcoscenico. E il talento provocatorio c’è, quando dice “qualcuno voleva farmi chinare in avanti per poi dire che sono vecchio e ho mal di schiena”. Poi deraglia, inizia a mimare una fe****io sull’asta. Sente ridere di gusto e ripete la performance. Galvanizzato dal suo pubblico – che al posto di fermarlo lo aizza – va fuori controllo. Un grande improvvisatore con un canovaccio retrogrado, sessista e razzista ha in pugno un bel pezzo d’America, se anche il più grande lo scopriremo molto presto.
A caccia degli ultimi voti in Wisconsin, il candidato repubblicano mostra sul palco la sua arte di improvvisare e poi deraglia tra volgarità e razzismo